La scuola che vogliamo, reloaded

BACOLI, 15 MAGGIO 2020
Caro Diario, mai come in questa fase mi pare utile parlare della scuola che vogliamo, dei percorsi e dei processi di apprendimento, di cosa si insegna e di cosa si impara dentro e fuori le nostre aule, dalla materna all’università. Ho rimesso mano ai tre punti sui quali avevo già lavorato e ho deciso di rilanciare la discussione, vediamo cosa succede.

INTERVENTI
Vincenzo Moretti
Irene Costantini, Maria D’Ambrosio, Laura Ressa, Federico Samaden, Antonello Scotti, Raffaella Vitelli
Tiziano Arrigoni, Laura Bertolini e Tiziano Arrigoni, Irene Costantini, Francesca Di Ciaula, Caterina Pengo, Riccardo Russo, Giorgio Simeoli, Caterina Vesta.

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Vincenzo Moretti Torna agli interventi
1. Lo scopo principale del processo di apprendimento è formare donne e uomini che pensano. Sembra una filastrocca e invece funziona proprio così: chi insegna insegna a pensare e chi impara impara a pensare. Impara a utilizzare in modo appropriato la propria cassetta degli attrezzi, le risorse (umane, sociali, tecnologiche, organizzative, finanziare) che ha a disposizione per comunicare e interagire con gli altri, per risolvere i problemi, per moltiplicare le opportunità, per fare le cose che deve fare e farle bene.
Vale per tutti i tipi di scuola, dalla prima elementare all’università, dall’istituto professionale al liceo classico. Riguarda insieme il fare e il pensare, perché fare è pensare, nel senso che ci ha raccontato Sennett in uno dei suoi bellissimi libri, L’uomo artigiano.
Naturalmente si utilizzano media e tecnologie e si creano contenuti differenti a seconda dell’età, del tipo di scuola e delle competenze specifiche richieste, ma l’approccio, la metodologia, il processo è uguale per tutti: capire (intuire), imparare (a pensare e a fare), realizzare nei contesti di vita reale quello che si è capito, intuito, imparato (a pensare e a fare).
Prima che me lo chieda tu amico mio, te lo dico io che lo abbiamo fatto e lo facciamo già, come puoi leggere qui, e non siamo certo i soli a farlo, dunque si può fare, si può pensare, si può imparare a pensare e a fare.
Direi che questo primo punto lo possiamo chiudere con Generale, la bellissima poesia di Bertolt Brecht che ci ricorda per l’appunto che l’uomo ha il «difetto» di pensare. Speriamo di non perderlo mai questo difetto.

2. Per studiare in maniera seria e imparare (e fare) le cose come si conviene, cioè bene, ci vogliono soprattutto due cose, anzi tre. Parto dalle prime due che riguardano sia chi studia che chi insegna, mentre la terza la tratto dopo a parte.
Le prime due sono l’impegno e l’interesse.
Dal punto di vista di chi studia, pensa e fa, me la cavo con un invito e un esempio.
L’invito è a scegliere sempre quello che si ama studiare, e fare, senza lasciarsi condizionare né da quello che fanno mamma e papà e né dal tipo di scuola o di università che dà più prospettive di lavoro, sia perché a fare lavori che non piacciono per una vita intera è tosta sia perché il tipo di scuola o di università che dà più prospettive di lavoro – a parte quelle che costano tanto, dove per taluni aspetti il lavoro te lo “compri” e non sono per tutti – di questi tempi cambia in fretta.
L’esempio è quello di un mio giovane amico che oggi fa il lavoro che gli piace con grande successo che un giorno di non molti anni fa è venuto da me e mi ha detto «Vincenzo, il lavoro che sto facendo con te è molto impegnativo e come sai ho deciso di laurearmi alla specialistica con 110 e lode. Non ce la faccio più, hai qualche consiglio da darmi?»
Vuoi sapere cosa gli ho risposto caro Diario? «Devi alzare l’asticella del dolore. Se adesso dopo 12 ore tra studio e lavoro non ce la fai più devi portare l’asticella a 14, e se 14 ore non bastano la devi portare a 16, tutto qui».
Come dici? Vuoi sapere se il mio giovane amico mi ha mandato a quel paese? No, non lo ha fatto. Mi ha guardato, mi ha dato la mano, ha ripetuto «alzare l’asticella del dolore», mi ha ringraziato e ha detto «stasera quando torno a casa me lo scrivo sul muro».
Dal punto di vista di chi insegna, pensa e fa, me la cavo con una considerazione diplomatica, non ho detto opportunistica, bada bene, ma diplomatica, perché in questa storia qui davvero non serve finire come i guelfi e i ghibellini, i tifosi di Coppi e Bartali, gli ultras juventini e quelli  napoletani.
La considerazione diplomatica è la seguente: nella mia lunga vita tra i banchi di scuola, da studente e da prof., ho incrociato un bel po’ di insegnanti eroici, di quelle/i che ti cambiano la vita, tantissime/i insegnanti molto bravi e scrupolosi, e parecchi o comunque troppi – mi piacerebbe averli incontrati tutte/i io, ma purtroppo non è così – insegnanti che non avevano alcun interesse, e dunque impegno, né per il loro lavoro e né per la classe, e questo è un problema grande, serio, molto serio, alle elementari può essere addirittura devastante, e se non ce lo diciamo facciamo del male a noi stessi, a chi lavora seriamente e alle generazioni che verranno.

3. La terza cosa, quella che riguarda soprattutto chi insegna, è il possesso degli strumenti necessari per interessare e promuovere la curiosità e l’impegno di chi studia. Perché si amico Diario, la buona volontà non basta, e talvolta neanche la professionalità acquisita in tanti anni di attività e di impegno.
Se i ragazzi si annoiano è un problema prima di chi insegna e poi della classe, l’obiettivo non può essere solo quello di finire il programma, la scuola dovrebbe essere un luogo dove imparare a creare, a essere autore e attore, e se tu che insegni non sai stare sul punto non hai nessuna possibilità di catturare la loro curiosità e il loro interesse.
Secondo me se vogliamo fare sul serio ci sono da affrontare anche da questo punto di vista delle questioni grandi, serie, molto serie, a partire dalla formazione continua di chi insegna, perché non basta dire che nessuno deve restare indietro, bisogna creare le condizioni affinché ciò avvenga concretamente, sia dal versante dei diritti che dei doveri, perché magari se fai sul serio ti rendi conto che una scuola che funziona non può tenere le/gli insegnanti in classe per 40 anni, non le/li può pagare male, non può permettere di fare anche un altro lavoro e mi fermo qui perché penso che mi sono spiegato.

Federico Samaden Torna agli interventi
ADESSO O MAI PIÙ
La scuola è un luogo magico, dove avvengono ogni giorno trasformazioni incredibili. Il tempo passato insieme a centinaia di adolescenti regala la sensazione di essere in una continua ricerca di stabilità, di equilibrio. Un surfista sull’onda, questo mi sono sempre sentito a scuola e anche fuori.
Sarà per via del mio segno zodiacale, la bilancia, o sarà per una continua necessità di infinito, sta di fatto che nella comunità scolastica mi riempio di energia, di quella vera e buona, utile al percorso di vita di ciascuno.
Non sono tutte rose e fiori, anzi. La cosa che più mi affascina è la sfida educativa, che non ti permette mai di sederti e di avere certezze, non ti lascia mai la sensazione di aver capito fino in fondo. Per questa naturale e perenne incompletezza nel trovare risposte a domande molto più grandi di me, quelle che risiedono in ogni adolescente, si genera in me una straordinaria energia e una meravigliosa consapevolezza di essere molto fortunato. Vivere i dubbi, le incertezze, la paura di sbagliare sapendo la responsabilità delle proprie scelte mi accompagnano come presenze certe in questo viaggio fatto solo di ipotesi, e non mi sgomenta il vivere senza avere risposte assolute da dare ai miei alunni. E neppure mi nascondo dietro una schematica serie di regole, ma piuttosto mi lascio guidare dall’istinto e dallo sguardo del cuore.
Beh, detto questo pensiero introduttivo veniamo al dunque.
Primo per sanare le diseguaglianze che ci sono ogni giorno a causa della profonda diversità di preparazione dei docenti. Alcuni bravissimi, altri cotti e bolliti, senza alcuna capacità di incidere positivamente sulla crescita dei giovani.
Secondo per uscire da una abitudine alla autoreferenzialità, per mettersi in discussione e imparare dai propri errori soprattutto. Perchè non si può insegnare ai ragazzi ciò che non si pratica, e l’arte di sapere accettare i propri limiti e saper guardare alle proprie imperfezioni senza paura è cosa fondamentale per questi alunni che abbiamo davanti.
Terzo perché la responsabilità di figli che crescono non può essere comodamente delegata alla sola scuola, ma è bensì un fatto collettivo, di tutto il mondo adulto che abita quel territorio. Quindi una scuola aperta, fatta insieme a tanti altri.
Quarto perché ora i saperi si trovano in rete, molto meglio che a scuola, e ciò che il docente deve fare è un altro mestiere, più simile a un genitore. Deve accompagnare la crescita, indicando strade possibili, capendo per quanto possibile e dividendo le esperienze con i ragazzi. Niente più cattedra e classe, niente più promozioni o bocciature, ma solo una sfida da fare insieme, con esiti incerti.
Quinto perché la professione della ospitalità la insegnano meglio le aziende in cui i ragazzi devono essere orientati a passare una parte del loro tempo di apprendimento. Sono più attuali le aziende e sanno trasmettere, se ben predisposte, il vero senso del lavoro. Certamente non è scontato trovarne molte, ma ci dobbiamo provare, partendo da quelle buone che ci sono e contaminando le altre un pò alla volta.
Sesto perché le famiglie devono essere parte di questa scuola del territorio, ma non per finta. Si deve pretendere che l’accompagnamento alla crescita sia innanzitutto loro, insieme a tutti gli altri attori. Quindi non sole, ma neppure comodamente assenti.
Settimo perché le tecnologie devono trovare un punto di equilibrio con gli aspetti umanistici, ed entrambi devono essere offerti agli studenti attraverso il lavoro dei docenti nella loro nuova veste.
Ottavo perché i giovani oggi, senza più Edipo e con i padri in cassa integrazione educativa, hanno bisogno di essere ascoltati. Veramente ascoltati per essere capiti, ed essere capiti per non essere giudicati. Questo vale per tutti gli uomini, ma ancor più per quelli più giovani che stanno costruendo se stessi e sono pieni di paure e insicurezze. La filiera della comprensione dico io, che non è una sopportazione o peggio una assenza di osservazione, una cecità. Dico quella sana emozione che ci prende quando sentiamo che abbiamo davanti qualcuno che non ci giudica, che magari ci valuta, ma non si distanzia da noi. È con noi, sempre e comunque e soprattuto quando sbagliamo. E noi allora possiamo fidarci. Può esistere una scuola senza fiducia reciproca? No secondo me, anche se la realtà è ben diversa.
Nono perché solo quando si capisce che sentirsi amati è essenziale per apprendere allora si può fare il bene della scuola. Ma con un amore rigoroso, non molle e sdolcinato. La verità è rigorosa, non fa sconti e non ammette falsificazioni, e così è l’amare, che di quella verità è gemella.
Un docente che ama i propri studenti? Se ci intendiamo su cosa è l’amore sì. Quello scritto sopra, quello rigoroso, quello che puzza di verità lontano un miglio. L’anima di una scuola, l’inizio e la fondamenta di tutto. E dato che l’amore così fatto non ha prezzo e per fortuna non può essere comprato ma solo donato, ecco il dieci.
Decimo perché la scuola deve essere un tempio di giustizia e di uguaglianza, in cui tutti possano sentirsi amati per ciò che sono. E deve contribuire a formare una generazione di uomini autonomi e liberi.

E così, dati questi dieci punti, ecco concretamente come funzionerebbe, applicato alla scuola alberghiera:
I contenuti teorici sono tutti su una piattaforma in cui i moduli didattici sono trattati da chi conosce non solo il tema, ma anche come trasmetterlo essendo un ottimo oratore, quindi attrattivo. Non ci sono le classi, ma i livelli, e per ogni livello c’è un solo docente che tratta ogni modulo per tutti. Uguaglianza di trasmissione di contenuti.
I ragazzi non stanno dentro o fuori dalla scuola, ma vengono affiancati da un gruppo adulto (la propria scuola aperta) che costruisce con loro il percorso che dura 3 anni (14/17) e li accompagna.
Cambia il concetto stesso di scuola, che diventa la propria vita in cui entrano figure adulte.
Quindi c’è sempre attività di crescita da condividere, con strumenti diversi. 12 mesi all’anno, con periodi di stop alternati a periodi di attività didattica. Ma anche il riposo fa parte della propria vita e responsabilità. E durante i 3 anni non ci sono bocciature o promozioni, solo accompagnamento e progressiva personalizzazione del percorso.
I ragazzi ritornano a scuola non per sentirsi dire i contenuti, che hanno per altro sempre a disposizione in piattaforma in remoto, ma per affrontare con il proprio gruppo di livello quel contenuto visto a casa con un/a docente che li stimola alla riflessione e alla analisi critica.
Poi praticano altre attività con continuità, sempre coordinate dai loro docenti. Teatro, Musica, Comunicazione, Video, Arte, Sport, o attività di utilità sociale sul proprio territorio, perchè la scuola deve essere utile ai più bisognosi e al bene comune così che i ragazzi ne capiscano e apprezzino il valore! I laboratori esperienziali possono essere all’interno delle mura scolastiche o nel territorio circostante, avvalendosi di associazioni o enti del terzo settore che già fanno questo.
Poi ci sono le attività professionali, quelle che servono a diventare autonomi.
E così si deve imparare facendo, cosa ormai chiara a tutti. A scuola laboratori di cucina e sala, in cui sperimentare le proprie capacità con prove d’opera accompagnate dai propri docenti. E poi man mano che l’alunno cresce (dopo i 15 anni) si va in azienda per capire il lavoro vero. Per periodi alternati alla altre attività.
Ma anche le altre arti che compongono una sana autonomia di vita, quali l’idraulica, l’elettricità, l’edilizia, il giardinaggio e la cura delle piante e degli animali, e la cura della casa.
Come fare queste? Affiancando ogni studente per un periodo a un artigiano che gli insegni non dico tutto il mestiere, ma almeno le fondamenta utili alla sua autonomia. E insieme si deve costruire o ristrutturare qualcosa, facendolo diventare bello! Questa sogno potrebbe partire proprio da un edifico dismesso, e un pò alla volta diventa bello insieme ai ragazzi e agli adulti che ci vivono.
E i docenti farebbero un grande passo rigenerante per se stessi, diventando dei tutor che sanno guidare e orientare al meglio ognuno per le sue specifiche peculiarità!
Tre aree: teorica/umanistica/linguistica; delle arti e dello sport; delle professioni; con le tecnologie che sono trasversali a tutte e tre. Tre tempi scuola: 1/3 a casa in remoto, 1/3 in laboratorio professioni più azienda, 1/3 in attività esperienziali/sociali sul territorio.
365 giorni/anno, 45 giorni di riposo in diversi periodi (max 15gg consecutivi).  320 gg di attività per 3 anni. 960 giorni per 8 ore che danno alla fine 7680 ore di tempo per diventare “grandi”.
Quante cose da fare! Ma avendo 40 ore settimanali, con sabato e domenica dedicati alle attività ricreative nella natura (magari anche con i genitori) e 3 anni di tempo, sono certo che per ciascuno ci sarebbe un tempo dedicato giusto per la sua vita, e sarebbe bello poter portare questi ragazzi a un esame finale del triennio in confronto a quelli che hanno frequentato la “scuola vecchia”. Sono sicuro che non ci sarebbe gara, si vincerebbe a mani basse! E soprattutto si vincerebbe tutti insieme, con una grande festa in cui ringraziarci a vicenda per esserci regalati questo straordinario pezzo di vita!

Laura Ressa Torna agli interventi
Un racconto straordinario e intenso! Una scuola in cui conti il merito ma anche l’ascolto, in cui non siano i voti a fare la differenza ma l’esperienza vissuta insieme. Un’esperienza che deve restare davvero nel cuore dei ragazzi. Una scuola in cui il ruolo dei genitori non sia marginale e in cui l’educazione non sia un comodo parcheggio per genitori (diciamolo) parecchio svogliati o che credono che il controllo dell’educazione si basi sulla consultazione di un registro elettronico. Ecco, Federico Samaden ha trasmesso tutto questo con chiarezza e con quell’amore sincero e non posticcio per l’organismo scolastico e per gli alunni. Che sono persone prima che numeri in un registro! Quante volte in passato ho visto dinamiche sbagliate a scuola, dove non contava quello timido all’ultimo banco o con difficoltà economiche o di apprendimento ma quello che si sbracciava per intervenire o fare complimenti al docente. Ci abituano spesso sin da subito che il merito, se non accompagnato da altri indicatori, conta ben poco. Ed è questo il paradigma da sovvertire: coltivare le persone, che non devono necessariamente essere etichettate come talenti. Coltivare l’ascolto, l’approccio alla scoperta più che alla pagella e al conseguente premio se sei stato bravo. Bisognerebbe educare una comunità intera per fare questo, a partire proprio dagli adulti che purtroppo in tanti casi trascinano sulla schiena retaggi della loro educazione ormai antica. E poi sarebbe bello usare la tecnologia a nostro vantaggio, non come strumento di controllo della vita dei ragazzi. La cosa che fa più male di questa modernità è che la vita scolastica dei ragazzi sia qualcosa di consultabile ormai con un click, vedi il caso di registri elettronici e gruppi WhatsApp che non fanno che amplificare un inutile confronto sociale. Bisognerebbe invece, secondo me, investire quel tempo nello sviluppo di progetti didattici seri che utilizzino il digitale non come spioncino sulla vita dei ragazzi da offrire a genitori svogliati. Inoltre sarebbe bellissimo che i ragazzi capissero già dalla scuola che il lavoro va retribuito sempre, magari aiutandoli a inserirsi ma con periodi di lavoro in cui sia prevista per loro una retribuzione e non crediti formativi. Grazie a Federico per la bella e appassionata riflessione! Grazie a Vincenzo per aver messo insieme queste “belle cape” (come dice sempre lui) per ragionare di un tema così importante!

Irene Costantini Torna agli interventi
Questo tempo di distanza fisica mi ha convinto che la scuola è lo spazio che condividiamo, tutti noi che la viviamo, adulti e bambine e bambini, ragazzi e ragazze. Più condividiamo, più abbiamo cura l’uno dell’altro, più la scuola diventa significativa.
Se è uno spazio significativo, anche i contenuti che vorremmo scambiarci diventano significativi!
Lo scambio di contenuti può essere sensibilmente implementato grazie alle tecnologie, ma la scena del teatro va condivisa, la rete delle relazioni, per accudire, ha bisogno della presenza.
Ma questa è solo la premessa, poi va pensata e fatta la scuola!

Maria D’Ambrosio Torna agli interventi
Caro Vincenzo, come sai io la Scuola la penso come Teatro: lo spazio Vivo della partecipazione alla polis che incarna le diverse forme della relazione e fa spazio al corpo che si fa spazio. Il corpo e lo spazio di cui parlo sono in plastica trasformazione. Dunque la Scuola che vorrei è quella ‘scena’ che si alimenta di Arte e Scienze e fa dell’incontro/connnessione/contagio la via del conoscere/esistere. Una via che in ogni punto è in grado di aprire infinite traiettorie differenti.
Il Teatro suggerisce una ricerca sulle forme della comunicazione, un lavoro sulla forma e sui codici, che si spinge in profondità.
Il Teatro è quella pratica educativa quotidiana che turba lo svolgimento e apre l’imprevedibile del farsi generativi, del risveglio dei sensi. La scuola che desidero è ovunque si faccia festa.

Antonello Scotti Torna agli interventi
Purtroppo penso che non ci sia via di uscita, nel momento in cui la ‘scuola’ è totalmente assediata, sia dalla burocrazia che dai cosiddetti ‘progetti comunitari’: la prima annichilisce ogni volontà altra, i ‘progetti’ distraggono risorse alla formazione curricolare, ovvero quei passaggi di saperi e conoscenze, che dovrebbero essere assicurati, non come formazione ‘aggiuntiva’, ma come formazione di base; questa, un tempo, già sufficiente. I docenti, depositari di quel ‘saper fare’, erano professionisti-progettisti ‘artigiani’. Infatti l’omologazione incuneata nella formazione artistica, facendo diventare le scuole di ‘arti applicate’, ‘licei’, ha distrutto luoghi che erano laboratori di tramando dei saperi tradizionali e luoghi di innovazione. Queste scuole, a mio avviso, formavano alle tre A: artiere, artigiano e forse artista, strutturando percorsi di conoscenza di un fare, oggi, forse, irrimediabilmente perduto. In definitva, quello che voglio dire è che rincorriamo ciò che già avevamo. Ora necessiterebbe aprire un dibattito, come stiamo facendo anche qui, su come ridare dignità alla scuola in generale, e alle scuole del ‘fare’ in particolare.

Raffaella Vitelli Torna agli interventi
La distanza ha fatto ripensare alla relazione: tutti hanno bisogno di relazione e tutti i bambini (ragazzi…) hanno bisogno di attenzione e cura. Il grande pericolo che vedo è la paura di legarci agli schemi sicuri, alle pratiche garantite e il non aver un buon grado di coraggio. A me e a noi come Casa di Cipì piace pensare che la scuola è un luogo aperto al tradimento delle pratiche e una “festa” per tutti soprattutto per coloro che temono di partecipare. Il mio lavoro quotidiano è quello di creare una comunità educante che (come voi/maestri-artigiani) nasce da una ferita, da una condivisione del dolore, del disagio e della paura. La Casa di Cipì è una sfida contro la paura perché stiamo imparando a volare insieme. Grazie dell’ispirazione.

Francesca Di Ciaula Torna agli interventi
Penso che a scuola dovrebbero avere tutti il coraggio di capire che si impara sempre ogni giorno. Anche se il tuo mestiere lo conosci bene non basta. Devi misurarti ogni giorno con condizioni diverse, peggiori o migliori, semplicemente diverse. Mettersi in gioco sempre come una continua scoperta, un impegno sempre diverso, nonostante tutto. Imparare è questo. Formazione è questo. Non esiste formazione se non ti metti in gioco. La formazione è sul campo. È lì che nasce la consapevolezza di quello che fai, di chi sei.

Tiziano Arrigoni Torna agli interventi
È la discussione su cosa è “scuola” che abbiamo iniziato tempo fa e che alla vigilia del 1 settembre 2017, inizio del nuovo anno scolastico, è sempre attuale. Spero che quando spesso si parla a sproposito di scuola, di insegnanti, di ragazzi, si inizi da argomenti come quelli che ci porta come esempio Vincenzo, purtroppo il sistema si arena in proposte di facciata, ma non tiene conto di persone in carne e ossa e delle emozioni che vivono i ragazzi. Ricominciamo dall’abc delle emozioni, delle motivazioni, dei nuovi saperi che poi contengono anche i vecchi. Teniamo presente che i bambini e i ragazzi di oggi che hanno davanti a loro 50-60 anni di “mondo” vivranno trasformazioni cosi profonde che se non abbiamo una cassetta degli attrezzi che contenga cose che guardano vicino e lontano al tempo stesso, saranno condannati alla marginalità.

Laura Bertolini e Tiziano Arrigoni Torna agli interventi
Laura Bertolini: Non ce la posso fare, chiedo venia, a vedere la gente intrappolata negli schermi. Sto con la carta e la penna, sto con la noia, con i pennelli e le tempere e il libri, con la musica nei cd e nei vinili e le discussioni faccia a faccia. Sto con la fantasia che fa anche senza fare. Ditemi che esiste ancora!
Tiziano Arrigoni: Secondo me occorre tutto, carta, matite, fantasia soprattutto, computer che vanno usati con fantasia (cosa che oggi non accade), insomma una riscoperta della fantasia anche con mezzi nuovi insieme a mezzi vecchi.

Giorgio Simeoli Torna agli interventi
Forse, data l’ora, dirò una banalità, ma a me sembra, così, “a caldo”, che la scuola dovrebbe essere un posto dove è possibile essere felici: insegnare e imparare dovrebbero procurare piacere e quindi benessere. Il contrario di tante scuole che sembrano colonie penali.

Irene Costantini Torna agli interventi
Grazie per il post, è un argomento di riflessione molto interessante a pochi giorni dall’inizio della scuola. Dopo una prima lettura, oltre a condividere le tue considerazioni, mi viene da riflettere in particolare su un punto che ritengo fondamentale, la preparazione di chi insegna, l’inadeguatezza spesso di fronte alle diverse capacità, la mancanza di strumenti adeguati, insomma la formazione attuale di noi insegnanti. Sento la grossa responsabilità di condividere gran parte delle mie giornate con i bambini e vorrei avere gli strumenti necessari per farlo nel migliore dei modi.

Caterina Pengo Torna agli interventi
Caro amico mi piacerebbe che questo post fosse condiviso e pubblicato in ogni diario perché è ciò che serve acquisire per rendersi conto che alunni ed insegnanti potrebbero iniziare l’anno scolastico felici.
Come!? Di solito quando una cosa, un’azione, lavoro, idea non è fattibile, possibile, ma proibita, diventa desiderabile!
Ecco secondo me, basterebbe solo pensare che a scuola non si può più andare, vietato, nessuno deve più imparare, restiamo tutti ignoranti e asini, docenti e alunni, tutti a casa, vacanze tutto l’anno, correrebero tutti!!!

Caterina Vesta Torna agli interventi
Bellissime considerazioni, Vincenzo! Il problema è che il tempo riservato alla trasmissione dei contenuti è molto ridotto e diventa sempre più difficile per noi docenti entrare in empatia con i giovani. Lo affermo con amarezza perché amo la materia che insegno e mi rendo conto che di fa spazio a tutto ma non ad un discorso prettamente culturale, che possa scaturire dalle lettura e dall’analisi dei testi, o da discussioni collettive, o anche dalla visione di un film. Ma il tempo per fare tutto questo? Anche per l’alternanza Scuola Lavoro dobbiamo cedere delle ore dal nostro già scarso budget? Io credo che ai stia “lavorando” per un futuro popolo di ignoranti.

Agnese Tiziana Magno: Carissima prof, se trova difficoltà lei a entrare in empatia con i suoi alunni vuol dire che il Ministero della Pubblica Istruzione sta proprio fallendo!

Caterina Vesta: Agnese, purtroppo la scuola continua a non allinearsi alle esigenze dei ragazzi e a farne le spese è la cultura.

Agnese Tiziana Magno: Sono pienamente d’accordo. Purtroppo sembra che solo gli insegnanti se ne accorgano. Non riesco proprio a capire dove si voglia arrivare.

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