Michele Rivello, ‘u prisirendi

PER COMINCIARE
Cara Irene, con il mio amico Mario Greco, il Barbiere De Giulio, è da un po’ che abbiamo pensato di raccontare Michele Rivello, ‘u prisirendi, il presidente. Trovare la chiave, il filo conduttore della storia, non è stato facile, ‘u prisirendi non ha una storia sola, è fatto di tante storie intrecciate dalla vita e dai ricordi. Alla fine ho pensato di raccontarlo un poco alla volta, così posso gestire meglio i suoi salti di spazio e di tempo e il suo casiddisi, il dialetto di questa bella comunità. L’altro vantaggio è che tra una trascrizione e l’altra delle registazioni posso tornarci su, cogliere meglio le sfumature, i dettagli, che sono importanti sempre e nelle storie come questa ancora di più.
L’altro giorno sono stato dal Barbiere De Giulio e abbiamo registrato il primo pezzo, intanto che ci lavoro ti suggerisco di guardare il piccolo documentario realizzato da Giuseppe Jepis Rivello, così cominci a conoscere la persona, a entrare nella storia, a scoprire l’amicizia e l’amore per la musica che lega il barbiere e il presidente. Sì, direi che per cominciare mi posso fermare qui, buona visione.

 

MICHELE RIVELLO | IL RACCONTO
Prima Puntata | Seconda Puntata | Terza Puntata

PRIMA PUNTATA | DALL’INFANZIA A MARDEDDA ALLA MORTE DI MIO PADRE
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Sono nato il 6 luglio 1931 da una povera donna, una volta si diceva figlio di N. N., anche se in realtà mio padre l’ho conosciuto e mi ha voluto bene, e anche la moglie lo stesso, ma questo ve lo racconto tra un attimo.
Ho fatto la terza elementare, e sono cresciuto come tanti ragazzi di quegli anni, fra birbanterie, lavoro e strada a Mardedda, qui nel centro storico, fino a quando mio padre, d’accordo con la moglie, non mi è venuto a prendere e mi ha portato a casa sua.
Avevo 13 – 14 anni, era il 1944, il 1945, verso la fine della guerra, ma mio padre per quei tempi là stava bene, teneva il terreno, teneva le capre, le pecore, due buoi, due vacche, teneva tutto.
Mi prese in casa sua e cominciai a lavorare, mi faceva pascolare le bestie, mi faceva fare tutto, mi faceva fare il padrone, e quando mi feci più grande, verso i 18 – 19 anni, mi affidò tutto.
Il mio lavoro principale era arare il terreno con i buoi, mio padre aveva parecchia terra. Con i due buoi ai lati, l’aratro e io in mezzo, aravo la terra, rivoltavo le zolle, facevo i solchi, poi a novembre dicembre seminavamo il grano, poi a maggio il granturco. L’altra cosa che facevo era curarmi degli animali, portarli al pascolo, mungere le due mucche, aprire e chiudere la stalla e il recinto mattina e sera, facevo questo.
La terra e gli animali, queste erano le mie giornate di lavoro, e stavo bene, non mi mancava niente, aravo, sempre con i buoi, avanti e indietro, avanti e indietro. Andavo pure a lavorare alla giornata, per qualcuno. Mi trattavano bene, io con l’aratro ero bravo, il terreno lo aravo bene, a zappare poco e niente, dico la verità, ‘a zappa nun me piacia, la zappa non mi piaceva. Facciamo, per esempio, che io venivo a lavorare una giornata per voi, in cambio voi mi davate quattro giornate per me, funzionava così. Tenete presente anche che avevo una tradizione di famiglia alle spalle, mio nonno lo chiamavano Michele o vualano, il bovaro, e vualano è rimasto il soprannome della nostra famiglia. Comunque sì, la famiglia di mio padre stava bene, lavoravano in campagna, però stavano bene.
Mio padre era contento di me, mi diceva “tu sei il padrone”, va bene pensavo io. Fino a quando stavo con lui lavoravo ma non mi mancava niente, avevo anche la cento lire in tasca, è la verità, io con lui stavo bene.
Poi arrivò quel maledetto 13 Dicembre del 1951, il giorno di Santa Lucia, quando arrivai alla masseria e mi accorsi che ci avevano rubato tutti gli animali. Ci avevano rubato tutto, tutti gli animali, tutto.
Io sono rimasto, sono rimasto senza parole, senza fiato, ho chiamato mia sorella Francesca, “idda ia ’a casa”, lei è andata a casa, l’ha detto a mio padre, e lui si è sentito male, ha avuto un colpo forte, è cascato a terra all’istante. Quando mia sorella gli ha detto che avevano rubato tutto è rimasto, gli è venuto come un infarto, però per fortuna poi si è ripreso.
Il 27 – 28 Dicembre dello stesso anno, il 1951, si vendevano due buoi e una vacca e io e un cognato mio dicemmo “pigliammuninni”, prendiamoli, perché alla masseria non è rimasto niente, così ci rimettiamo gli animali, e così li abbiamo presì. Però iddu, lui, è venuto in campagna, “ma nun so’ i mei”, ma non sono i miei, disse, “chisti so’ i vuosti”. Il 13 Gennaio 1952, a un mese esatto dal furto, gli è venuto un infarto ed è morto. Gli animali per lui erano tutto, era con i buoi che aravamo la terra dura, e sempre con i buoi pisavamo, in pratica con la pietra trascinata dai buoi nell’aia facevamo la trebbiatura per separare il chicco dalla paglia e dalla pula. Gli animali per noi erano troppo importanti, e mio padre non ha superato il colpo, e così quando non avevo ancora 21 anni l’ho perso.
Dopo la sua morte niente è stato più lo stesso. Come vi ho detto la moglie mi voleva bene, non mi mancava niente, però senza mio padre non mi sentivo più a mio agio come prima, anche se sono stato ancora qualche anno con questo mio cognato a portare avanti il lavoro con gli animali e tutto, abbiamo continuato per qualche anno così, però sapevo che dovevo prendere la mia strada, e così ho fatto.

SECONDA PUNTATA | DAL MATRIMONIO ALLA PARTENZA PER LA GERMANIA
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Mi sono sposato il 4 dicembre del 1954, il giorno di Santa Barbara. Mi sono messo solo, casa affitto, ci sono stato pochi mesi, fino a giugno, poi tenevo un poco di casa a Mardedda, ho fatto una stanza sopra, ho allargato un poco avanti, e allora me ne sono passato là, sono stato là con mia moglie. Nel 1956, a marzo, è nato mio figlio e nel 1959, a gennaio, è nata mia figlia.
Mio figlio vive in Germania e pure lui tiene due figli, un maschio e una femmina. La femmina faceva l’hostess, viaggiava in Europa, poi quando le hanno detto che doveva viaggiare in tutto il mondo ha lasciato, il maschio fa l’autista del treno, stanno bene. Anche mia figlia tiene due figli, la femmina è avvocata, sta a Cosenza, lavora all’Inps, e sta bene. L’altro sta qua, Michele, lo chiamano ‘o Jolly, e fa il maestro di musica, insegna anche a scuola, e sta bene. A Michele io lo portavo al conservatorio, lo aspettavo la sera, a iddu (lui) e a Giuseppe lato Fiscina, li accompagnavo tutti e due al conservatorio.
Per qualche anno dopo sposato ho fatto lavori vari, fino a quando nel 1957 sono andato a lavorare alla diga, a Sabetta, dove adesso sta la centrale, dove ho lavorato fino al 1959.
Alla diga sono stato bene, sono stato sempre quasi all’impianto, non è che stavo a scavare o a fare le fondazioni (fondamenta), stavo quasi sempre all’impianto, al calcestruzzo, distribuivo il cemento a chi lo cercava. C’è una bella storia di quando ho fatto per la prima volta il cemento, adesso ve la racconto.
C’era un mio amico che aveva lavorato nelle ditte, che si chiamava Amerigo, lui mi chiamava 164, perché tenevo la matricola io, e disse vicino a me, “vuoi stare all’impianto, fai il cemento? Qui c’è scritto, tanto cemento, tanta acqua, tanto briccio (brecciolino), tanto di ogni cosa”. Io risposi “Si, e come no”, dopo di che acchiano (salgo) sulla macchina con il camion sotto e chiedo quanti impasti devo fare, lui mi risponde “4, 164!” e io dico “va bene”.
Faccio il primo, tanto cemento, tanto ghiaia, tanto sabbia, tanto acqua, tanto tutto, faccio girare la macchina per fare l’impasto e poi ribalto il tutto nel camion: mi accorgo subito che è troppa acqua, più acqua che tutto il resto. Dal camion non esce, perché è chiuso, ma comunque è troppa acqua. “Mannaggia la miseria”, penso, mentre il mio amico si mise a ridere e mi disse “ma che che fai?”. 
In pratica in non avevo abbarato che era chiuppeto, non avevo considerato che aveva piovuto, e che la sabbia con tutto il resto era umida, bagnata, insomma avrei dovuto metterci meno acqua. Comunque, faccio il secondo impasto, metto meno acqua, ma quando ribalto è comunque troppo bagnato. “Mannaggia la miseria”, mi ripeto, “ma com’è che è ancora così bagnata”, mentre il mio amico continuava a ridere. Al terzo impasto di acqua quasi non ce ne metto, e viene buono, però non proprio come doveva venire. Il quarto impasto lo faccio completamente senza acqua, senza niente, lo faccio girare per fare l’impasto e quanto lo ribalto nel camion al centro c’è questa montagnozza dura, intorno l’impasto più morbido e più intorno ancora acqua.
Parte il camion, con me sopra, percorre pochi chilometri, però ci sono tante curve, le strade sono accidentate, e finalmente arriviamo al posto dove dobbiamo scaricare.
Avevano messo delle piastrine dove dovevamo scaricare, una specie di piazzola di latta, insomma quando arriviamo l’auto ribalta e nel ribaltare si ammischiuvala, mescolava, di nuovo tutto, e vanne fuori una cosa fine, perfetta. A quel punto venne il caposquadra, si chiamava Pietro, e disse “chi ha fatto questo cemento”, il mio amico si mise a ridere ma rispose la verità, “l’ha fatto il 164”, e a quel punto il caposquadra disse “il 164 resta con me, me lo piglio io, lo tengo all’impianto e me face ‘o cemento a me, fa il cemento per me. E così pigliai il posto all’impianto.
Tornando a noi, quando nel 1959 ho lascioto l’impianto mi sono messo insieme ad alcuni cugini e amici, eravamo a volte in tre e a volte in quattro, a fare i caròppili pi fa’ i pippi, i ciocchi per fare le pipe, insomma la radica dell’erica, che è di legno duro e assai resistente al calore e per questo è la più adatta le pipe. Non era facile, ci voleva anche la salute per fare questo lavoro, non tutte le piante le avavena, bisognava scavare e tirarle fuori dal terreno. Ed erano di diversa grandezza, più le piante sono vecchie e più i caròppili sono grossi. Comunque noi li raccoglievamo e li vendevamo a chi poi le lavorava e faceva le pipe. Ho fatto questo e altri lavori fino a quando, nel 1962, c’è stata l’emigrazione e me ne sono andato in Germania, dove sono stato a lavorare fino al 1967.

TERZA PUNTATA | QUATTRO ANNI IN GERMANIA
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Sono partito per la Germania il 25 Aprile 1962 e ci sono rimasto per 4 anni, fino al 1966. Sono andato in un posto chiamato Randegg, una frazione di Gottmadingen. Lì c’era ’na banna, una parte, dove c’erano parecchi paesani, chi sotto, chi sopra, si chiamava Casa Bianca. Lì avevo molti amici, cugini, c’era anche Rita Rivello, mia cugina, voi la conoscete, pure lei ha una storia piena di cose da raccontare.
I lavori che ho fatto in questi 4 anni sono stati sostanzialmente due: sono stato prima in una fabbrica che faceva macchine agricole, macchine di ogni genere, ci sono stato per due anni, fino a quando non tornai a Caselle perché avevo la famiglia qua, io i 4 anni in Germania sono stato da solo. Quando me ne sono venuto a Natale dopo due anni avevano fatto una legge che chi firmava le dimissioni non poteva essere ripreso nella stessa azienda, e così quando sono tornato, nonostante il caposquadra mi volesse molto bene, non sono potuto rientrare. E così sono finito in un’azienda dove si producevano birra e altre bevande. Qui sono stato per un altro paio di anni, però da ogni ogni 2 – 3 mesi tornavo per qualche giorno.
A parte il lavoro, dove pure mi hanno sempre voluto bene, quello che vi voglio dire è che noi casellesi eravamo una piccola comunità, molto unita tra noi, stavamo insieme, ci aiutavamo, gli aneddoti che potrei raccontare sono tantissimi, tutto non ve lo posso dire, altrimenti la facciamo troppo lunga, però qualche storia ve la posso raccontare.
La prima riguarda la formazione di una piccola banda musicale, ci riunimmo un sabato, eravamo 8 – 10 amici, c’era il marito di Rita, lo avete conosciuto, murìa, è morto, da poco, c’era suo fratello, c’era uno che lavorava al pub, 8 – 10 amici per formare questa piccola banda musicale, co’ spinetto (armonica a bocca), ’o tamburrello, ’a melodica (pianola a bocca), ’a fisarmonica, insomma tutto quello che serviva a una bandicella così, tra amici, per andare in giro a suonare per i nostri paesani.
Per esempio una volta una donna di Caselle, Rosa, ha avuto una bambina, e per festeggiarla siamo andati a suonare ù Zaccanu, dove c’erano parecchi nostri paesani, a Gottmadingen. E allora questa donna che fece, fece 40 – 50 panini, con sèrvole (würstel), biscotti, birre, aranciate, c’era di tutto di queste cose qua. Noi facevamo una bella suonata e a un certo punto c’era uno, un mio cognato, che si chiamava Rosario, aveva fatto un poco di scuola, al tempo qua avevamo la maestra De Giacomo, era una maestra brava, e insomma Rosario ci fece ’nu discursetto, un piccolo discorso, disse che era nata la bambina, auguri qua, auguri là, mentre noi continuavamo tutto intorno a suonare la musichetta nostra, e poi quando finì disse “allora la banda di Randegg suona Rosa Rosella, e noi ra – ra – ra, ra – ra- ra – ra, ramba bella bella, bella bella, bamba bamba bà. E così per tutta la serata del battesimo, una bella cosa.

La seconda riguarda la nostra organizzazione come comunità. Sempre un sabato ci siamo riuniti, eravamo una trentina di amici di Caselle alla Casa Bianca, e ci siamo detti “qui dobbiamo fare un comandante”.
“E che comandante?”
“Qualcuno che si deve avvisare la sera se si esce di casa.”
“E che io devo dire la sera dove vado?”
“No, no, non devi dire dove vai, devi solo avvisare che ti ritiri tardi o non ti ritiri.”
Partimmo da lì e facemmo le elezioni, chi pigliava più voti, faceva ‘o sindaco. E non ci fermammo lì, perché il secondo eletto faceva il vice sindaco, il terzo assessore, ognuna di queste 20 e più persone partecipanti aveva una carica, compresa, come vio ho detto, mia cugina Rita, che era un tipo forte, sempre pronta a stare al gioco.
Andiamo a fare le elezioni, facciamo lo scrutinio, e come sindaco risulto eletto io. Un altro mio cugino, Risoli Gennaro, vice Sindaco, un mio nipote Assessore, insomma eravamo tutti quanti, fino a che facemmo le guardie, i sorveglianti, tutti casellesi, tutti della nostra comuntà, c’erano quattro o cinque donne pure.
Quando c’era qualcuno che reclamava, per esempio diceva “vedi che quello ha fatto questo, bisogna multarlo” io, come Sindaco, accordavo, trovavo il modo di mettere pace, a volte mettevo un marco di multa, altre volte un poco di più, a secondo di quello che aveva fatto. Come Sindaco di Randegg questo dovevo fare, Randegg come vi ho detto era il posto dove stavamo. E naturalmente valeva anche per me. Una sera mi sono ritirato tardi a casa senza avere avvisato e ho trovato un biglietto del vice Sindaco dove c’era scritto “Rivello Michele deve pagare una multa di 5 marchi perché non ha avvisato.” Ripeto, non dovevo dire dove andavo, dovevo dire soltanto che non mi ritiravo, era una specie di controllo della comunità. Scusate, altrimenti a che servivano le guardie e i sorveglianti? Loro ogni sera andavano a vedere, a controllare se ci eravamo ritirati. “Rivè, ce sì?”, “Rivello, ci sei?”, e allora scrivevano subito, portavano il rapportino e tutto era controllato.
Perché lo facevamo? Per stare insieme, per stare più d’accordo, più uniti, ci volevamo bene. Là non scappava nessuno, ed eravamo tutti d’accordo che doveva funzionare così. Se una usciva la sera, lo sapevamo, non sapevamo dove era andato però sapevamo che era uscito. E poi ci inventavamo storie per stare insieme, per divertirci, per passare le serate.
Per esempio, c’era una donna un poco scherzosa che venne da me e mi disse “allora c’amma fa, c’amma, fa”, cosa dobbiamo fare, e mi disse “diciamo che uno ha cercato di molestarmi”, come vi ho detto lei era una allegra, scherzosa. “Sindaco, diciamo che un nostro paesano, per esempio G. T., si è buttato addosso all’improvviso, mi ha strappato la camicia, ha cercato di buttarmi per terra e di toccarmi persino nelle parti intime però non ci ha potuto e l’ho sbattuto fuori di casa.” Così le ho fatto fare la denuncia, ho chiamato i carabinieri, sempre i paesani, i nostri amici casellesi eletti carabinieri, mandammo a chiamare G. T., e gli dicemmo che in base alla denuncia si doveva trovare l’avvocato, sempre tra i paesani.
L’avvocato Parrillo era della donna, l’avvocato Pignataro dell’uomo. Professò, ma lì eravamo più di 50 persone, venìano, vennero, i paesani dagli altri paesi quando si fece la causa la sera. Era un sabato, ma già dai giorni precedenti non si parlava d’altro: sabato c’è la causa a Randegg, c’è la causa di G. T., c’è la causa della tentata violenza.
Professò, quando parlò, quando fece l’arringa l’avvocato difensore della donna ve lo vorrei far vedere mentre ricordava tutto quello che era successo apostrofando il farabutto e battendo i pugni sul tavolo, bum, bum bum, ve lu vurrìa fa vedere. Con tutto il pubblico che ascoltavano e le guardie intorno all’imputato.
L’avvocato dell’uomo poi, era ’nu filosofo, aveva fatto la scuola, avete capito, allora parlava più italiano, però poi l’uomo fu condannato, fu condannato a non so quanti anni di carcere più le spese, non è che si può trattare così una donna. A quel punto le due guardie lo hanno preso per portarlo dentro, uno di loro quando lo ha pigliato per il braccio, talmente che era coinvolto nella parte, gli ha gridato “vai farabutto, dentro, dentro.”, e noi tutti a ridere. Durante il processo il giudice ogni tanto suonava il campanello e diceva “silenzio in aula”, perché si parlava, si commentava, il giudice si chiamava Fortunato. La serata poi naturalmente la passammo tutti assieme, un bicchiere di vino, un panino con il würstel, questo era, però era bello.

Infine c’è la storia della maglietta della squadra di calcio, che pure questa è bella, anche se è stata in un altro tempo, quando mi sono trasferito a Gottmadingen, comunque se la volete sentire vi dico pure quest’altra.
Allora, come vi ho detto a Randegg noi stavamo a Casa Bianca, non eravamo solo casellesi, c’erano anche altri, per esempio calabresi, comunque eravamo tutti uniti da un’amicizia forte. Dopo un paio di anni e mezzo lasciai Randegg e mi spostai a Gottmadingen. Sono arrivato a Gottmadingen e lì c’era una banna (una parte, un posto) chiamato Lo Sterno, era un bel locale, con grandi locali, e lì ci incontravamo con i paesani. Fu lì che cominciò questa cosa che dovevamo fare una squadra di pallone, che dovevamo fare le magliette.
Io e un mio amico, un cognato di mia cugina Rita, cominciammo ad andare in giro a raccogliere soldi tra i paesani per fare la squadra e le magliette, ce li davano i soldi, partecipavano, raccogliemmo tutto quello che serviva per prendere le magliette e tutto. Naturalmente non sempre era possibile, per esempio una sera andai da un mio compagno, era un amico, ma un amico veramente, era di Napoli, trasietti (entrai) e gli dissi cumpà Nicò, ti devo chiedere una cosa.
“Eh, cumpare bello, pure ruje (pure due)”, mi rispose, “di che si tratta?”
“Devo comprare le magliette per la squadra di calcio e sto cercando un po’ di soldi”, feci io.
“Cumpà,” mi disse lui, “tu vuoi bene ‘o cumpare tuo?”
“Eh, certo, che ti voglio bene”, risposi pronto.
“E allora, se vuoi bene o cumpare tuo, non gli parlare di soldi”. Dopo di che chiamò la moglie Minicuccia, e gli disse di prendere le birre per lui, per me e per l’amico che mi accompagnava. E dopo quel giro ne facemmo un altro. Che cosa vi voglio dire professò? Che i soldi che mi avrebbe potuto dare per le magliette le spese per le birre, ma si vede che era fatto così.
Tornando a noi, una volta raccolti i soldi, ci riunimmo una sera int’a stu Sterno (in questo locale), per decidere che magliette fare. E che vuoi decidere, chi la voleva del Napoli, chi della Juve, chi dell’Inter, chi della Roma, chi del Milan, chi della Fiorentina, insomma ognuno la voleva della squadra che piaceva a lui. A un certo punto mi sono scocciato e ho detto “ah, così è?, allora sapete che faccio?, dato che i soldi ce li ho io le magliette non ve le compro proprio e me ne vado.” E così feci.
Passato qualche giorno, c’era un amico che sapeva parlare bene il tedesco, non era di Caselle però era un amicone, si chiamava Emilio, e gli proposi di andare in un paese vicino dove c’erano le case sportive che vendevano magliette di calcio. Andammo a vedere, e ci rendemmo conto che tenevano tutte magliette tedesche, ci pensai e gli chiedemmo se ci poteva fare delle magliette tricolori, come la bandiera italiana, e il titolare del negozio ci rispose sì, le posso far fare però dovette aspettare 10 – 15 giorni, forse pure 20.
Per noi andava bene, e così le ordinammo: bianche e rosse davanti, verdi indietro, un braccio bianco, e un braccio rosso.
Quando furono pronte ci rivedemmo al locale e arrivarono tutti e gliele facemmo vedere furono tutti contenti, allegri, ma allegri veramente, entusiasti.
Avevamo comprato pure una bandiera tricolore, e così dissi a un ragazzo, lo chiamavamo Farfalla, era bravo, ingegnoso, insomma aiutava, che prima della partita dovevamo fare un alza bandiera nel campo, accompagnati dalla musichetta della banda. Il ragazzo mi rispose che si poteva fare, però se veniva la polizia ci arrestava, alla fine stavamo in un paese straniero.
Ci pensai su e decisi che non ci potevamo arrendere così facilmente e così andai alla polizia e chiesi se potevamo fare l’alza bandiera. La risposta fu precisa e positiva: “l’alzabandiera la potete fare nel campo, potete girare e fare quello che volete nel campo, però se uscite fuori vi arresto.” E così abbiamo fatto, e l’alza bandiera l’ho fatta io.
Poi dopo quattro anni me ne vinietti (me ne tornai) e in estate la squadra giocò anche qui a Caselle con la maglietta tricolore, una partita o due qui nel campo dove adesso c’è la villa comunale, dopo di che loro sono tornati in Germania io sono rimasto qua e a un certo punto ho saputo che si fecero rubare le magliette, e così finì la maglietta tricolore. Però la squadra andava bene, dopo fecero uno squadrone, a un certo punto sono andati anche a fare una finale non so di che a Stoccarda. E l’hanno persa per un niente, per un rigore, per uno dei nostri che sbagliò un rigore.

CREDITS
Grazie di cuore a Giuseppe Cacetta Pellegrino per le splendide foto e alla maestra Elisabetta Giudice per l’aiuto nella comprensione – traduzione del dialetto casellese. Naturalmente tutti gli errori che continuano ad esserci sono solo ed esclusivamente colpa mia.