Caro mastro De Biase, te la ricordi questa lettera del 18 Novembre 2017? Immagino di no amico mio, ti lascio il link nel caso ti venisse voglia di darle un’occhiata, in realtà per dirti quello che ti voglio dire per ora basta il titolo, “La società si dibatte fra lavoro come identità o come bancomat“.
Il tema è il lavoro e il presente, il lavoro oggi, il lavoro al tempo di internet, dell’intelligenza artificiale, delle città intelligenti, delle donne, degli uomini e delle macchine, delle donne e degli uomini macchina. Ti voglio raccontare in che senso e perché penso che l’idea della fine del lavoro, nonostante l’autorevolezza con cui è stata teorizzata e annunciata, sia fuorviante, imprecisa, equivoca, per certi versi un inganno ontologico. Il passo successivo sarà il lavoro come identità, che come sai è la mia risposta alla domanda da quando mio padre mi spiegò la differenza tra il lavoro preso di faccia, quello fatto con amore, dedizione, rispetto di sé e degli altri, e il lavoro fatto a meglio a meglio, quello che invece no. Avevo 12 anni e non lo potevo sapere ancora, ma è proprio dal lavoro preso di faccia che ha avuto inizio la storia che mi ha portato al lavoro ben fatto. Alla fine anche il libro è un capitolo di questa storia, e quando dico che ha un terzo autore, mio padre, anche se il suo nome non compare sulla copertina, non lo faccio tanto per dire.
Stabilito questo, è meglio inizare dal principio.
SENZA IL LAVORO NON ESISTE NIENTE
Il lavoro, in sé e per sé, non può finire, perché senza lavoro non esiste niente. Ogni cosa che conosciamo, usiamo, trasformiamo, con cui interagiamo ogni giorno è un prodotto del lavoro. Vale per l’ago e la sedia, la porta e la casa, l’automobile e la bicicletta, il treno e l’aereo, la città e internet, l’intelligenza artificiale e qualunque altra piccola o grande cosa che esiste al mondo. Come ho scritto un po’ di anni fa in un libro, anche se nessuno ci pensa più al lavoro che c’è dietro ogni cosa, nella vita vera è proprio così che funziona: se finisce il lavoro non resta niente, neanche a quelli che vivono o sognano di vivere una vita fatta solo di ozio e svago. Strano ma vero, senza il lavoro di chi tiene pulite le loro case e le stanze degli alberghi che frequentano, di chi fa da mangiare, di chi pensa, disegna, sviluppa e fabbrica le scarpe e le cravatte che indossano, i telefoni e gli occhiali smart di cui vanno orgogliosi, le barche sulle quali vanno in crociera, neanche loro potrebbero fare niente. Non intendo soffermarmi sugli aspetti di carattere etico, sociale, politico della questione, come direbbe re Aragorn non è questo il giorno, però c’è una questione di inquadramento, di framing, che non può essere ignorata: senza lavorare si può vivere, senza lavoro no. E prima che me lo chieda tu te lo dico io che vale anche per i profeti del futuro prossimo venturo in cui lavorano solo le macchine e i sistemi artificiali, più e meno intelligenti, perché pur essendo una prospettiva in teoria possibile, in pratica non è né realistica e né auspicabile, e cerco di spiegare perché.
UNA PROSPETTIVA NON REALISTICA
Non è realistica perché noi umani siamo allo stesso tempo le fondamenta e i muri maestri – quelli che secondo mastro Wittgenstein sorreggono l’intera casa – della società del consumo, quella che pensa Consumo, dunque sono, come ha raccontato invece mastro Bauman. Fino a prova contraria le macchine, i robot e i sistemi artificiali non comprano né nei supermercati fisici né sulle piattaforme digitali. Siamo solo noi umani a morire dalla voglia di comprare, compreso quello che non ci serve. Siamo ancora noi a indebitarci per farlo, a desiderare lo storico profumo n°5, l’ultimo modello di smartphone e tante altre cose ancora. E siamo sempre noi che portiamo i nostri soldi nelle banche e definiamo strategie, in modi a volte legittimi, altri discutibili, altri ancora criminali, per aumentare la nostra ricchezza, il nostro potere, le nostre possibilità di consumare.
Che se ne fanno le macchine, i robot, i sistemi artificiali dei desideri, dei soldi, del potere? A meno di futuri distopici modello Matrix, comunque non auspicabili per noi umani, per loro tutto questo non ha alcun senso. Come avrebbe detto don Peppe Testolina, principe dei magliari di una Secondigliano che non c’è più, a loro semplicemente “l’articolo non interessa”.
Tornando a noi umani, dato che non ce le regalano, è evidente che le cose che desideriamo o di cui abbiamo bisogno le dobbiamo comprare. E con che cosa le paghiamo? Con il denaro. E da dove viene la maggior parte del denaro? Dal reddito da lavoro, non solo quello dipendente e autonomo, pubblico e privato, ma anche da quello artigiano, degli startupper, degli imprenditori piccoli (oltre il 90% in Italia), medi e in parte anche grandi. Non lo dico io, lo dicono i numeri: la maggior parte del reddito delle persone, delle famiglie e delle imprese viene dal lavoro. Io aggiungo solo per fortuna. Ed è così persino nella nostra bella Italia, nonostante l’incidenza di rendite e depositi bancari.
Mio padre avrebbe detto che senza denaro non si cantano messe; io che non sono pratico come lui aggiungo che senza lavoro umano non ci sono salari, stipendi, incassi, margini operativi netti e lordi e dividendi, non c’è il denaro che serve alla società dei consumi per sopravvivere a se stessa.
IL LAVORO E IL SUO VALORE
Caro Luca, detto che senza noi umani la società del consumo non esiste, sento il dovere di aggiungere che, così com’è, la società del consumo, non mi piace per niente, direi anzi che non va per niente bene, il mio orizzonte è la società della consapevolezza. Sì, quello che penso io è che bisogna che invertiamo l’ago della bussola adesso, e che dobbiamo farlo adesso, perché il tempo in cui era una possibilità è finito, oggi tutto questo è una necessità, una urgenza. Giocando con le parole di mastro Borges mi viene da dire che dobbiamo darci un destino inesorabile come il passato, dobbiamo ispirarci a quanto di meglio c’è nella cultura e nella storia che abbiamo alle spalle.
Lo so che con te sfondo una porta aperta, sei stato uno dei primi a lavorarci su, ma ti confermo che per quanto riguarda il nostro paese non mi viene niente di meglio della maestria e della bellezza del Rinascimento.
Sai invece la cosa buffa qual è? Che quelli come me che più di 50 anni fa pensavano di essere estremisti perché credevano nell’inevitabile fine del capitalismo in realtà erano dei moderati se pensiamo alla sfida con cui facciamo i conti oggi: l’evitabile, non so per quanto ancora, fine del nostro mondo.
Ci siamo arrivati per altre strade, ma comunque questo nostro mondo è in gran parte da cambiare. Se riusciamo a rendere credibile e a realizzare questo cambiamento non lo so amico mio, però ho un mattoncino con cui posso contribuire, il lavoro ben fatto, e lo porto con me ogni giorno.
Quello che intendo ribadire, in definitiva, è che nel mondo che piace a me il lavoro è importante, vale. E che una società fondata sul lavoro e sul suo valore ha più futuro. Dopo di che sono contento che tutto questo non l’ho inventato io, senza andare troppo lontano nel tempo ricordo che già i nostri padri costituenti l’hanno pensata più o meno così quando hanno scritto l’Articolo 1 della Costituzione.
IL LAVORO COME IDENTITÀ
Una società fondata sul lavoro e sul suo valore porta con sé tanti semi funzionali al processo di cambiamento di cui abbiamo bisogno, dal rispetto del lavoro e di chi lavora alla relazione tra le cose che usiamo e il lavoro che ci vuole per realizzarle, dall’importanza di ciò che sappiamo e sappiamo fare rispetto a ciò che abbiamo alla ricostruzione del nesso tra lavoro e autonomia economica, sociale e politica delle persone, delle organizzazioni e delle comunità.
Invertire l’ago della bussola vuol dire anche questo, dare più valore al lavoro e meno valore ai soldi, più valore ai talenti che abbiamo e meno valore a quello che possediamo. Sì, penso che quello che sappiamo e sappiamo fare sia il nostro valore più grande, ciò che definisce la nostra identità come persone, l’identità delle organizzazioni con le quali interagiamo, l’identità delle comunità in cui viviamo. È per questo che lo racconto, perché siamo ciò che raccontiamo, come dice mastro Rovelli, perché il racconto è quello che resta, come aggiunge mastro Jepis.
IL LAVORO CHE CAMBIA
Il cammino che abbiamo da fare è lungo, impervio, ma per fortuna urgente, perché è già tutto così complicato ma senza questa urgenza lo sarebbe di più. Mi faccio aiutare ancora dalla metafora dei semi per dire che come loro dobbiamo essere capaci di restare vitali anche dopo periodi lunghi di quiescenza, di reagire con prontezza ed efficacia alle condizioni avverse, di adattarci, di cambiare, di riuscire a trovare il modo e l’ambiente adatto per germogliare anche a distanza di spazio e di tempo.
Ebbene sì, i semi del lavoro che cambia li penso più o meno così. Ben fatti come il lavoro di mio padre che racconto io, quello di Lorenzo Perrone che racconta mastro Levi, quello di Ivan Denisovic che racconta mastro Solženicyn. E poi anche efficaci e polimorfi come l’Ulisse che racconta mastro Jullien.
Adesso spero davvero di non deluderti, ma penso che nonostante gli anni trascorsi il cambiamento continui a passare per i 5 punti che ti avevo scritto nella lettera del novembre 2017. Sì, penso ancora e di più che il lavoro come identità, come senso, sia oggi più che mai il solo terreno fertile su cui piantare i semi delle nostre possibilità.
Il riconoscimento sociale del denaro (il lavoro come bancomat) ci ha portato fin qui, al mondo che viviamo in questo nostro tempo, un mondo in cui ogni giorno di più l’ombra del futuro si contrae sul presente. Non sto qui a fare l’elenco delle cose che non vanno, le sai tu, le so io, le sanno tutti, a partire da quelli che le determinano agendo senza regole e senza responsabilità per guadagnare potere e gloria.
Che fare, dunque. Ripartire dal lavoro. Quello di noi umani, quello delle macchine e dei sistemi artificiali, quello della Natura e dei suoi cicli che abbiamo il dovere di rispettare, non perché ci dobbiamo prendere cura o dobbiamo salvare il mondo, ma perché ci dobbiamo prendere cura e dobbiamo salvare noi stessi. Ripartire dal lavoro ben fatto, dal lavoro consapevole, dal lavoro sostenibile, dal lavoro creativo, dal lavoro che realizza, dal lavoro che appaga, dal lavoro che permette di imparare, dal lavoro che rende autonomi, per me è questa la via per restare umani. E tutto il lavoro che resta? Può essere fatto dalle macchine e dai sistemi artificiali.
Spero di non sembrarti banale, ma la mia risposta passa per il riconoscimento sociale del lavoro e di chi lavora. È questa a mio avviso la via per ridare identità, dignità e senso alle nostre vite e al nostro futuro.
PERCHÈ TI RACCONTO TUTTO QUESTO
Siamo quasi alla fine De Biase, mi resta da spiegare soltanto perché ti sto raccontando tutto questo, perché torno a “sfruculiarti”, a chiederti tempo e attenzione.
In primo luogo perché con il tempo non penso più di avere ragione, o anche solo di dire cose interessanti, perciò vorrei discuterne, non solo con te. Poi perché dire cose non mi basta più, forse non mi è mai bastato, ma adesso più che mai sento l’urgenza di fare, di determinare uno spostamento, un cambiamento, anche minimo, sul piano delle idee e/o dei fatti. E mentre si può dire anche da soli, a fare da soli non si va da nessuna parte, come diceva mio padre “una noce nel sacco non fa rumore”. Infine perché sono stato invitato da Stefania Zolotti, per inizio Aprile, a fare una chiacchierata con lei e Annamaria Testa alla Fondazione Foqus. Come puoi vedere dalla locandina, ha come titolo Parole al Lavoro, si svolge nell’ambito di Colloquia sul nostro tempo ed è l’anteprima nazionale dell’Edizione 2024 di Nobilita, Festival della Cultura del Lavoro. Spero di non essermi sbagliato, ma mi è sembrato un buon momento per mettere qualche idea a cuocere.
Ti mando un abbraccio fortissimo amico mio, spero davvero con tutto il cuore di rivederti presto.
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