Da grande voglio fare bene il mio lavoro

Caro Diario,
oggi voglio raccontarti le 4 cose che amo di più di questa bella comunità di donne e di uomini normali che ogni mattina si alzano e fanno bene quello che devono fare a prescindere, semplicemente perché si riconoscono nel #lavorobenfatto e nelle sue possibilità.

La prima è connessa per l’appunto alla possibilità di entrare in relazione con tanti nuovi amici e @mici, nel senso, per le ragioni e con le conseguenze che puoi leggere qui e qui.
Come dici amico Diario? Se uno non ha tempo di andare a leggere i post a cui rimando con i link non capisce niente? Innanzitutto ti consiglio di rivedere il secondo episodio di Matrix e di meditare sulle parole del Merovingio: «Chi ha il tempo? Chi ha il tempo? Ma se non ce lo prendiamo mai il tempo, quando mai lo avremo il tempo?». Poi, dato che non cerco rogne, aggiungo che nel nostro caso essere e sentirsi parte di una comunità è esattamente la possibilità di riconoscersi con altri che, come te, pensano che fare bene le cose sia non solo bello e giusto, ma anche possibile e conveniente.  Sì, caro Diario, se ti voglio così tanto bene è anche perché da quando ci sei tu tante altre belle persone sono entrate nella mia vita, e così sono diventato più ricco e vivo una vita più degna di essere vissuta.

La seconda riguarda la possibilità di disporre di un’ombra lunga del futuro sul presente che è legata al fatto di disporre di una risorsa preziosa come l’avere identità che, a sua volta, è data dalla stabilità dei riconoscimenti sui quali ciascuno di noi può fare affidamento nel lungo termine. Sì amico mio, il fatto di poter dire «siamo quelli del lavoro ben fatto», il sentirsi stabilmente parte di questa nostra comunità è importante, vale, perché come sostiene Salvatore Veca quando questa stabilità si contrae le prospettive di futuro su cui in qualche modo possiamo proiettare noi stessi con gli altri, si accorciano, fino a ridursi al presente, e ciò modifica il nostro modo di definire interessi, bisogni, ideali, speranze e la nostra capacità di orientarci nel mondo con gli altri. Sì, hai capito bene, sto dicendo che quando abbiamo una storia solida alle spalle e molto futuro davanti disponiamo per ciò stesso di risorse da condividere con altri. Il fatto di potersi definire seguaci di Bartali o di Coppi, del lavoro ben fatto o della bellezza, del Napoli o dell’Internazionale, e potersi riconoscere per ciò stesso all’interno di comunità formate da tanti, come noi, seguaci di Bartali, del lavoro ben fatto, del Napoli e così via discorrendo, non è insomma soltanto un modo per dichiarare il proprio amore o interesse verso qualcosa, è anche uno straordinario strumento di costruzione di identità e, allo stesso tempo, un potente antidoto alla produzione di solitudine involontaria. Non a caso, ogni qualvolta le strade verso il futuro diventano più strette si riducono drasticamente anche le possibilità di connetterci con altri e ci sentiamo più soli.

La terza si riferisce al lavoro ben fatto che voglio fare da grande, che come sai è il lavoro di scrittore.
Come dici? È bello che a 62 anni io dica che da grande voglio fare lo scrittore? Adesso non ti ci mettere pure tu, che già ho preso una questione con Riccardo, state tutti «appizzati» con la mia età, come se non fosse evidente che il mestiere di scrivere è un mestiere difficile, e se non ti dai tempo non ce la fai a pensarti così. In ogni caso, quello che intendo dirti è che ti sono grato per l’aiuto che mi hai dato anche da questo punto di vista, perché le tue storie popolano le mie fantasie e l’esercizio che faccio con te mi è molto utile in prospettiva futura.

La quarta sta in fondo ma forse è la più importante di tutte, dunque provo a sintetizzarla così: nessun processo di cambiamento può fare a meno della sua narrazione, meno che mai al tempo di internet. Se vogliamo davvero cambiare le cose, se vogliamo cambiare la cultura, i modi di essere e di fare delle persone e delle comunità dobbiamo essere in tante/i a raccontare il lavoro e il suo valore, dobbiamo fare del lavoro ben fatto una nuova epica, l’epica che canta le gesta delle persone comuni, quelle che ogni mattina si alzano e fanno bene quello che devono fare. Basta con dei, semidei ed eroi, sono le persone normali che possono davvero cambiare il mondo. Per questo nessuno può farcela da solo, per questo c’è bisogno di nuvole di Omero, nuvole di narratori che raccontano le persone che ogni giorno mettono la testa, le mani e il cuore in quello che fanno, che propongono esempi, che creano emulazione, che  fanno dire alle ragazzine e ai ragazzini «da grande voglio fare bene il mio lavoro». Sì amico mio, secondo me è di questo che abbiamo bisogno. A presto.
dagrande3