L’ingegnere di Einstein

Caro Diario, come sai stamattina sono stato all’Università del Sannio per raccontare alle ragazze e ai ragazzi del corso di Automatica del Dipartimento di Ingegneria il lavoro ben fatto e l’uso consapevole delle tecnologie.
Nei giorni scorsi avevo rielaborato un articolo che mi ero riproposto di utilizzare come base della discussione, lo puoi leggere qui, però poi mi sono ricordato di una citazione di Albert Einstein sugli ingegneri e grazie al signor Wikiquote l’ho trovata e ho cominciato proprio da lì. La citazione è questa: «Anch’io dovevo diventare ingegnere. Ma trovai intollerabile l’idea di applicare il genio creativo a problemi che non fanno che complicare la vita quotidiana – e tutto ciò unicamente al triste scopo di guadagnare denaro.»

Come dici amico Diario? La citazione è un poco provocatoria? Certo che sì, ma è fatto apposta, per mettere in moto sinapsi e neuroni, devo confessare che ho anche rincarato la dose, aggiungendo che l’ultima parte della citazione di Einstein, quella che si riferisce allo scopo di guadagnare denaro, oggi non è più vera, perché la profezia di Harry Braverman in Lavoro e capitale monopolistico (1974; tr. it. 1978) si è puntualmente avverata, e sono sempre più numerosi gli ingegneri che fanno lavori puramente esecutivi e pagati meno di un bravo idraulico o pizzaiolo, naturalmente senza nulla togliere agli idraulici e ai pizzaioli, solo per rimarcare che c’è stato un tempo in cui non era così.

Facciamo così, ti riassumo le cose che ho raccontato con l’aiuto degli appunti del mitico prof. Luigi Glielmo, che non solo mi ha invitato ma è stato mio complice in questa bellissima esperienza, che lui ti assicuro per me è un amico straordinario, uno che negli anni mi ha consigliato libri meravigliosi come I misteri dell’alfabeto e I misteri dei numeri di Marc-Alain Oaukin, che mi ha ospitato per un mese quando ho dovuto fare dei lavori a casa mia, che è curioso, colto, disponibile ed è meglio che mi fermo qui perché altrimenti non la finisco più.

Allora, dopo Einstein è stata la volta di Richard Sennett e di Hannah Arendt, della differenza tra Animal Laborians e Homo Faber, di Los Alamos e di Robert Oppenheimer, della bomba atomica, dei tecnici che quando si mettono a fare una cosa non sanno quello che fanno, del perché Fare è Pensare.
Come dici caro Diario? C’è un refuso? No, non è un refuso, la «e» tra fare e pensare è proprio «è», con l’accento.
A proposito, non ti ho detto ancora che come faccio sempre in questi casi tra una cosa e l’altra ho cercato di coinvolgere le ragazze e i ragazzi presenti e così è venuto fuori, per farti qualche esempio, che nessuna/o dei presenti sapeva chi sono Sennett e Oppenheimer e cosa era successo a Los Alamos, mentre 14-15 sanno chi è Hanna Arendt.

Il passo successivo è stato raccontare perché non basta sapere «cosa fare» e «come fare» ma bisogna chiedersi anche «perché» fare le cose e questo ci ha portato al lavoro ben fatto, a mio padre, alla conversazione nella quale Primo Levi racconta a Philip Roth del muratore che gli salvato la vita nel campo di concentramento, a Cesare Pavese e a La luna e i falò.
Sì, amico mio, ho raccontato perché il muratore di Levi pur odiando il nazismo, i tedeschi e tutto quello che il loro mondo rappresentava se gli chiedevano di fare un muro lui lo tirava su bello forte e dritto, e perché mio padre quando finiva la posa di un pavimento poi mi chiamava e mi faceva mettere la livella al centro e ai quattro lati e quando gli dicevo «pà, è perfetto» faceva un sorriso che ti riempiva il cuore, e perché Nuto dice ad Anguilla che «l’ignorante non si conosce mica dalle cose che fa, ma da come le fa».
Qui ti confesso che non ho chiesto chi conosceva Levi, Roth, Pavese, ecc., però si sono messe/i a ridere quando ho spiegato che non lo avevo fatto perché in mancanza di mani alzate avrei potuto essere vittima di un istinto suicida.

Il passaggio successivo ha riguardato le tecnologie e il loro uso consapevole, e qui sono partito dall’importanza di conoscere e di saper utilizzare nel modo giusto gli attrezzi del proprio mestiere – vale se sei falegname, se sei motorista, se sei idraulico e se sei ingegnere informatico o di automazione – per arrivare all’importanza di allargare l’area della propria coscienza (sì, ho citato anche Allen Ginsberg e la beat generation, naturalmente senza fare domande), di essere autori, produttori, imprenditori di se stessi piuttosto che esecutori malpagati, ingegneri alle prese con pezzi di programma che non sanno se saranno utilizzati per un impianto idrico o per un robot soldato.

A questo punto è intervenuto il prof. Paolo Rubino con un’osservazione preziosa, che provo a riassumere così: «ma non è che facciamo un torto a questi ragazzi caricandoli di un bisogno di consapevolezza che potrà venire soltanto più avanti con l’esperienza?; ma perché non considerare anche il lavoro che stiamo chiamando esecutivo come una tappa in parte utile e in parte inevitabile di un processo di crescita che ha bisogno di tempo per manifestarsi nella propria interezza?»
Come dici amico Diario? Perché ritengo preziosa questa considerazione?
Per due ragioni: la prima perché ha permesso a me di dire che sono d’accordo con Paolo, nel senso che considero anche io l’esperienza una parte importante di questo percorso, e nell’esperienza ci stanno per definizione tappe iniziali e intermedie; la seconda perché ha permesso a me, a Paolo, a Luigi e alle/ai ragazze/i di convenire sul fatto che c’è una differenza importante tra approccio e risultato e che l’approccio prima si acquisisce e più aumentano le possibilità di avere buoni risultati.

Per genio e per caso il tema successivo è venuto come il cacio sui maccheroni, perché ho citato la blockchain e ho chiesto a chi sapeva che cos’è di alzare la mano. Non la ha alzata nessuna/o. Sì, amico Diario, hai capito bene, nessuno degli studenti del secondo anno di ingegneria presenti all’incontro ha detto di sapere che cosa è una blockchain, e però poi quando ho chiesto se sapevano che cosa sono i bitcoin l’80% di loro ha alzato la mano.
Lo posso dire? A me è sembrato un esempio paradgmatico di uso inconsapevole di una tecnologia: l’attenzione viene catturata dalla possibilità di guadagnare molti soldi in poco tempo e si perde di vista che bitcoin è una blockchain, e chi lo perde di vista non sono i miei genitori, persone meravigliosi e semplici di un tempo che non c’è più, ma è una intera classe di future/i ingegneri.

Per non farla ancora più lunga di come la sto facendo aggiungo solo che dalla blockchain siamo ritornati all’importanza di comprendere le cose nella loro molteplicità, al bisogno di profondità al tempo di internet, a Lao Tze, al Tao, a Rifkin, alla capacità di risolvere problemi, al Manifesto del lavoro ben fatto, e da lì ancora a libri come Le trasformazioni silenziose di Jullien, L’ordine del tempo di Rovelli e, modestia a parte, Il coltello e la rete.
Ah, non ti ho detto ancora che ho concluso il mio speech proprio con una citaziore dal libro di Rovelli, ho letto il brano di pag. 152, dalla tiga in cui scrive «Noi siamo storie per noi stessi. Racconti.», alla riga in cui scrive «Io sono questo lungo romanzo che è la mia vita.».
Sì, ho terminato augurando loro di vivere vite che siano lunghi meravigliosi romanzi nel senso raccontato da Rovelli.

Ecco, a questo punto se non fosse venuta in mio soccorso una delle studentesse presenti questa mattina, Carmen Giangregorio, avrei dovuto scrivere la parola fine, e invece grazie a lei ti posso riassumere anche la parte finale, quella relativa alle domande, che poi spero siano il ponte verso nuove domande, e opinioni e pensieri, di chi ha partecipato e di chi invece ha soltanto letto questo articolo.
La prima domanda è stata proprio di Carmen Gianregorio, che mi ha chiesto quando è stato che ho capito che volevo fare il sociologo.
La seconda è stata di Carmen Compare, che mi ha domandato se mi aspettavo di riuscire come sono riuscito nella vita, di parlare con tante persone che ascoltano le cose che dico.
La terza è stata di Silvio, che ha ricordato una cosa che avevo detto su Lao Tze per chiedermi se il principio del Non agire (Wu WEi) non fosse in contraddizione con il lavoro ben fatto.
La quarta è stata di Andrea, che partendo dal fatto che avevo detto che sono un uomo fortunato mi ha chiesto se la fortuna esiste e come si fa ad essere un uomo fortunato.
L’ultima è stata di Debora De Luca che è partita anche lei dalla mia affermazione che nella vita bisogna cercare di seguire quello che si ama per ricordare che spesso ciò che si ama non riesce a garantire la quotidianità e per chiedermi come ci si deve comportare in questi casi.

Ecco, adesso mi fermo davvero, le mie risposte te le dico più tardi caro Diario, così magari ci pensi e mi dici come risponderesti tu alle domande di queste/i ragazze/i.
bn3 CLASSE G 12, CORSO DI AUTOMATICA, DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL SANNIO
Carmen Giangregorio
Buongiorno prof., prima di scriverle mi sono presa un un po’ di tempo per riordinare le idee.
La lezione di ieri, come la lettera al suo “caro amico diario”, e la risposta alla domanda che le ho posto, hanno fatto sì che io potessi consolidare il mio pensiero, il mio modo di vivere la vita, che si basa su due grandissime menti:
quella di Charlie Chaplin che dice «Fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un’opera di teatro, ma non ha prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca priva di applausi.»;
quella di Arthur Schopenhauer, alla quale mi sono potuta avvicinare grazie al sussidio del mio grandissimo professore di storia e filosofia delle superiori, ed è proprio grazie a lui che ho potuto ammirare ogni piccola sfaccettatura della filosofia di questa mente immane: «La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.»
È proprio utilizzando questa citazione di Schopenhauer che mi ricollego all’augurio che ci ha fatto ieri in aula, «di vivere vite che siano lunghi meravigliosi romanzi nel senso raccontato da Rovelli.» Personalmente spero di poter scrivere il mio romanzo e di sfogliarlo in modo disordinato come solo io, da grande disordinata, posso fare.
Concludo confidandomi con il suo “caro amico diario”, dicendogli che tutto ciò mi ha fatto ricordare che non devo smettere mai di sognare e di inseguire il mio sogno, che è sempre stato li da quando avevo 3 anni, soltanto che ultimamente non credevo più si potesse avverare, ma solo ora capisco che devo impegnarmi perché possa realizzarsi. A presto.

Carmen B. Compare
Stamattina nella “nostra” università, si respirava un’aria nuova, un’aria diversa.
Il sociologo Vincenzo Moretti è venuto a farci visita, per iniziativa del professor Glielmo, e ci ha esposto le sue opinioni relative all’uso consapevole delle tecnologie e al lavoro ben fatto.
L’esposizione di oggi è stata chiara, precisa, emozionante sotto ogni punto di vista e ironica quando serviva. Ho ascoltato parole nuove, parole umane, che mi hanno fatto aprire gli occhi su molti aspetti, sia per quanto riguarda il quotidiano che per quanto riguarda la vita lavorativa.
Mi son resa conto anche di quanta poca conoscenza abbiamo rispetto a persone/cose che hanno fatto la storia; e dico conoscenza e non cultura perché di quest’ultima tutti ne siamo dotati.
Tutto si è chiuso con una citazione di Rovelli, bella ed incoraggiante, che ci invogliava ad essere noi stessi e che noi stessi esistiamo e siamo in quello che facciamo.
Perché effettivamente è così, non c’è nulla di più vero, noi siamo i timoni della nostra vita, quella che non deve scivolarci di mano, siamo noi a scegliere come viverla!
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