Elogio della consapevolezza

Caro Diario, te lo ricordi Ronin, il film con Robert De Niro e Jean Reno? Per me è uno di quei film – come La Parola ai giurati, Matrix o Kill Bill, per fare qualche altro esempio – che se lo vedi con occhi giusti ti suggerisce tante cose, come ad esempio quando Sam dice «c’è chi fa parte del problema, chi della soluzione e chi del paesaggio» oppure «signora, non entro mai in nessun posto se non so come uscirne».
Ronin mi è tornato alla mente ieri perché sono inciampato in un post di quasi sei anni fa che avevo intitolato «Ha ragione Hanna Arendt. Ovvero: se non sai come tapparlo, non lo fare il buco». Detto in poche parole partivo dal disastro della piattaforma BP nel Golfo Messico per dire che non sempre tra Richard Sennett e Hanna Arendt – tra l’idea che «fare è pensare» e l’idea che «le persone che fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno» – aveva ragione il primo, nonostante io sul punto faccia da sempre il tifo per lui. Avevo concluso ricordando che da ragazzo, a Secondigliano, si usava dire «se non sai come tapparlo, non lo fare il buco», che era come dire «preparati in ogni caso una via di uscita», «costruisciti una soluzione alternativa», «non farti trovare impreparato di fronte a un imprevisto o un problema».
Ritornandoci su mi sono detto due cose:
la prima è che gli esempi di buchi fatti prima di sapere come tapparli – un esempio per tutti le armi in grado di prendere autonomamente la decisione di uccidere di cui stiamo discutendo qui – tendono a moltiplicarsi piuttosto che a ridursi;
la seconda è che oggi come mai in passato abbiamo bisogno di consapevolezza.

Il messaggio è: educare le persone a usare in maniera consapevole le tecnologie. Tutte le tecnologie. Quelle analogiche e quelle digitali. Perché semplicemente ma non banalmente il coltello come la rete, il bastone come i social network non sono né buoni e né cattivi, è il modo in cui li utilizziamo a determinarne le qualità.
Come ha raccontato Salvatore, un bambino di prima elementare, con il suo disegno, il bastone usato per appoggiarsi è buono, usato per darlo in testa a una persona è cattivo.
Se leggi questo post, amico Diario, trovi la metodologia, le idee e le esperienze che sostengono il nostro lavoro.
Come dici? Se dovessi sintetizzare il tutto in una sola frase che cosa direi? Che tenendo assieme lavoro ben fatto, uso civico delle tecnologie e consapevolezza è più facile tenere assieme il fare e il pensare, è più facile  attivare la capacità critica, la creatività, l’intelligenza di chi studia, a ogni età.

In un mondo in cui i processi di apprendimento sono riferibili sempre più all’ambito della socialità piuttosto che a quello dell’informazione essere parte della soluzione e non del problema vuol dire da parte di chi insegna puntare a formare teste ben fatte invece che teste ben piene, da parte di chi impara acquisire le conoscenze e le competenze necessarie per utilizzare al meglio la cassetta degli attrezzi (tecnologie) analogici e digitali che di volta in volta avrà a disposizione. Gli studi e le esperienze che abbiamo fatto fin qui – abbiamo perché naturalmente non sono da solo in questo lavoro – ci dicono che vale a ogni età e in ogni fase del processo di apprendimento.

Ecco, alcune delle ragioni per le quali «consapevolezza» è una parola importante sono queste, e mi piacerebbe tanto ragionarne con te e con chi ci legge, che più siamo in tanti a discuterne e più vengono fuori idee, buone pratiche, opportunità.
Come si fa a partecipare ormai lo sai, tu e i nostri lettori potete scrivere quello che pensate e/o raccontare le esperienze che state facendo e inviarle a partecipa@lavorobenfatto.org, come sempre sarò felice di pubblicarle.
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Monica C. Massola
Se penso alla consapevolezza mi viene subito in mente Castaneda, ma anche lo yoga, la psicomotricità. Ma ancora non so se la consapevolezza sia la domanda, che come Neo in Matrix, ci portiamo dentro a prescindere, o sia la domanda che nasce quando ciò che facciamo ci pone una domanda e noi accettiamo di iniziare a cercare risposte. Forse tutte e due, ma poiché la domanda che tu fai, Vincenzo, apre uno scenario educativo, provo a pensare ad una riflessione che stia in questo ambito.
E allora sento che per farlo dobbiamo chiamare in scena il corpo (non il nostro corpo ma il corpo che siamo noi) il corpo a scuola, il corpo che fa e progetta, che impara agendo e progetta facendo, che scopre muovendosi, e ci muove per scoprire, il corpo che deve trovare spazio e diritto di azione nei dispositivi formativi; ma che necessita anche di formatori che ne legittimino la presenza. Una dimensione corporea la nostra, che impara, in diversi modi, e integra, guida e supporta il pensiero.
Questa presenza, del noi corpo, nominata da docenti e formatori, ci aiuta poi a pensare alle azioni, a quelle motorie, quelle emotive, quelle verbali, quelle cognitive, a far crescere consapevolezza. A questo punto il rapporto con il mondo, le tecnologie, diventa più connesso o connettibile, si riempie di domande e collegamenti.
Prima di fermarmi un’ultima considerazione: il nostro rapporto con strumenti nuovi come smartphone e computers, in virtù della possibilità di interazione (cosa non possibile con libri e tv) con altri umani e non solo, chiama in scena in misura ancora maggiore il nostro corpo e le nostre capacità di stare al mondo, conoscerlo e concepirlo come intero, di essere soggetti attivi. Il dispositivo stesso ci chiama ad essere più consapevoli perché convoca le nostre emozioni, le nostre parole orali e scritte, le narrazioni, una pluralità di azioni, e di comunicazioni, e spesso anche il pensiero, e il pensiero di ciò che devo pensare per fare o per dire.

Cosimo Saccone
Leggendo il dibattito che si è sviluppato finora con i diversi commenti mi sembra che venga messa un po’ troppa enfasi polemica sul presente e sulle tecnologie esistenti (smartphone e tablet in particolare), dimenticando che le tecnologie di cui il Prof parla (e non a caso sottolinea la distinzione analogico-digitale) costituiscono un ventaglio estremamente ampio. Oggi si pone il problema di uso consapevole di internet, dei tablet, delle stampanti 3d, dei robot, ecc, ieri l’essere umano aveva il problema di uso consapevole della tecnologia-libro, ad esempio. Nel 1600 Cervantes creava il personaggio di Don Chisciotte, il cui amore morboso per un certo tipo di romanzi gli fa perdere del tutto il contatto con la realtà. Anche Cervantes quindi, nel 600, poneva la problematica dell’uso consapevole dei media e delle tecnologie (nel suo caso il romanzo). Nel Sanremo 1997, nel brano “A casa di Luca”, Silvia Salemi cantava: “questa è un’era subdola che ti inchioda il cuore e la vita ad un televisore”. Nel 97 il problema era il televisore. Fino a un non lontanissimo passato tutti si accanivano contro i videogames (oggi a dire il vero mi sembra che la crociata contro i videogames si sia un po’ attenuata, forse perchè ormai sono diventati una tecnologia trans-generazionale). Oggi il problema è lo smartphone (che tutti criticano e di cui tutti abusano). Domani il problema sarà qualche altra diavoleria. L’essere umano ha sempre avuto e sempre avrà qualche tecnologia dalla quale dipendere e dalla quale difendersi.
Dato questo sfondo pongo due questioni. Il prof. scrive «oggi come mai in passato abbiamo bisogno di consapevolezza»; se questa affermazione è giusta è logico ritenere che man mano che andiamo avanti avremo bisogno di livelli di consapevolezza più elevati. E, quindi, persone sempre più attrezzate culturalmente e capaci di sviluppare capacità critiche. La seconda questione è quella sulla quale il prof. specificamente ci interroga: «Ecco, le ragioni per le quali per noi “consapevolezza” è una parola importante sono queste, e ci piacerebbe tanto discuterne con voi, che più siamo in tanti e più idee si confrontano». Come ci si difende? Come si produce consapevolezza? Come si sviluppa spirito critico? Se guardiamo alla realtà storica che stiamo vivendo (sto scrivendo durante la notte successiva ai gravi episodi di Bruxelles) e al mare di informazioni (e contro-informazioni) da cui siamo bombardati (e non per chissà quale complotto, ma perchè semplicemente la realtà è estremamente complessa), come sviluppiamo consapevolezza e spirito critico? Se la realtà è così difficile come distinguiamo il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il buono dal cattivo? Alla fine le categorie che abbiamo per comprendere la realtà sono quelle semplici di sempre (o forse abbiamo la possibilità di sviluppare categorie interpretative più raffinate ed elaborate?). Forse che il terrorismo islamico sia una sorta di reazione alla difficoltà di comprendere una realtà che muta sempre più rapidamente e che non si è in grado di comprendere (e che fa paura perchè rischia di travolgere un sistema di valori e di poteri ormai traballanti)? E non riuscendo a comprendere la realtà si delega tutto ad un libro? (Altro che smartphone, purtroppo c’è chi dipende ancora dal Libro). E ancora. Il 17 aprile si vota un referendum. Quante delle scelte che faremo saranno realmente consapevoli e non il frutto di influenza reciproca o indicazioni di partito? Vorrei fare altri esempi ma non voglio dilungarmi troppo, anzi, scusate se ho divagato ma penso che la questione metodologica sia fondamentale, in quanto da essa dipendono tutte le nostre scelte, tutti i nostri comportamenti (almeno quelli che hanno la pretesa di essere consapevoli). In conclusione penso che il dono della consapevolezza sia un traguardo estremamente lontano che si può avvicinare attraverso lo studio, il confronto con gli altri, il dialogo interiore, e, forse, altro ancora.

Sabrina Lettieri
Quando penso al ruolo che la tecnologia sta assumendo nella nostra società, mi ritorna alla mente la distinzione che Émile Durkheim, padre fondatore della sociologia, effettua tra solidarietà meccanica e solidarietà organica.
Nell’analisi effettuata dall’autore, la solidarietà si identifica con una particolare tipologia di rapporto sociale. La solidarietà meccanica è propria delle società primitive e si caratterizza dalla coscienza collettiva degli individui che le compongono. Al contrario, la solidarietà organica è caratterizzata da una forte individualità, ed è propria delle società moderne. I fenomeni che conducono dalla prima tipologia di solidarietà alla seconda sono la divisione del lavoro, l’evoluzione del diritto, e il prevalere della logica economica.
In sintesi, il legame sociale non è più “etico”, ma basato sulla logica del mercato e della ricchezza.
Credo che la tecnologia sia legata a questo discorso, perchè reputo che nel corso del tempo anche questa dimensione abbia contribuito a renderci sempre più “organici” e meno “meccanici”.
E l’accezione di questa affermazione è più negativa che positiva.
Così come Anita, Vincenzo, Irene, Nando e Lorenzo, credo che bisogna imparare a fare un corretto utilizzo dei dispositivi che la tecnologia ci offre. Tutti, sia grandi che piccini, dovremmo essere in grado di padroneggiare queste risorse, e di non essere mai subordinati ad esse.
Quando parlo di risorse, mi riferisco in maniera maggiore ai dispositivi tecnologici di uso comune, quali smartphone, i pad e via discorrendo. Tecnologie che sempre più spesso ci “assorbono”, impedendoci di vivere i momenti più spensierati della nostra vita con spontaneità e semplicità.
Rispondere a un nostro interlocutore mentre lo si guarda negli occhi (al contrario del messaggio comunicato per iscritto) ci impedisce di pesare ogni singola parola, di “costruire” ciò che stiamo per dire, rendendoci più diretti e spontanei. Diventa anche meno ossessivo il pensiero ricorrente del dover dare una giusta immagine del proprio sé, perchè ciò che viene messo per iscritto (su di un social, ad esempio) diventa di dominio pubblico e facilmente commentabile (e perchè no, anche fraintendibile).
Credo che distaccarsi per un attimo (e per più di un attimo) da questo “assorbimento” ci consenta di sfruttare in maniera maggiore la nostra immaginazione, e le percezioni che possono derivare dai nostri sensi. Immaginate quanto potrebbe essere bello imprimere un ricordo nella nostra mente, proprio come se fosse una diapositiva da poter “visualizzare” ogni qual volta se ne ha la necessità, senza dover cercare tra gli album dei nostri cellulari, computer, ecc.
Certo, forse quel ricordo impresso si sbiadisce col tempo. Ma di certo non verrà smarrito tra le innumerevoli cartelle di un archivio elettronico dimenticato in un cassetto.

Anita Fabbretti
Le tecnologie sono strumenti. Per fare, per comunicare. Come le usiamo fa la differenza, ma la fa ancora di più la possibilità di accedervi, di poterle utilizzare. Ancor prima dell’uso consapevole. E’ questo che oggi crea stratificazione sociale, che ci unisce o ci divide, che ci rende parte del sistema o ci relega ai confini invalicabili di questo. Le tecnologie sono un’opportunità, ma possono diventare anche una schiavitù, la nostra, inconsapevole. per questo vanno comprese nella loro parte più impalpabile, quella che non mostrano. Consapevolezza di quanto possano fare del bene, ma proprio per questo di quanto possano anche causare un male. Individuale o collettivo. Non esiste una tecnologia perfetta che non abbia il rovescio della medaglia. La tecnologia deve rimanere al servizio delle persone e va conosciuta, padroneggiata. Va adeguata. Il progresso tecnologico è spalmato in tutti i settori. Sembra crescere più velocemente delle competenze che servono per crearlo. E’ il paradosso che viviamo. Una rincorsa ad essere noi adeguati alla tecnologia piuttosto che il contrario. La sfida si gioca tutta su questo piano. Rimanere noi i “manipolatori” degli strumenti e non gli spettatori passivi, a volte impauriti, di un processo inarrestabile, quanto necessario. Forse.

Vincenzo Orefice
Il mondo delle tecnologie è in continuo sviluppo e giorno dopo giorno mi accorgo di come le persone siano sempre più dipendenti da queste e di come le tecnologie possano in un certo senso manipolarci. Tutti oggi le usiamo e la cosa che mi colpisce particolarmente è vedere persone di età avanzata che sentono il bisogno di approcciarsi ad utilizzare iPad e cellulari di ultima generazione per essere anche loro “always on” cioè sempre connessi così come lo sono i giovani di oggi appartenenti, in maggioranza, alla “look down generation”. Spesso però le utilizziamo senza avere la giusta consapevolezza, non ci poniamo il problema se l’utilizzo che stiamo facendo di quella tecnologia è quello giusto. Passiamo tanto tempo sui social e non ne approfittiamo per fare una ricerca importante e incrementare le nostre conoscenze, sfruttando al massimo il tempo che abbiamo a disposizione, che è sempre prezioso. Le tecnologie non sono né buone né cattive, ma è l’uso che facciamo di queste a fare la differenza. Come dice De Biase: “Noi non siamo i nostri like”, dobbiamo essere più attivi, interagire, collaborare, esprimerci e non fermarci mai dinnanzi ad un semplice post che viene letto, ma andare, oltre, fino in fondo perché dobbiamo metterci in gioco cercando di entrare nel gruppo di quelle persone che fanno parte della “conscious generation”.

Irene Casa
“Si stava meglio quando si stava peggio”. Numerosi sono coloro che oggi sono pronti ad affermarlo, sempre di più sono le persone convinte che il progresso scientifico e tecnologico dei tempi odierni sia in realtà solo un grande abbaglio, una trappola che cela insidie e pericoli. Secondo me, invece, questo è ancora il “migliore dei mondi possibili”, come diceva Gottfried Wilhelm von Leibniz, sta a noi cercare di continuare a renderlo tale, dimostrando di saper fare un “uso civico della tecnologia”, dimostrando di saperla piegare alle nostre necessità di uomini civili, di usarla per fini e scopi nobili, che migliorino la qualità della vita della popolazione mondiale. Essere uomini e donne consapevoli oggi è diventata quasi un’impresa. Sommersi da mille stimoli, mille novità, mille abbagli, oggi è quasi impossibile avere la netta consapevolezza di ciò che si sa e di ciò che si fa. Per questo credo che la “consapevolezza” sia una dote, una qualità da sviluppare, per questo credo che l’uso civico e consapevole delle tecnologie vada insegnata nelle scuole, alle nuove generazioni, a quei “nativi digitali” che sembrano così a loro agio con un i-pad o un i-phone tra le mani, incoscienti dei pericoli che corrono ogni giorno. E noi, noi giovani e abitanti del futuro, usciamo dalla nostra cameretta buia e rendiamoci conto che “anche se i computer vanno più veloci gli uomini possono andare più lontano” (Luca De Biase). Non ci rassegniamo ad essere la “Look down generation”, la generazione di quelli che, come li chiama il Prof. Moretti, stanno sempre con “ ’a capa acalata ‘ncoppa a ‘nu telefonino”, riscopriamo il piacere di essere la “conscious genration”, quelli che non pongono limiti alla propria creatività e che la mettono al servizio di un uso civico e intelligente. “Le tecnologie non sono né buone né cattive, è l’uso che ne facciamo ad essere più o meno giusto, appropriato o sbagliato”. Esatto, proprio come quel famigerato coltello di cui parlavamo a lezione, quel coltello con cui è possibile tagliare il pane, addirittura operare i malati (bisturi), ma è lo stesso coltello con cui possiamo decidere di mettere fine alla nostra vita o alla vita di qualcun altro. Il progresso, tecnologico e scientifico, può realizzare delle cose incredibili, può far ballare chi è costretto su una sedia a rotelle, può far ascoltare i sordi e vedere i ciechi, può permetterci di guardare negli occhi chi è dall’altra parte del pianeta. È il mondo, il nostro mondo, che può progredire, è il mondo dei nostri figli e quello dei nostri nipoti che stiamo contribuendo a costruire. Ognuno di noi impari ad essere “homo faber”, perché, più che mai oggi, è proprio vero: siamo artefici del nostro destino. Concludo ancora con una frase del libro “Il coltello e la rete”, che include tra l’altro la citazione de “Il piccolo principe”, uno dei miei libri preferiti: “Se dite agli adulti: «Ho visto una bella casa di mattoni rosa, con gerani alle finestre e colombi sul tetto…», loro non riescono a immaginarsi la casa. Dovete dire: «Ho visto una casa di centomila franchi». Allora esclamano subito: «Oh, che bella!». “Ecco, per noi Internet è prima di tutto vedere il rosa dei mattoni delle case, i gerani alle finestre e i colombi sul tetto. Per questo speriamo che ci si possa incontrare per mare, perché due barche sono meglio di una, quattro sono meglio di due, otto sono meglio di quattro e coì via discorrendo, fino all’infinito e oltre”.

Nando Casa
Tra qualche anno, dopo esserci liberati delle lobby del petrolio e della finanza rapace, tutto il mondo, tutte le nazioni aderiranno ad un nuovo protocollo tecnologico che renderà il pianeta finalmente limpido ed i fenomeni atmosferici lentamente riprenderanno ad essere normali, torneranno di nuovo tutte le stagioni, la flora e la fauna insieme all’uomo sarà più libera e più longeva. Un sogno? No. Siamo sicuri che sarà così, basta che ci crediamo, che ci ridestiamo, ci rimbocchiamo le maniche e con l’aiuto della buona volontà, sapendo affrontare il lavoro con capacità e con consapevolezza di fare le cose perbene, rispettando anche l’estetica. La tecnologia sarà la nostra salvezza. Svilupperemo meglio le attuali conoscenze tecnologiche nel campo delle energie rinnovabili, sfrutteremo le risorse che la natura ci regala e quindi infinite: il sole, il vento, l’acqua. Le nostre abitazioni si vestiranno di materiali che svilupperanno energia solare. Le strade, i marciapiedi, i grattacieli, ogni manufatto sarà rivestito di silicio o di altro materiale che sviluppi energia solare. Si inventeranno nuovi accumulatori o batterie, sempre meno invasive che ci permetteranno di immagazzinare l’energia prodotta, sfruttandola anche di notte o quando non sia possibile produrla, senza consumare combustibili.I mari, senza deturpare le sue bellezze, saranno invasi da tante centrali eoliche che aiuteranno a sviluppare energie pulite. Ci saranno macchine che trasformeranno il moto ondoso delle acque in ricchezza energetica.Gli ingegneri e gli architetti avranno così tanto lavoro che gli Atenei dovranno aprire sedi in ogni comune d’Italia, tanto saranno le richieste per queste figure professionali. Gli operai ed i manovali, con manodopera sempre più specializzata, saranno le formiche e le api del futuro, elementi così tanto preziosi. Naturalmente come ogni attività umana ci saranno anche tanti che dovranno controllare e fare in modo che venga mantenuto un sano equilibrio, per un progresso senza deviazioni. Quindi pensatori, esteti, filosofi, politici, giornalisti, sociologi si integreranno in questo progetto. Ogni attività umana che oggi è considerata dannosa e pesante per la sopravvivenza della natura e dell’uomo, sarà ridefinita: auto e industrie che non inquineranno più sarà la normalità. Tutto quanto si realizzerà solo se tutti daremo un contributo tale da rendere ogni attività lavorativa umana tesa al raggiungimento di un prodotto finale bello e di assoluta eccellenza. Tutto ciò dovrà essere elaborato e realizzato da tutti i popoli della terra.

Lorenzo Rossi
Buonasera, ho letto l’articolo; devo dire che mi ha molto colpito l’espressione “inventare il futuro” dato che al giorno d’oggi tutto sembra controllato da terzi. L’uso della consapevolezza è necessario per lo sviluppo di qualsiasi cosa all’interno di una civiltà (dico civiltà per intendere persone civili) che però a volte ci spinge oltre il nostro pensiero facendosi condizionare così da altri. Tramite la tecnologia, secondo me, si rielabora il concetto di consapevolezza, perché ognuno è libero di fare ciò che vuole, non essendo apparentemente bloccato da pensieri di altri. Ad esempio se creo un blog in cui critico qualcuno in anonimo non penso che costui venga a sapere che sono io, anche se sono consapevole di criticarlo in pubblico. Queste sono cose che si elaborano sin dalla nascita, a mio parere, è quindi giusto sfruttare questi progetti educativi per formare delle teste capaci di ragionare autonomamente e utilizzare in modo “buono” le tecnologie a propria disposizione (proprio come il bastone per appoggiarsi).
cotugno1a
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