Parole al lavoro

Cara Irene ci siamo, l’incontro alla Fondazione Quartieri Spagnoli con Annamaria Testa e Stefania Zolotti è alle porte e mi fa piacere un sacco raccontarlo.
Annamaria e Stefania sono due cape, due teste, belle assai.
Con Stefania anche se ci vediamo poco siamo amici da anni, ci siamo incontrati grazie a Osvaldo Danzi e a FiordiRisorse, ho scritto un paio di articoli per Senza Filtro, abbiamo vissuto insieme una bella edizione del La Notte del Lavoro Narrato al Parco Cerillo, a Bacoli, con noi tra tante/i altre/i, Diego D’Orso, Luca Carbonelli, Cinzia Massa e Osvaldo Danzi.
Di Annamaria conservo invece il ricordo di un solo bellissimo incontro, nel Maggio 2017, grazie ad Andrea D’Onofrio che mi invita a raccontare il lavoro ben fatto  al Festival delle Emozioni. Tra il pubblico c’è lei, e così cominciamo a chiacchierare, e continuiamo il pomeriggio in albergo e la sera a cena, dove conosco anche Sebastiano Deva, Ceo di Apptripper e di Innereo,  che come ti ho raccontato già a un certo punto ci fa fare un fantastico viaggio immersivo attraverso “Le 4 visioni dell’Aldilà” di Hieronymus Bosch. A Settembre dello stesso anno scrive su Internazionale un articolo dedicato al lavoro ben fatto e grazie a lei il mio approccio incontra un bel po’ di altre teste e di altri cuori.
Sì, cara Irene, è davvero un privilegio partecipare a Parole al Lavoro con Annamaria e Stefania, sto cominciando a pensarci, per ora le mie 4 parole connesse a lavoro sono cultura, autonomia, identità e ben fatto, per il resto vediamo martedì, conto di riscriverti il giorno dopo, perciò resta sintonizzata.

FOQUS
Rieccomi cara Irene, prima di cominciare ti voglio dire due cose due su FOQUS Fondazione Quartieri Spagnoli ets, che forse ne basta anche una, quella che riguarda l’approccio che ha guidato Rachele Furfaro e Renato Quaglia, Presidente e Direttore, nell’ideazione e nella realizzazione di FOQUS, che tu appena entri lo capisci subito che quello è un luogo pensato e fatto con la testa, con le mani e con il cuore, un luogo come non ce n’è, un luogo come il più bello al mondo, che nell’approccio non può che essere così, poi alla voce risultato si può sempre fare meglio, ma nell’approccio no, se vuoi fare cose belle, e ben fatte, nell’approccio bisogna aspirare a essere i migliori. Poi con Rachele alla fine ci siamo anche scambiati i libri, La buona scuola e Il lavoro ben fatto, ma di questo ti racconto un’altra volta.

COLLOQUIA SUL NOSTRO TEMPO

Stefania Zolotti
Grazie di cuore a Rachele Furfaro e Renato Quaglia per aver dato a Nobilita l’opportunità di discutere di lavoro nell’ambito dei Colloquia di FOQUS. La parola “lavoro” presenta caratteri sempre particolari, e difficili, quando è associata a Napoli e  anche per questo, per riannodare il filo che tiene insieme l’Italia intorno al lavoro, FiordiRisorse e Senza Filtro hanno voluto che il Festival della Cultura del Lavoro, che quest’anno si svolge a fine maggio a Milano, avesse questa anteprima nazionale a Napoli.
Partirei associando al lavoro la parola creatività e chiedendo ad Annamaria Testa di raccontare il suo punto di vista tenendo l’accento sulla relazione tra Milano e Napoli.

Annamaria Testa
Sono contenta  di essere in un luogo con una storia così intensa, densa e fruttuosa,  direi che creatività è questo posto e spiego il perché, vorrei evitare una sintesi che apparisse un po’ troppo “piaciona”.
La creatività si nutre di vincoli, di limiti, di ostacoli e di barriere. In una situazione in cui tutto è facile, è disponibile, è gratuito, è accessibile non c’è bisogno, o comunque c’è meno bisogno, di creatività. C’è già tutto, perché fare la fatica di fare un salto quando non c’è la necessità di fare nemmeno un passo?
La creatività nasce là dove c’è una frattura, una ferita personale, un problema condiviso, è lì che c’è più bisogno di fare un salto.
La creatività non è trasgressione, non è esibizione di bizzarria, non è pura espressione personale.
La creatività, come la intende la comunità scientifica internazionale che sta studiando questa grande capacità umana di cambiare le cose, è mettere insieme ciò che c’è in maniera inedita per ottenere un risultato nuovo e virtuoso, utile. Utile a livello economico, o a livello estetico, o a livello etico. In estrema sintesi è la formazione del nuovo.
Gli esseri umani sono creativi per definizione, se non esistesse la creatività umana non saremmo adesso qui così come siamo, non ci sarebbero gli abiti, i microfoni, la plastica, le sedie, non ci sarebbero gli edifici, le cattedrali, i satelliti, la tessitura e gli occhiali da vista. Tutta questa roba è stata inventata, e tutte queste invenzioni sono state creative e hanno aiutato il genere umano fin da quando è stata “inventata” l’agricoltura e ancora prima quando l’uomo ha inventato l’arte di governare il fuoco.
La creatività, quindi la capacità di unire elementi per ottenere risultati, è squisitamente umana. La creatività si accende quando c’è una nuova sfida o un nuovo problema da risolvere.
Anche gli animali sono creativi, lo sono gli animali superiori, quellli che hanno già comportamenti evoluti, che sognano quando dormono. Sono creative le scimmie e gli scimpanzé, i corvi, le delfine. La cosa interessante è che il grande motore che spinge la creatività animale è la ricerca di cibo, quindi sono più creativi quelli che dentro i gruppi animali hanno meno accesso al cibo, quelli che debbono darsi da fare per nutrirsi, che sono tipicamente le femmine e i giovani. I vecchi maschi, satolli, che per primi hanno accesso al cibo, non hanno bisogno di essere creativi e sono gli ultimi ad adottare le innovazioni. E questo ci dice qualche cosa di interessante.
Tornando alla creatività umana, possiamo dire che è mossa soprattutto dalla insoddisfazione e dalla curiosità, dal farsi domande, dalla voglia di andare oltre, dalla voglia di affrontare ostacoli. Senza alcuna retorica si può dire che un ambiente sfidante è quello in cui la creatività può meglio esprimersi.
Per quanto riguarda Napoli e Milano dico solo che la creatività non funziona per antitesi ma per sintesi e che mi piace pensare a questa sintesi da milanese che ama molto Napoli e la sua gente.

Stefania Zolotti
Sono molto d’accordo con questo approccio e passo la parola a Vincenzo per continuare ad abbattere i muri degli stereotipi e raccontare di creatività e di lavoro dal suo punto di vista di sociologo napoletano.

Vincenzo Moretti
La prima parola che mi piace associare a creatività è futuro. Penso che la creatività, insieme all’approccio artigiano, alla voglia e alla capacità di fare bene le cose sia il futuro del lavoro.
Il lavoro umano o è creativo, ben fatto, artigiano o non è; quasi tutto il resto potrà essere fatto dalle macchine, anche quelle più semplici, non solo dall’intelligenza artificiale.
Solo noi umani possiamo lavorare con la testa, con le mani e con il cuore.
La testa delle macchine è degli umani che le danno le indicazioni, le loro mani meccaniche prendono ordini dalla testa di cui sopra, che è umana, il cuore, la passione, l’amore per quello che fanno, le macchine semplicemente non ce l’hanno.
A Napoli, a Milano e nel mondo per me la creatività va pensata come uno straordinario arnese che abbiamo a disposizione per costruire il nostro futuro.
Creatività è anche problem solving, capacità di risolvere i problemi, che è una caratteristica in cui noi napoletani abbiamo in buone dosi proprio perché siamo più abituati alle difficoltà, per taluni versi anche alla complessità. Naturalmente, tutto questo ci dice molto anche sugli aspetti sui quali lavorare per migliorare la qualità del nostro lavoro e delle nostre vite, perché molte delle difficoltà che ci aiutano a sviluppare le nostre capacità creative sono altrettanti pesi che ci impediscono di vivere vite migliori, più degne di essere vissute, come direbbero i miei amici filosofi.
Per essere creativi ci vuole anche tanta fatica. Thomas Edison, che di creatività un poco se ne intendeva, ha detto che il genio è fatto per l’uno percento di ispirazione e per il novantanove percento di sudore (genius is one percent inspiration and ninety-nine percent perspiration). C’è tanta fatica alle spalle della creatività.
A proposito di lavoro un altro stereotipo difficile da sradicare è quello della “bella vita”, la vita con le barche belle, i viaggi belli, gli alberghi belli, le spiagge belle tutto l’anno, come alternativa al lavoro.
La verità è che anche la bella vita non esiste senza il lavoro di chi fa le barche belle, rende gli alberghi e le spiagge belle e così via discorrendo.
La verità è che si può vivere senza lavorare ma non senza lavoro, perché senza il lavoro non esiste niente. E qui stasera ancor più che l’aspetto culturale ed etico etico della questione, mi preme mettere in evidenza quello economico.
Quello che penso io è che bisogna girare la manopola, switchare, dalla cultura dei soldi alla cultura del lavoro.
La cultura dei soldi è quella che ci ha portato ai problemi con i quali conviviamo in questo nostro tempo; la cultura del lavoro ben fatto, della creatività, della bellezza, dell’approccio artigiano può farci cogliere, come umani, nuove opportunità e moltiplicarle.
Bellezza, creatività e lavoro ben fatto, e l’Italia va.

Stefania Zolotti
Voglio innanzitutto ricordare i due siti di Annamaria e di Vincenzo, Nuovo e Utile e #Lavorobenfatto, che hanno profonde connessioni con ciò che pensano e fanno, e poi vorrei che Vincenzo raccontasse di Lorenzo Perrone, il muratore che ad Auschwitz ha salvato la vita a Primo Levi.

Vincenzo Moretti
Stefania si riferisce all’episodio in cui Primo Levi racconta a Philip Roth di Lorenzo e gli dice che in quel contesto il suo amico e salvatore odiava la lingua, la cultura, in pratica ogni cosa che fosse tedesca e però, quando i soldati tedeschi gli chiedevano di fare un muro, lui lo tirava su bello forte e dritto. Perché agiva in questo modo? Perché lui il muro non lo faceva per i tedeschi, lo faceva per sé, perché il muro rappresentava la sua umanità e la sua professionalità, e non conosceva altro modo di farlo se non dritto e forte, anche in quel contesto allucinante.
A questo riguardo mi piace ricordare anche mio padre che, nella sua versione muratore, dopo aver fatto la camicia di stucco a una parete, l’ha passata da parte a parte con la mano, e quando gli ho chiesto che cosa stesse facendo con quella sua manona piena di calli sul muro mi ha risposto che non capivo nente, perché se la parete non era liscia come diceva lui, lui non la pitturava. Lo so, Stefania non mi aveva chiesto di mio padre, ma è più forte di me, quando racconto di Lorenzo Perrone mi capita spesso. Per me è questo è il senso del lavoro, perché ha ragione Cesare Pavese, “l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa, ma da come lo fa”.

Stefania Zolotti
Confesso che mi commuovo ogni volta che ascolto questo racconto di Lorenzo Perrone, ma adesso torniamo ad Annamaria e a “La trama lucente“, il suo nuovo libro edito da Garzanti, per ricordare il passaggio in cui fa il punto di quanto sia importante la ricchezza delle parole che vengono trasmesse in età infantile. Detto che trovo qui una connessione forte con Rachele Furfaro e Renato Quaglia e con il lavoro di FOQUS Fondazione Quartieri Spagnoli ets intorno alla necessità di rieducare la città a partire dai più piccoli e dalle loro madri, torno al libro di Annamaria e alla ricerca statunitense che dimostra che la ricchezza o la povertà delle parole usate in età infantile incide sullo sviluppo e sulla creatività dei bambini. Da qui la domanda: quanto incide l’ambiente, il contesto in cui nasciamo e cresciamo, sulle possibilità di ciascuna/o di noi?

Annamaria Testa
Parto da una delle mille e mille storie raccontate nel mio libro, che non spiega solo cosa dice la comunità scientifica a proposito della creatività ma racconta anche tante storie, perché il senso del discorso sta nelle storie in cui si esprime.
Nella storia di cui stiamo parlando il sindaco viene a contatto con uno studio scientifico che dice che i figli delle famiglie ricche prima di arrivare a 5 anni hanno sentito 30 milioni di parole, che sono 6-7 volte in più delle parole che hanno sentito i figli delle famiglie povere.
Cosa significa questo? Che, crescendo, i bambini delle famiglie ricche o benestanti hanno un linguaggio molto più articolato dei bambini delle famiglie disagiate. Bambini che sono trattati benissimo, come hanno verificato gli assistenti sociali, però le madri interagiscono poco con loro se non in termini di accudimento e di comando, cose tipo “mangia, copriti, stai buono”. Le mamme dei bambini delle famiglie agiate invece parlano con i bambini, gli leggono le storie, usano il “mammese”, quel linguaggio codificato con la voce un po’ alta e in falsetto che in realtà stabilisce un legame emotivo, affettivo, molto forte con i bambini.
Allora il sindaco decide di mandare i suoi assistenti sociali a raccontare alle mamme delle famiglie più disagiate quanto è importante che parlino con i loro bambini, che gli leggano delle storie e che non li lasciano posteggiati davanti alla televisione.
Il progetto va avanti, trova molta curiosità in altre città (quando ho finito di scrivere il libro era già stato esteso a un centinaio di città) e questi bambini piccoli crescendo hanno prestazioni scolastiche migliori della media dei loro consimili.
Voglio ricordare che negli Stati Uniti uno dei due elementi che certifica il livello di competenza degli studenti alle scuole medie superiori è un test di comprensione linguistica. Se so le parole e che cosa significano vuol dire che possiedo i concetti, che ho più elementi per elaborare il pensiero, che posso comprendere pensieri più articolati e produrre pensieri più articolati quindi sono più in grado di gestire la complessità del contemporaneo.
Per questo lavorare con i bambini piccoli e lavorare sul linguaggio, sulle competenze linguistiche dei bambini piccoli è stra – fondamentale. Pe questo fare questo lavoro in quartieri disagiati è fondamnetale, bestialmente fondamentale.
Faccio un altro esempio. Perché nei secoli passati la creatività femminile ha avuto così pochi esponenti eminenti?
Le donne sono tutte tonte? No, le donne sono state escluse completamente dall’istruzione, sono state sposate da giovani e sono state confinate in casa, non hanno imparato a leggere e scrivere e se non impari a leggere e scrivere non potrai mai scrivere La Divina Commedia o l’Amleto.
Fino ai primi decenni del ‘900 qui in Italia ce stato un bel po’ di analfabetismo, soprattutto femminile, e tutt’ora in diverse parti del mondo la situazione è questa. Per fortuna non più in Europa, dove il 50% delle donne è laureata, 1 su 2, mentre i maschi laureati sono 1 su 3, perciò cari ragazzi datevi da fare.
Tutto questo per dire che se non possiedi le parole, se non possiedi il linguaggio, se sei separato dall’istruzione, come era fino all’altro ieri per le donne in Italia, sei tagliato fuori da qualsiasi espressione di te e da qualsiasi capacità produttiva.
Fare asili, fare in modo che i bambini di ogni ceto sociale imparino più parole e acquisiscano maggiori capacità lingustiche, fare in modo che vengano a contatto con una comunità e si mescolino, ha oggi una serie di ricadute virtuosissime non solo dal versante educativo ma anche da quello lavorativo, sia alla voce insegnanti che alla voce mamme che hanno più tempo liberato, anche per il lavoro.

Stefania Zolotti
Annamaria mi ha fatto venire in mente che la magia di questo posto, una cosa che mi ha colpito fin dalla prima volta che ci sono venuta, è che mentre i bambini vengono alla scuola materna in questa comunità succede tanto altro. In genere nelle nostre città abbiamo sempre questa tendenza a separare, invece è importante tenere in contatto, mescolare, le generazioni, le etnie, chi lavora e chi no. L’impermeabilità delle persone e delle comunità non ci fa per niente bene.
Sono stata recentemente a Catania, mi ha chiamata un’azienda per fare dei corsi di scrittura a delle giovani estetiste che facevano la scuola professionale. In buona sostanza mi hanno chiamato anche perché queste ragazze non accettano offerte di lavoro nelle catene di parrucchieri anche all’interno della loro stessa città perché le famiglie sono contrarie.
Mi sono fatta spiegare perché sentissero questo condizionamento in modo così radicato e mi ha stupito che la maggior parte di loro ce l’aveva già introiettato,  nel senso che non si accorgevano della gravità del condizionamento che subivano.
Se tu però questa cosa gliela fai notare, se cominci a metterla in luce, loro capiscono che qualcosa non torna e cominciano a farsi le domande giuste. È anche per questo, secondo me, che Foqus è un posto rivoluzionario anche se è una parola un po’ desueta, non ci appartiene più; perché mescola più generazioni, con i problemi e le possibilità di ogni generazione. È in questo modo che l’istruzione e il lavoro possono fare delle cose insieme, mentre invece nel nostro Paese la scuola guarda da una parte, le aziende da un’altra, la politica da un’altra ancora. Senza convergenza alla fine il risulato è disastroso.
Ecco, tutto questo mi è venuto in mente ascoltando Annamaria ma so che anche Vincenzo ha una storia da raccontare a questo proposito, una storia che riguarda Ponticelli, direi di ascoltarla. Personalmente non la conosco, è contenuta nel suo libro, dunque approfitto anche io per ascoltarla.

Vincenzo Moretti
La mia piccola storia si riferisce al lavoro con le lettere dell’alfabeto fatto con le maestre e i bambini di due prime elementari dell’Istituto Comprensivo 83° Porchiano Bordiga di Ponticelli diretta da Colomba Punzo, la 1° A e la 1° E.
In particolare con la 1° E abbiamo pensato di fare un Alfabeto del Lavoro Ben Fatto mettendo assieme tre cose:
1. “I Misteri dell’Alfabeto”, libro di Marc-Alain Ouaknin che ho raccontato qui e dal quale abbiamo tratto liberamente l’origine protosinaitica delle 25 lettere e un pizzico delle loro storie.
2. I bellissimi disegni delle bimbe e dei bimbi della 1° E.
3. I racconti di Primo Bordiga, il bimbo che ancora non c’è della Quinta E. Nel diario le sue storie sono quelle scritte in verde, spero tanto che possano aiutare le bimbe e i bimbi che le leggeranno – tutte/i, non solo quelle/i della Prima E e della Prima A – ad amare le cose ben fatte. Naturalmente il tutto è inserito in un percorso didattico che la maestra Lina La Gatta ha sintetizzato qui.
Cosa aggiungere ancora? Che gli eroi di queste attività che da oltre 20 anni, nell’ambito del programma “A scuola di lavoro ben fatto, di tecnologia e di consapevolezza“, portiamo avanti, dalla prima elementare all’università, in ogni parte d’Italia, vanno ricercati alle voci insegnanti e classi. E che tutto questo non è che potrebbe funzionare, ha funzionato e funziona già.
Perché funziona? Perché ribalta la prospettiva e fa in modo che chi studia sia un autore e non un consumatore di contenuti, così come ho raccontato negli Appunti per una didattica artigiana.

Stefania Zolotti
Torno ad Annamaria. Una delle parole più utilizzate negli ultimi 10 – 15 anni nel mondo del lavoro e dell’impresa è stata la parola talento. Tu ne parli naturalmente anche nel tuo libro e allora ti chiedo se c’è un modo diverso per spiegare che cos’è il talento al di là di una definizione generale, che può valere per tutti.

Annamaria Testa
Mah, le parole sono codici, se io dico talento, più o meno riusciamo a capire che cosa intendo. Più che cercare sinonimi, se voglio diventare mistica potrei parlare di vocazione, o di ingegno, mi interessa dire che il talento è una potenzialità, che il talento va addestrato, va educato.
Certo che Mozart ha un talento meraviglioso ma suo padre lo ha messo sotto per imparare a suonare e le sue prime composizioni non sono poi così affascinanti e originali. È crescendo come musicista e come compositore che arriva poi a inventare della musica sublime.
Non c’è una creatività che sia selvaggia, può esserci una creatività energica, anticonformista, che rompe ordini per
costruire ordini più efficaci, più contemporanei, migliori. Ma la creatività non è mai solo distruzione e non è mai solo naïveté.
I bambini, che sono un’esplosione di voglia di comprendere il mondo, fanno sempre tante domande (i bambini ne fanno circa 300 al giorno, le bambine arrivano a 390, sono dati statistici), ed è giusto dargli risposte, perché è domandando e interiorizzando le risposte che si impossessano del mondo. Stanno lavorando, stanno coltivando e orientando e riorientando il loro talento.
Il talento non è un dono, è un prestito. La parabola dei talenti ci dice che il talento va impiegato bene. E lo fa in maniera molto evocativa, per esempio quando ci dice che il servo che seppellisce il suo talento viene punito.
Secondo me questo è importante, perché ciascuno ha il diritto di esprimere il suo talento ma allo stesso tempo ciascuno ha anche l’obbligo di formarlo, di svilupparlo, di non sprecare il suo talento.
Sì, direi che questo è particolarmente imporatnte oggi. Non ci sono scorciatoie.
Se andiamo a guardare l’intelligenza artificiale, che certo è un grande strumento ma non un sostituto, vediamo che non è così intelligente, che è piuttosto un enorme repertorio di cose già inventate e già dette che vengono assemblate e a loro volta rimescolate su base di frequenza statistica. Se per pigrizia ci limitiamo a questo rischiamo di avere a disposizione un materiale sempre più rimasticato, sempre più omogeneizzato, sempre meno generativo.
Col cavolo che l’intelligenza artificiale è generativa di un alto inganno linguistico, genera repliche, sempre più sfocate.
L’intelligenza artificiale può fare benissimo delle cose per cui ci vuole molta memoria, dove c’è molta processualità e una certa astrusità. Per esempio legge le cartelle radiografiche e non si annoia, anche se ne legge 5000 è meticolosa e può essere più brava di un radiologo, ovviamente a leggerle, non a interpretarle. E può fare delle ricerche legali per trovare i precedenti anche se a volte dice il falso. È successo recentemente in un processo negli Stati Uniti dove l’avvocato ha presentato dei casi al giudice che ha verificato che quei casi non esistevano. Dopo di che è successo che a precisa domanda l’intelligenza artificiale si è scusata e ha risposto che l’aveva fatto per fargli piacere.

Stefania Zolotti
Quindi stanno sviluppando empatia?

Annamaria Testa
No, no, è tutto in automatico. Vi ricordate la Chatbot di conversazione che andava di moda un po’ di anni fa? Ci danno l’illusione, hanno antropoformizzato, l’intelligenza artificiale somiglia ma non è creativa, perché non ha nessuna curiosità, non ha nessun orientamento proprio, non ha finalità proprie e senza questi elementi è molto complicato essere creativi.
Da qui deriva che sviluppare il talento umano, senza impigrirsi, è oggi ancora più un imperativo, anche dal punto di visto etico, perché ci aiuta a utilizzare le nuove tecnologie senza però farci stravolgere.
Questo mi sembra importante in questo nostro tempo, è importante continuare a essere curiosi, a immaginare, a esssere creativi e anche a saper usare le tecnologie per farlo meglio. Secondo me può essere una bella sfida.

Stefania Colotti
Un discorso molto simile a questo ultimo spunto di Annamaria lo fa Giuseppe Zollo, uno dei massimi esperti di complessità. L’ho incontrato qualche mese fa, insieme a Osvaldo Danzi, editore di Senza Filtro, per parlare un poco di Napoli, di questa cultura, di quale parola rappresentasse meglio questa città e lui mi ha risposto con grande chiarezza e semplicità “caos”, dopo di che mi ha spiegato cosa intendesse dire con questa parola.
Quando ha parlato di intelligenza artificiale mi ha detto che è un’enorme occasione per l’intera umanità perché, dato che l’intelligenza artificiale si nutre delle nostre informazioni, noi umani dobbiamo rimetterci fortemente a studiare se vogliamo trasferire informazioni e conoscenze sempre più profonde alla macchina. In pratica non c’è per forza conflitto tra l’uomo e la macchina, tra il codice e i sentimenti, ma c’è la possibilità di integrarsi e di migliorarsi.
Sì, Zollo faceva questa riflessione su quanto sia fondamnetale rimettersi a studiare, ad approfondire, quanto sia importante ritornare alla filosofia e all’ontologia rispetto a questi temi. Per elevarci noi, in quanto esseri viventi, ma al tempo stesso per rimodellare e alzare il livello delle informazioni e delle conoscenze che passiamo alle macchine.
Detto uesto torno a Vincenzo per chiedergli una cosa relativa al manifesto del lavoro ben fatto,  mi riferisco in particolare all’articolo 16, che parla dell’importanzo di essere il numero uno, o comunque tendere a essere il numero uno, quando si fa una cosa.
Naturalmente intendo cosa vuoi dire, però voglio chiederti proprio di questa spinta alla competizione in questa nostra società in cui qualsiasi attività facciamo, non solo di studio o di lavoro, ma anche a livello ludico, la competizione diventa il metro di misura che stiamo trasferendo anche ai bambini. Più che alla bellezza, alla conoscenza e all’esperienza, sembra che guardiamo al risultato e a questo bisogno di essere i primi. E allora mi chiedo, questa cosa che hai scritto qualche hanno fa, la scriveresti ancora? È stata un po’ travisata? La competizione, che naturalmente è importante, non è che è diventata molto distruttiva e molto individualista? Non è che ha perso la sua capacità di essere un indicatore di crescita comunitaria e ha scaricato tutto il suo peso sulle singole persone?

Vincenzo Moretti
Rispondo in due mosse.
La prima si riferisce alla mia esperienza al Riken, in Giappone, dove sono stato per analizzare i processi di decision making, di sensemaking e di serendipity dell’istituto. Nel corso della conversazione con il presidente Noyori, Premio Nobel per la Chimica 2001, emerge con chiarezza la filosofia e la strategia del Riken, che punta sulla capacità di networking come componente essenziale dei processi di competizione sia a livello delle strutture che delle persone.
“Due le parole chiave: competizione e collaborazione. Vince chi conquista la priorità, chi raggiunge per primo un determinato risultato, chi dimostra originalità di vedute e abilità di attuazione. Ma il campo è così vasto che non si vince senza condividere dati, informazioni, punti di vista, conoscenza”.
Per quanto riguarda l’articolo del manifesto, e il libro, il discorso è diverso, si fonda sulla differenza, che è rilevante, tra approccio e risultato.
Per quanto mi riguarda il riferimento è all’approccio, perché se devo scrivere un libro, devo pitturare un muro o devo forgiare un cancello mi dovrei accontentare di essere il secondo, o il terzo? Nell’approccio non concepisco altro modo se non la spinta a essere il migliore, il numero uno. Il risultato è un discorso diverso, una volta che ho scritto il libro, ho pitturato il muro o forgiato il cancello valuto il mio lavoro e magari mi rendo conto di essere il penultimo, e questo sarà quello che sarò riuscito a fare in quel momento, e mi spingerà a migliorarmi, perché essere consapevoli dei nostri limiti ci aiuta a migliorarci. Però questa consapevolezza riguarda il risultato, non l’approccio.

Stefania Zolotti
Ho un’ultima domanda per Annamaria e per Vincenzo. Annamaria la vorrei portare su un fatto di attualità, un fatto recente, che riguarda l’uso della lingua e le questioni di genere. Non mi voglio riferire alla questione dell’Università di Trento e del femminile esteso, voglio chiederle invece se i movimenti, che si sono rafforzati in questi ultimi anni, legati al cambiamento della lingua possono dire delle cose che riguardano anche il mondo del lavoro.

Annamaria Testa
Secondo me sì, per esempio nel senso che ci porta a dire la Presidente del Consiglio se è una donna e non il Presidente del Consiglio, anche perché poi ci si imbroglia con quello che viene dopo, tipo il Presidente del Consiglio è andata, che non sta bene.
C’è questo intreccio delle parole al femminile nel mondo del lavoro e identità delle donne che fanno quel lavoro che è importante.
Perché il professore è autorevole e la professoressa al massimo siamo alle scuole medie? Perché il dottore è autorevole e la dottoressa meno? Bisognerebbe lavorare sulla semantica e sui significati, però questo non è il mio campo.
Detto questo, aggiungo che oggi personalmente sono più attenta alle rivendicazioni fattuali che a quelle formali, anche perché una certa esasperazione formale rischia poi di alienare simpatia e consenso a delle conquiste fattuali che possono essere molto importanti. Per cui va benissimo che “direttore” abbia un femminile adeguato, che sia “direttrice” o “direttora” alla fine è uguale, però vorre che ci fossero più donne direttrici o direttore di giornale, per esempio, e via di questo passo.
Per tornare al punto penso che ciascun eccesso genera l’effetto opposto. L’eccesso di yang genera lo ying e anche l’eccesso di political correct rischia di generare fastidio per l’idea della correttezza. Come metterci al riparo da questo rischio, che forse è ancora piccolo (negli Satti Uniti non proprio) ma c’è? Tornando ai fatti, capendo che la forma, anche la forma delle parole, è importante se ci sforziamo di creare una sostanza che le corrisponda. La forma si consolida se c’è una solida sostanza. Perciò facciamo più asili.

Stefania Zolotti
Direi che questa sera la campagna a favore degli asili sta prendendo quota, e aggiungo che questo è il posto giusto per farlo.
Ho una domanda difficile anche per Vincenzo: che cosa vuol dire per Napoli la parola possibilità legata al lavoro? È una parola condivisa, che ha fatto passi avanti, che è stata tradita dalla politica o anche dagli stessi cittadini? È una parola che ha ancora valore per Napoli?

Vincenzo Moretti
Per rispondere alla domanda difficile riparto da dove abbiamo cominciato: se il futuro del lavoro umano è, come io penso, creatività e approccio artigiano, sicuramente Napoli può giocare un ruolo importante. C’è però una terza parola che è fondamentale per Napoli, ed è “regole”, le regole da rispettare e da usare per mettere a sistema la creatività e l’approccio artigiano.
Naturalmente il tema regole non è solo napoletano, è sicuramente italiano e ha una dimensione mondiale a più livelli, economico, politico, sociale, però adesso è di Napoli che stiamo parlando.
Dal punto di vista della concretezza, della solida sostanza a cui si è riferita più volte Annamaria, questa incapacità di cogliere l’impatto positivo delle regole ci confina troppo spesso nell’ambito delle eccellenze.
Wittgenstein ha scritto che le parole sono azioni, per questo mi piacciono le parole. Le parole mi piacciono se riescono ad attivare azioni che determinano un cambiamento, e la parola “eccellenza” è molto bella, produce tante azioni positive, ma non cambia le cose. A Napoli abbiamo tante eccellenze, ma ciò che determina il cambiamento è la normalità. A cambiare il mondo sono le donne e gli uomini che ogni mattina si alzano e fanno bene quello che devono fare, qualunque cosa debbano fare. Persone normali che non lo fanno perché si aspettano di avere un premio, ma perché è così che si fa, in qualunque contesto, persino in un campo di concentramento come Lorenzo Perrone.

Stefania Zolotti
Con il concetto di regole di cui ha parlato Vincenzo direi che abbiamo chiuso il cerchio, dato che, come ci ha raccontato Annamaria all’inizio, anche la creatività ha bisogno di regole. Grazie a tutti.

FOTO

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CITARSI ADDOSSO
Come puoi immaginare cara Irene, nel corso di una serata così si è parlato, prima, durante e dopo, anche di libri e riviste, io non è che me li ricordo tutti, però alcuni li metto in fila qui non solo per te, che in gran parte li conosci già, per le nostre lettrici e i nostri lettori.
La trama lucente
Il lavoro ben fatto
Pastorale Americana
I misteri dell’alfabeto
La buona scuola
La luna e i falò

Senza Filtro
Technology Review

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CREDITS
Grazie di cuore per le foto a Maggiorino Guida, Cinzia Massa, Antonio Prigiobbo e Senza Filtro