La Libreria di Bottega di Giuseppe, a Caselle in Pittari, nel Cilento

Cara Irene, non bastava Scritte, non bastavano i piccoli documentari, la piccola scuola per artigiani della narrazione, la formazione e le consulenze, il nostro amico Giuseppe ne ha combinata un’altra delle sue, tre mesi fa ha aperto una libreria di bottega e l’ha dedicata al Crea Racconta Ricrea, che poi è il filo conduttore del suo lavoro e della sua vita, il suo claim, come direbbe lui, forse.

Per ascoltare il podcast clicca sull'immagine

Per ascoltare il podcast clicca sull’immagine

Come sai, amica mia, sono tre anni che ho scelto di vivere a #Cip, Caselle in Pittari, Cilento. Tre anni in cui ho avuto tante volte la fortuna di vedere, negli occhi di Giuseppe, la luce di chi ama quello che fa, ci crede, ha fame, nel senso che è disposto a fare la fatica che ci vuole per farlo, giorno dopo giorno, in modalità beta permanente. Quelli come lui sono fatti così, hanno la luce negli occhi che illumina le cose, per questo non ce ne sono tanti. Ora tu potresti dirmi “e allora?”. E allora mi sono messo in testa che con i libri gli occhi di Giuseppe luccicano ancora di più. Bada bene, non sto dicendo che è così, può essere solo una mia impressione, alla fine i libri sono la mia materia prima molto di più delle foto, dei video, dei podcast e delle mille altre cose che popolano le giornate del mio amico. Senza contare che da giovane sono stato anche un  libraio e magari basta questo per falsare la mia percezione, potrebbe essere una specie di bias cognitivo nonostante le mie buone intenzioni. Sta di fatto che qualche giorno fa ne abbiamo parlato, sono partito come mi capita spesso dall’importanza delle relazioni, dalle connessioni, da Hume, da Veca, e siamo andati a finire al suo rapporto con i libri. Gli ho detto che mi sarebbe piaciuto raccontarlo, mi ha risposto che gli sembrava una bella idea, così ci ho pensato su una giornata, ho messo in fila un po’ di domande e un po’ di citazioni, ci siamo incontrati in bottega ed è venuta fuori la conversazione che segue. Buona lettura.

Logo50_t

Vincenzo Moretti: Allora Giuseppe, come ci siamo detti ho preparato un po’ di domande e per ciascuna ho cercato un pensiero, una citazione, che mi ispirasse, e soprattutto ispirasse te. L’eccezione che conferma la regola riguarda la prima domanda, dove le citazioni, brevi, sono quattro. Naturalmente avrei potuto anche in questo caso sceglierne una, ma come sai le cose troppo ordinate non mi piacciono e ho pensato che per cominciare era meglio allargare il campo, le fonti di ispirazione, le possibilità.
Le citazioni in questione sono nell’ordine di Rocco Scotellaro, Woody Allen, Franz Kafka e Barbara Tuchman:
“Con un libro al capezzale, anche la morte è una tenera amante.”
“Leggo per legittima difesa.”
“Un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.”
“I libri sono l’umanità stampata.”
La prima domanda è breve, diretta, forse anche semplice, anche se non ci giurerei: Che cos’è per te un libro?

Giuseppe Jepis Rivello: La mia prima parola è grazie. Grazie per questa possibilità, per questo dialogo intorno al libro e alla libreria. Se ci pensi, il libro sta tra noi due dall’inizio, per certi versi la nostra stessa amicizia è cominciata con un libro, Testa, Mani e Cuore. Ricordo che mi cercasti per chiedermi delle cose che ti servivano per un tuo racconto e da lì, dalla tua immaginazione, dalla tua capacità di ascolto e di osservazione della realtà, Caselle in Pittari è diventata Cip, con tutto quello che ne è seguito e ne sta seguendo ancora.
Ma torniamo al punto: che cos’è per me un libro. Comincio con una metafora che sento molto mia, quella della montagna, e ti dico che per me un libro è come una montagna da scalare, naturalmente una montagna non inaccessibile, una montagna che si può scalare.
Vedi Vincenzo, le montagne le possiamo guardare, o anche ascoltare, però poi le dobbiamo affrontare, percorrere, scalare. Quello che conta però non è la performance ma il percorso che ci permette di conoscerla, di mettere alla prova la nostra relazione con lei dal punto di vista della nostra fisicità, del nostro corpo, e non solo.
Se ci pensi anche i pensieri che hai citato sono delle montagne, nel senso che li puoi osservare, li puoi ascoltare, ne puoi ammirare la bellezza, però puoi anche decidere di affrontarli, di conoscerli, di scalarli. E per farlo devi averne rispetto, proprio come accade per la montagna. E alla fine cerchi di fare tuoi i pensieri così come cerchi di fare tua la montagna, anche se in realtà sei consapevole che né gli uni e né l’altra saranno mai fino in fondo tuoi.
La montagna una volta che l’hai scalata rimane lì, non è tua, anche se l’hai conquistata. Non fosse altro perché milioni di altri sono andati su quella montagna prima di te, e milioni ci andranno dopo, ne hanno goduto, hanno respirato l’aria che si respira in vetta e poi sono ritornati laddove erano partiti. E lo stesso accade per il pensiero: lo conquisti, lo scali, lo fai tuo, ma non è tuo, anche in questo caso ci sono una condivisione e un ritorno. Un ritorno che però non è statico, perché dopo la scalata e il ritorno indietro in realtà non sei più uguale a prima. È questo quello che fanno la montagna e il pensiero, è questo il senso della scalata, secondo me.
In questo contesto i  libri sono insiemi di pensieri articolati, disegnati, ricamati in rivoli di prosa e poesia che assumono forme diverse e contengono l’essenza stessa dell’umanità, l’essenza della ricerca che come uomini e donne facciamo da sempre e ogni tanto proviamo a raccontare, con l’aiuto delle parole, in un libro.
Perché lo facciamo? Per affrontare noi stessi, i nostri pensieri e le nostre montagne. Per condividere con gli altri i pensieri e le montagne che abbiamo scalato.  In un certo senso un libro è una straordinaria opportunità per chi lo scrive e tante straordinarie opportunità per chi lo legge.
Un’altra metafora che mi piace molto mi aiuta a dire che il libro ha dentro di sè il valore del seme. Un valore atavico che è uno e però diventa molti nel momento in cui viene condiviso. Credo che la forza del libro dipenda anche da questo, dalla possibilità di essere riprodotto. I libri sono anche questo, delle tecnologie straordinarie di produzione e di riproduzione, molto innovative nonostante le diverse centinaia di anni, oltre mezzo millennio dall’invenzione della stampa, che hanno alle loro spalle. E questo mi riporta a questo luogo, alla mia bottega, che è uno spazio di produzione e di riproduzione insieme, uno spazio in cui dopo aver prodotto c’è immediatamente la necessità di riprodurre. Mi ci hai fatto pensare tu all’inizio e credo che per ora io possa fermarmi qui.

Logo50_t

V.M.: Questa cosa del libro come “tra” del nostro rapporto mi piace assai. Mi viene in mente Novelle Artigiane, con il secondo racconto, Il sogno di Sofia, che ha Jonas, la mia versione fiction di Jepis, tra i protagonisti principali. E ovviamente mi vengono in mente anche Parole Forgiate e AlphaBeta, i due libri che abbiamo scritto assieme.
Detto questo, vengo subito alla seconda domanda, che riguarda il primo libro che hai letto, il primo libro che è stato importante per te. Che ricordi ne hai? Lo hai comprato tu? Ti è stato regalato? Qual è stata la relazione che hai costruito con lui? La citazione, il pensiero che ho scelto per questa domanda è di Amos Oz:
“C’era come la sensazione che mentre gli uomini vanno e vengono, nascono e muoiono, i libri invece godono di eternità. Quand’ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand’anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver.”

G. J. R.: Direi che nella mia vita ci sono due primi libri. Il primo dei due mi lega indissolubilmente alla mia infanzia, al tempo in cui frequentavo le scuole elementari. Il libro ci fu suggerito dalla nostra maestra Bruna ed era Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, di Luis Sepúlveda, autore che poi è rimasto, anche per il suo pensiero politico, tra i più importanti per la mia formazione. I suoi racconti, le sue riflessioni, da allora sono sempre stati con me. Del resto i temi di quel libro sono temi universali che oggi più che mai sono attualissimi, direi archetipali, di quelli che non tramontano mai.
L’altro mio primo libro l’ho invece incontrato in una biblioteca quando è cominciata la mia metamorfosi da adolescente a giovane attivista impegnato politicamente ed è stato il libro che ha rintracciato in me degli aspetti plurali che riguardano la mia identità e la mia esistenza. Il libro è La fine è il mio inizio di Tiziano Terzani e Folco Terzani. Secondo me è importante riconoscere il ruolo di Folco, il figlio, sia nel libro, che è postumo e curato da lui, sia nel lungometraggio, che ha sceneggiato ed è stato girato all’Orsigna, sulla montagna pistoiese, dove Tiziano Terzani ha vissuto l’ultima parte della sua vita.
Perché amo e ho amato questo libro? Innanzitutto perché mi ha fatto avvicinare in maniera seria alla lettura. E poi anche perché ha una struttura che mi sono portato indietro nel lavoro che faccio in tutti i suoi molteplici aspetti: la struttura della relazione tra due generazioni, tra due modi di vedere il mondo che non si contrappongono, non si fanno la lotta a prescindere, ma si innestano, si mescolano, per certi versi si completano. Ecco, a mio avviso la conversazione tra padre e figlio ha dentro di sé la forza cosmopolita del padre Tiziano e la forza della memoria del figlio Folco. Una memoria che non si fa polverosa, che va avanti, che cura il pensiero del padre ma allo stesso tempo è memoria operativa, memoria che riproduce, memoria che guarda al futuro.
Ecco, i miei due libri per così dire iniziatici, quelli che spero non mancheranno mai né nella mia biblioteca personale e né nella libreria, e con i libri i pensieri, le suggestioni e le ispirazioni dei loro autori, sono questi.

Logo50_t

V.M.: Giusé, che meraviglia! Avrei parecchie cose da dire, ma le tengo per me e vengo alla terza domanda: Qual è la tua relazione, il tuo rapporto, con i libri di scuola? Come li hai trattati? Li hai amati? Ne hai avuto cura? Che ruolo hanno avuto nella tua formazione? Ci scrivevi sopra?
La citazione questa volta è di Ray Stannard Baker:
“Come è comodo e piacevole il mondo dei libri! Se non viene presentato come un obbligo allo studente, o se non è usato come un sedativo alla pigrizia, ma se vi si penetra con l’entusiasmo di un avventuriero!”

G. J. R.: Adesso che mi ci fai pensare devo dire che non ho mai avuto un gran rapporto con i libri di scuola. Non ero uno studente modello, o almeno non lo sono stato fino a un certo punto, quando non sono diventato uno studente modello però ho cominciato a prendere consapevolezza. In ogni caso non ho amato i libri di scuola, non solo quelli delle elementari, delle medie e delle superiori, anche quelli dell’università non sono stati libri che ho amato particolarmente. Però anche qui c’è un’eccezione, nel senso che un libro che mi ha fatto scoccare la scintilla all’università c’è stato ed è stato pure quello un libro che mi sono portato e che mi porto dietro. Il libro era Semiotica e Comunicazione, di Anna Cicalese, che non è più disponibile, però nel 2019 l’autrice ha pubblicato, sempre per la Franco Angeli, Appunti di Semiotica.
Per il resto confermo che i libri di scuola non li ho amati, li ho maltrattati abbastanza, però facevo delle cose, li conservavo, anche quelli che appartenevano a mio padre o ai miei zii, mi piaceva recuperare i vecchi libri di scuola e li conservavo.
Nel periodo delle medie e delle superiori facevo anche un’altra cosa, investivo una parte dei miei pochi risparmi per acquistare libri, o anche volumi di enciclopedie, in edicola. Per me era importante che a decidere di acquistarli fossi io, anche se magari erano simili ai libri di scuola li compravo perché ero io a decidere di farlo. Questa cosa di impormi i libri da leggere mi scocciava abbastanza, anche se non lo davo a vedere perché non protestavo.
Penso che i libri scolastici vanno in qualche modo costruiti a scuola, imporli secondo me è controproducente. Certo, si possono suggerire quelli di narrativa, di ispirazione, ma per il resto i libri andrebbero costruiti durante il percorso con la partecipazione della classe. Lo so che così è più faticoso, ma secondo me l’amore delle ragazze e dei ragazzi per lo studio crescerebbe in maniera esponenziale. Se ci pensi, è la storia degli atomi e dei bit che si ripete.

Logo50_t

V.M.: Hai appena tirato fuori un pensiero da rubare amico mio: le lezioni di testo invece dei libri di testo, se posso dire così. La lezione che diventa testo, con corredo di immagini, link e altro; la lezione rilegata che diventa capitolo e insieme agli altri capitoli diventa libro. Un libro frutto del sapere e del saper fare non solo del docente ma anche della classe.
Mi fermo qui e vengo alla quarta domanda, che per te che sei un lettore seriale potrebbe essere un problema: quali sono i libri che ti hanno indicato la strada? Raccontami un po’ di intrecci con i tuoi libri di una vita. Se li hai scoperti tu, se invece ti hanno chiamato, cose così.
Alla voce libri di una vita il pensiero che ho scelto è di mastro Jorge Luis Borges:
“Il libro non è un ente chiuso alla comunicazione: è una relazione, è un asse di innumerevoli relazioni.”

G. J. R.: Qui ho una confessione da fare: io dei libri non ricordo tanto. Perché non ricordo tanto? Perché secondo me il bello della letteratura, e dei libri in generale, non sono le trame, ma piuttosto quello che ritroviamo in noi stessi mentre leggiamo e quello che resta nel momento in cui dimentichiamo la trama.
Secondo me la letteratura non è fatta delle trame, la letteratura è quella magia, quell’anima, quello spirito che resta a terra, o nell’aria, nel momento in cui se ne va la trama. È un misto di prospettive, umanità, emozioni nel tempo e nello spazio e di tanto altro ancora.
Riprendendo un po’ la tua domanda, naturalmente dimenticando qualcosa, dimenticando tanto, ti dico che c’è un libro che mi ha indicato la strada delle storie nella storia, del rapporto tra storie e storia, ed è Il resto di niente, dove Enzo Striano racconta Eleonora de Fonseca Pimentel e la rivoluzione napoletana del 1799.
La potenza delle storie nell’essere tessere del mosaico della Storia, questo è il grande lascito di questo libro.
E poi ce n’è un altro, piccolissimo, scritto da Massimo Angelini, che si intitola Ecologia della parola ed è stato come una stoccata che mi ha aperto nuove vie rispetto all’importanza della parola all’interno dei linguaggi creativi e alla ricerca del senso della parola, con le sue sfumature, nelle narrazioni.
Ecco, fin qui ho nominato un romanzo e un saggio, ma c’è un altro saggio che è stato per me molto importante negli anni scorsi che è Saggio sul dono di Marcel Mauss, un altro piccolo libro che è un gigante e in ogni caso ha segnato una parte importante dell’azione sociale, comunitaria, di scambio, di relazione su cui si fonda anche questo luogo, la mia bottega.

Logo50_t

V.M.: Bene. Vengo alla domanda che si riferisce al rapporto tra i libri e il lavoro. Cosa rappresentano i libri nel tuo lavoro? In che modo quello che leggi ti aiuta in quello che fai? La citazione che ho scelto a questo proposito è di Ugo Ojetti:
“Dai libri che leggi, posso giudicare della tua professione, cultura, curiosità, libertà. Dai libri che rileggi, conosco la tua età, la tua indole, quello che hai sofferto, quello che speri.

G. J. R.: Il libro è materia prima all’interno del mio lavoro. Materia prima che ispira il mio lavoro e che amplia, allarga, le sue possibilità. Se guardo alle mie capacità  nel realizzare video, nel produrre video, o comunque nel produrre elaborati audiovisivi, una volta raggiunte le competenze tecniche senza il libro il mio lavoro rischierebbe di appiattirsi o comunque di non avere gli spunti necessari per ampliare i punti di vista, le vedute, e dunque i mercati e il livello di sostenibilità come impresa.
A pensarci bene il libro è materia prima per qualsiasi lavoro, in quanto conoscenza che accompagna il sapere (sapere che accompagna saper fare?). Da un lato la conoscenza contenuta dei libri. Dall’altro ciò che sappiamo grazie alle pratiche, all’esperienza, al sale della nostra vita, alla sapienza in quanto stratificazione di esperienza prodotta e quindi di saper fare. Conoscenza e sapere insieme producono maggiore consapevolezza e maggiori opportunità.
Adesso se io rifletto sul mio saper fare delle cose, saper elaborare per esempio video, saper raccontare con le immagini, senza la conoscenza contenuta nei libri non avrei potuto farlo. Non parlo della conoscenza relativa a un sapere specifico ma alla conoscenza delle umane avventure direbbe Dante. Senza tutta questa conoscenza che abbiamo alle spalle il sapere sarebbe limitato al mio perimetro d’azione, e invece se ci metto la conoscenza, la materia prima, i libri, io riesco a introdurre nuovo materiale nel mio magazzino e lo posso elaborare continuamente facendo crescere anche la mia sapienza. Per me è in questo che c’è relazione tra i libri e il lavoro.
Da questo punto di vista confermo che i libri sono la materia prima per qualsiasi lavoro, che sono un po’ un punto di partenza, nella produzione, e di arrivo, nella riproduzione, di quello che si è fatto e si fa nell’ambito del proprio lavoro. Alla fine se non ci fosse stata la capacità di noi essere umani di organizzare la nostra conoscenza nei libri ci saremmo fermati, o comunque non saremmo arrivati dove siamo. Naturalmente lo dico con la consapevolezza che i libri non sono tutto, o non sono l’unica possibilità, dal mio lavoro da questo punto di vista ho imparato molto.

Logo50_t

V.M.: I libri e il lavoro della conoscenza. Nelle mie chiacchiere in giro per l’Italia mi piace spesso ricordare che conosciamo le imprese di Ulisse e la saggezza di Socrate perché Ulisse, Platone e tanti altri le hanno raccontate nei libri, altrimenti non sarebbero sopravvissute per millenni fino a noi. Devo dire che questa cosa suscita ogni volta una certa sorpresa, però una sorpresa positiva, quella di chi ci pensa su e ne condivide il senso. Ma andiamo avanti. Il prossimo pensiero è di Daniel Pennac:
“Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.”
La domanda che lo accompagna si riferisce al rapporto tra i libri e il futuro, da più punti di vista: il racconto del futuro, l’immaginazione del futuro, il futuro dei libri. Sintetizzerei proprio così: I libri e il futuro, il futuro dei libri.

G. J. R.: Il libro appartiene al futuro. Appartiene al futuro perché è una tecnologia che ci sopravvive, perché è molto meno vulnerabile di tante altre tecnologie. Perché ha una capacità di stimolare la creatività umana più di quanto fanno altri linguaggi che oggi utilizziamo o comunque elaboriamo. Perché ci permette di rimanere più umani e di potenziare le nostre capacità creative. E perché è già un dispositivo di realtà aumentata.
I libri sono dispositivi di realtà aumentata che ci danno la possibilità di dilatare il tempo, di ritrovare il nostro tempo e di riorganizzarlo.
Le altre modalità di organizzazione e di riproduzione del racconto spesso dettano dei tempi, invece il libro è collaborativo nell’organizzazione dei tempi, ci fa partecipare all’organizzazione dei tempi. Naturalmente non li dettiamo tutti noi sicuramente il libro è più cooperativo rispetto a un film, per esempio. Il libro rimette a posto i ritmi della nostra esistenza, ci riorganizza il chackra direbbe Jovanotti. Un libro mi riporta a un ritmo diverso rispetto alla freneticità di questo nostro tempo.
Ancora sul futuro dei libri c’è un libro di Umberto Eco e Jean-Claude Carrière che consiglio di leggere a tutti, il titolo è Non sperate di liberarvi dei libri. È una conversazione straordinaria tra uno scrittore e uno sceneggiatore proprio sul futuro del libro e delle librerie. Ecco, questo libro è stato per me di ispirazione nel percorso che mi ha portato ad avviare la mia libreria di bottega.
Tornando al punto io il futuro del libro lo vedo bene, lo vedo roseo, perché il libro non è legato solo e per forza alla carta, questo aspetto potrebbe anche cambiare. Il punto, per me, è l’organizzazione libro, il modo in cui ci approcciamo al media libro sia come produttori che come fruitori, il modo in cui conserviamo ciò che ci arriva attraverso i libri.
Infine il futuro dei libri sta anche nel vuoto che i libri creano nella nostra esistenza. Qual è il vuoto te lo dico prendendo in prestito le parole di Umberto Eco che quando gli dicono “quanti libri ci sono in questa sua libreria, ma li ha letti tutti?”, risponde, più o meno, così almeno dice la leggenda, “non li ho letti tutti ma quella è una straordinaria opportunità per leggere ancora”. Il vuoto che ci stimola a leggere ancora, a conoscere ancora: mi sembra questo un punto interessante.

Logo50_t

V.M.: Il libro come organizzazione (del contenuto) più che come supporto; il vuoto che creano i libri, le pagine che dobbiamo leggere ancora, come straordinaria opportunità: penso anch’io che sono due ottime ragioni per immaginare un futuro pieno di colori belli alla voce libro.
Le ultime due domande le ho pensate per scavare intorno alla tua relazione con la scrittura e la libreria. Partiamo dalla prima, il rapporto tra i libri e il mestiere di scrivere. Nel tuo caso, come è cambiato, se è cambiato, il tuo rapporto con la lettura e con il libro dopo che hai scritto Parole Forgiate? Nel tuo caso ma anche in senso più generale. Per ispirarti, ti propongo questo pensiero di Italo Calvino:
Il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne.

G. J. R.: Se avessi la possibilità di rispondere a Calvino, in una ipotetica conversazione, mi piacerebbe dirgli che il primo libro non sei tu a scriverlo ma è lui a scrivere te, almeno in un certo senso. In realtà sono state proprio le parole di Calvino che mi hanno fatto pensare a questa cosa.
Parole Forgiate è stato in un certo senso un libro che mi ha scritto, che mi ha iscritto, nella categoria degli autori, grazie anche alla tua partecipazione, alla modalità con cui lo abbiamo scritto e al tuo lavoro di iniziazione, di apertura, in questo senso. Ho avuto così modo di conoscere una forma per me primordiale di scrittura basato su una conversazione, cosa che nel mio caso ha reso più agevole il lavoro, e lo ha reso anche meno solitario.
Noi oggi coltiviamo molto la cooperazione nella scrittura, penso agli esercizi di scrittura collettivi, e però scrivere è un atto, un gesto, straordinariamente solitario. Nel suo essere così solitario, nel momento in cui hai la possibilità di scrivere con altri, ritrovi un balsamo, un gusto, un profumo nell’aria che rende diverso quel gesto. Direi che questo è un aspetto che caratterizza non solo lo scrivere con le parole ma anche lo scrivere con le immagini, gesto al quale personalmente sono più allenato nonostante oggi io mi diverta molto a scrivere con le parole.
Sono entrambe scritture solitarie, gesti nei quali mi sono ritrovato da solo, tranne le due esperienze di Parole Forgiate e Alphabeta.
Sicuramente scrivere un libro non vuol dire essere uno scrittore così come fare un film non vuol dire essere un regista. Per una serie di motivi a me la scrittura è arrivata dalla relazione, in questo caso dalla relazione con te, ma è arrivata anche attraverso la scrittura per immagini. Di me stesso dico da sempre che ho iniziato a fare video perché non sapevo scrivere, non sapevo utilizzare le parole come mi sembrava necessario, non ero consapevole del gesto dello scrivere. Da un certo punto di vista ho trovato nella scrittura video un escamotage, una scorciatoia però a un certo punto, qualche anno fa, mi dissi: smetterò di scrivere con le immagini quando riuscirò a raccontare un albero che cresce. Questa cosa penso di non avertela mai detto, la svelo adesso.
Con le immagini la vita di un uomo non basta a raccontare un albero secolare che cresce. Con le parole si può fare. In realtà ci si può riuscire anche con il disegno, dunque con l’immagine grafica, ma io pensavo alla ripresa della realtà, alla registrazione attraverso una macchina da presa che riprende la realtà io non potrei riuscire a raccontare un albero che cresce. Ma con le parole, o con il disegno, sì.
In pratica la sfida che feci a me stesso potrebbe essere esorcizzata, o comunque compiuta, nel momento in cui riuscirò a farlo con le parole.
Vengo più direttamente alla domanda: dopo che ho scritto il mio rapporto con i libri è cambiato in una forma più utilitaristica, più funzionale. È cambiato perché nella logica della materia prima i libri che leggo sono più funzionali a una capacità di scrittura che migliora e che si fa più matura. Leggo con maggiore appetito, con un appetito diverso, leggo rubando tutto quello che posso da quello che hanno scritto gli scritto gli autori dei libri.

Logo50_t

V.M.: Siamo arrivati all’ultima domanda, prima però ti voglio dire che quando hai parlato della solitudine dello scrittore mi hai fatto venire in mente un pensiero di Marcel Proust sulla solitudine del lettore, l’avevo selezionata e però poi l’ho dovuta scartare, tutto non si può fare. Adesso però te la leggo, una citazione senza domanda ci può stare:
“Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto. Tutto ciò che li riempiva agli occhi degli altri e che noi evitavamo come un ostacolo volgare a un piacere divino: il gioco che un amico veniva a proporci proprio nel punto più interessante, l’ape fastidiosa o il raggio di sole che ci costringevano ad alzare gli occhi dalla pagina o a cambiare posto, la merenda che ci avevano fatto portar dietro e che lasciavamo sul banco lì accanto senza toccarla, mentre il sole sopra di noi diminuiva di intensità nel cielo blu, la cena per la quale si era dovuti rientrare e durante la quale non abbiamo pensato ad altro che a quando saremmo tornati di sopra a finire il capitolo interrotto.”

G. J. R.: È molto bella!

V.M.: Già, però adesso torniamo a noi, alla domanda sul rapporto tra te, i libri e la libreria. Insomma: che cos’è per te una libreria? Per ispirarti un pensiero di Matthew Tobin Anderson che secondo me è fulminante:
Una libreria è una chiave inglese regolabile per aprire la testa.
Come puoi immaginare quando l’ho letto la mia di testa è andata subito a Faussone e a La chiave a stella di Primo Levi, ma mi fermo qui e lascio la parola a te, altrimenti mi metto a piangere per la commozione.

G. J. R.: Che cos’è una libreria per me. Una libreria è come costruirsi una casa. Tu nasci in una casa, quella dei tuoi genitori, poi a un certo punto devi mettere su la tua casa, un’altra dimora, un altro centro, un’altra Bet, come abbiamo visto scrivendo Alphabeta.
La libreria intesa come spazio fisico da allestire in un luogo è anch’essa una dimora.
In realtà libreria è una parola che ha diverse sfumature semantiche. Libreria è l’organizzazione degli scaffali per stoccare, per tenere organizzati i volumi che la compongono. Ma libreria è anche quella dei suoni, delle immagini, dei film, dei dati. Libreria è l’organizzazione di elaborati che trasmettono conoscenza in diversi linguaggi e con diverse forme, per esempio anche come scaffalatura digitale. Non a caso oggi la parola libreria viene utilizzata molto nell’informatica. La libreria degli informatici ha forme e contiene cose che sono estremamente diverse da quelle che ci sono qui.
Tutto questo per dire – sempre nella logica dell’ecologia della parola, del bisogno di collocare la parola nell’ambito del suo ecosistema semantico – che il termine libreria è stata una delle prime cose con le quali ho dovuto fare i conti quando ho aperto la libreria qui in bottega.
La libreria è naturalmente, nel nostro caso prima di tutto, lo spazio di proposta e di vendita dei libri, cosa che la rende come sappiamo diversa dalla biblioteca che invece è uno spazio di conservazione e di consultazione dei libri.
In questa senso la parola giusta è quella che usano gli inglesi, bookshop, è la parola più appropriata, più diretta, per definire uno spazio per la vendita dei libri. In italiano invece c’è una sovrapposizione semantica che rende sicuramente più ricco il concetto di libreria però poi ha bisogno di essere specificato. La libreria come spazio di vendita, come spaccio, che è una parola, un concetto che mi piace molto nonostante la sua narrazione negativa in questo nostro tempo. In realtà spaccio è una parola molto più nobile, spacciare un qualcosa vuol dire renderla accessibile agli altri, dipanarla nelle sue molteplici direzioni affinché gli altri ne possano trarre beneficio.
La libreria, questo spazio all’interno della bottega è nato dall’esigenza di dare una vocazione sua al Lato Alpha, quello che affaccia su via Caporra. E così tra febbraio e marzo di quest’anno è nata questa idea di strutturare un negozio per la vendita di libri in Jepis Bottega partendo dal Crea Racconta Ricrea e dunque dalla creatività, dalla narrazione e dall’innovazione.
Qual è dunque la mia idea di libreria e quindi di aspirante libraio: in primo luogo quella di selezionare i libri seguendo una regola, una regola in senso filosofico di uno spazio che ha un proprio filo conduttore, nel mio caso il crea racconta ricrea di cui ho appena parlato. Insieme a questo filtro, o per meglio dire insieme a questa prospettiva, a questo tema, ci deve essere un’organizzazione che abilita il dialogo tra le persone che frequentano l’ambiente libreria e la libreria stessa, con in mezzo il libraio.
In questa prospettiva il librario è colui che facilita l’approvvigionamento dei libri da parte delle persone e delle comunità che frequentano la libreria. Mi viene da dire che il libraio è un oste, perché non si limita a proporre i libri e a tirarli giù dagli scaffali ma li condisce, li farcisce, con i suoi pensieri, con le sue impressioni, le sue considerazioni rispetto al libro, all’autore e alla persona che lo sta comprando, o anche solo si sta informando, ci sta pensando su.
La libreria che piace a me non è un self service, io come aspirante libraio sento il bisogno di dare un senso al mio lavoro e dunque di intervenire nella relazione che le persone che entrano hanno con i libri presenti sugli scaffali. Naturalmente lo faccio con discrezione, solo se la persona con la quale sto interagendo ne ha piacere, ma questo lavoro per me ha più senso se riesco a intervenire nel processo, se riesco a contribuire alla scelta del lettore.
Per me il libraio è uno che unisce i puntini tra il lettore e il libro. Secondo me tutto questo è un po’ anche un modo per rendere giustizia all’autore nel momento in cui ha lasciato il libro per sempre e lo ha lasciato solo nel mondo. È un po’ come prendere in cura quel libro e provare a inserirlo in una nuova dimora. La libreria mi piace pensarla anche un poco come un porto nel quale i libri arrivano, transitano, si fermano per qualche tempo, si spera non tanto, e poi trovano la loro dimora. La libreria costruita per la vendita è una specie di dimora di passaggio, una libreria di transito che però ha la funzione di favorire la creazione di tante librerie dimore all’interno di una o più comunità.
Personalmente interagisco con i libri anche in un modo fisico, ho un rapporto fisico con loro, la mia è una ricerca di fisicità che in parte nasce dal tanto tempo che passo ogni giorno nei mondi dell’immateriale, del digitale, dei bit. È una fisicità che mi godo appieno, anche nei suoi limiti, per esempio quando è finito un libro è finito, mentre nel digitale si può essere più bambini e più capricciosi.
Un’altra cosa interessante è che in questa libreria entrano persone di tutte le età che non sarebbero entrate in questa bottega se non ci fossero stati i libri. La relazione di questa libreria con la mia comunità è essa stessa un valore, è una parte della sua mission, delle sue vocazioni. Una libreria di prossimità come questa, che non ha una versione online, che esiste solo in questo tempo e in questo spazio vive delle relazioni con la comunità.
Cosa posso aggiungere ancora?
Che mi definisco aspirante libraio e non apprendista perché non ho un maestro libraio a cui mi ispiro o, ancor di più, che mi guida, dunque aspiro a percorrere una via che spero, da grande, mi porterà a essere un libraio, è in questo senso letterale che sono aspirante, persona che aspira a.
Che in questo percorso sono aiutato dal fatto che sono un produttore, un autore, un creativo, e dunque guardo al concetto di libreria con la consapevolezza che i libri sono una parte delle opere, dei racconti, dei volumi che si potranno trovare in questo luogo in futuro.
Che la libreria è anche un mondo per far venire il mondo qui, è un pezzo del mio piede nel mondo la libreria, è un esercizio di piede nel mondo che completa il piede che tengo qui e la testa che ho in rete. Lo dico per chi ci legge, che tu lo sai a memoria, ma il riferimento è al mio claim originario, quello della prima scarpa Scritte, “un piede nella mia terra, un piede nel mondo e la testa nella rete.
E che mentre nel lavoro di produzione digitale, sono abituato come tutti, a fare i conti con la remunerazione del progetto, la remunerazione delle ore lavorate, anche rispetto a cifre importanti, almeno per me, la libreria mi sta insegnando a gestire meglio il piccolo, cioè a gestire meglio i piccolissimi numeri, il singolo euro, finanche i centesimi, che è una cosa che non mi apparteneva, perché nella produzione video, nella consulenza, nella formazione non si bada al singolo euro, tanto meno ai centesimi, i libri al contrario mi ricordano continuamente di guardare innanzitutto al poco, al piccolo, al dettaglio, se voglio che la mia libreria sia sostenibile anche economicamente. Ecco, direi che questo è sicuramente un fatto nuovo che devo alla libreria per quanto riguarda il mio percorso.
Chiudo con una riflessione sulla relazione sistemica che esiste tra la libreria e Scritte. La libreria come sai non nasce come primo atto ma si inserisce all’interno di un mosaico, di un puzzle più ampio che è fatto della produzione audiovisiva, dalla produzione dei manufatti narrativi e da tanto altro. In questo contesto i libri vengono venduti, spacciati nella mia bottega perché esistono, esistevano già, Scritte, la produzione audiovisiva e tutto il resto.
Più nello specifico la relazione con Scritte è una relazione fatta di parole. Scritte è un progetto di parole incise sulla pelle, prima dei libri guarda casa c’erano i rotoli di pelle su cui si scriveva. E la relazione con i libri è una relazione autentica, fatta di storie raccontate di persone, di famiglie, di imprese, di organizzazioni insomma. Direi che è un mix di possibilità che si alimenta continuamente, per osmosi.