Caro Diario, Alessandra Martino frequenta, come Nicola Chiacchio, Valeria Boccara e un’altra trentina di intepide/i, Bottega O. Come sai anche studiare è un lavoro che va fatto bene come gli altri, e così come l’ebanista fa bene il mobile e il meccanico aggiusta bene il motore, Alessandra ha fatto bene il lavoro che le abbiamo chiesto di fare fin qui, raccontare se stessa e due libri, Il mestiere di scrivere e Il lavoro ben fatto.
Sull’esigenza che gli studenti siano studenti e non cacciatori di crediti bisognerà tornarci, anche sulla base dell’esperienza di quest’anno in Bottega O, ma adesso è il momento di lasciare la parola alla nostra Alessandra, buona lettura.
Dopotutto si torna sempre dove si è stati bene.
Cara Aula O, cari amici di avventura, quanto mi siete mancati. In questi anni, ho imparato a rivolgermi a dei lettori, a cui nel tempo mi sono affezionata e li ho sentiti sempre più miei. Non è un caso, che ogni mio articolo inizia sempre così “Miei cari lettori”; anche oggi ho voluto iniziare in questo modo, in un certo qual modo. Vi ho lasciato che ero meno bionda, con un naso che mi creava molte insicurezze e a tratti mi faceva sentire tanto fragile, o semplicemente, come amo definirmi io, ancora un po’ “Alice nel paese delle meraviglie”.
Aula O, distanza di due anni, ti ho ritrovata piena di nuovi amici di avventura con cui condividere un pezzo della mia vita. Miei cari, quella piccola Alice ha lasciato spazio a delle nuove vesti, le vesti di Super Zia Ale, si miei cari amici di avventura, sono una zia di un bimbo “pazzo assai” ma anche tanto meraviglioso. Un giorno, anzi ogni giorno mi ritrovo a ringraziarlo. Perché seppur sembrerà strano è lui ogni giorno a insegnarmi qualcosa. Mi ha trasformata.
Ho imparato grazie a lui l’arte dello scoprire e del meravigliarsi davanti alle cose semplici, ho scoperto di avere un lato dolce e tenero. Ho imparato che si può sorridere anche se spesso un reale motivo non c’è. Che non si può rifiutare un boccone di qualsiasi pietanza vera, finta, cotta, cruda, offerta da piccole mani, perché non può far ingrassare ma fa bene solo al cuore. Ho imparato cosa vuol dire amare incondizionatamente, ed essere amata di conseguenza ogni giorno, senza filtri. Per tutte le volte che si addormenta sulla mia spalla e io rimango immobile per non svegliarlo. E mi chiedo il cuore come faccia a stare così comodo.
Quando sono entrata la prima volta nella nostra accogliente Aula O, quell’anno fu trasferita in Aula M, ma che noi decidemmo di chiamare comunque Aula O, come marchio distintivo e come diceva il Professor Moretti “Aula O l’anno scorso ha portato bene”. Ero una ragazza con un sogno grande e tanti obiettivi da portare a termine.
Sognavo e sogno ancora oggi di diventare una giornalista, (nonostante il vento non sia quello tra i più favorevoli), ma non una di quelle che raccontano delle notizie senza un tratto distintivo, ma una che nel tempo possa lasciare il segno. Non è un caso che una delle mie parole preferite sia “ubiquità”. Vorrei diventare talmente brava da poter essere contemporaneamente in più posti e lasciare un segno a ogni persona che ha la possibilità di conoscermi, che sia di persona, che sia un articolo di giornale o un servizio televisivo.
Se avessi la possibilità di rincontrare quella ragazza di due anni fa l’abbraccerei forte e le direi guardati, saresti davvero fiera di te stessa, so di non aver deluso le tue aspettative, probabilmente le ho anche superate. Si può essere tante cose nella vita, io stessa sono stata molte cose. Sono stata appoggio per chi era stanco. Forza per chi si sentiva fragile. Sorrisi per coloro che si stavano perdendo nelle lacrime. Gioia per chi non riusciva più a trovare serenità. Amore per chi mi ha regalato dolci emozioni. Sono stata la verità scomoda per qualcuno, la bugia più bella per qualcun altro. La storia più assurda per chi nemmeno mi conosceva e la storia più grande per chi si è mischiato profondamente alla mia anima. Oggi sono “intoccabile”, irraggiungibile per la maggior parte della gente, un libro aperto per chi lo vuole veramente, amore per chi mi rispetta e indifferenza per chi mi calpesta. Oggi per raggiungermi, per scavalcare le mie diffidenze non basta un “per favore”, ma fatti, lealtà e valori. Oggi molto mi “sfiora” e poco, decisamente poco, mi “tocca”! È il dolore a insegnare la maggior parte delle cose importanti della vita, e io a mie spese ho imparato. Il tutto in un momento della mia vita, ma forse la vita un po’ di tutti, così incredibilmente strano, dovuto a tutto quello che è successo in questi mesi e pare voler non smettere e che inevitabilmente un giorno, ci troveremo a raccontare.
Aula O può darci quella speranza, quella fortuna che un po’ forse abbiamo perso. Ci troveremo a raccontare una storia iniziata col sole di un nuovo anno e il cuore pieno di speranza. Una storia che a un certo punto, come nei migliori film, si è incasinata fino a diventare surreale, e poi è tornata più bella e autentica di prima. La storia del ritorno all’essenziale.
Negli ultimi mesi tutto quello che conoscevamo come mondo e quotidianità è cambiato alla velocità della luce. Come un big bang al contrario. Un Universo che implode per tornare a farsi puntolino, un lombrico che si guarda l’ombelico. Fino a quando le brutte notizie arrivavano da lontano, centinaia di migliaia di km, l’orecchio e la mente sono rimasti in letargo. Poi l’ombra minacciosa di queste nubi ha cominciato a correre sempre più velocemente verso l’orticello di ciascuno di noi. E immancabilmente abbiamo trovato “rifugio” in quel posto che spesso sottovalutiamo, la nostra casa. Insieme ad essa ad aspettarci questa volta però c’era il tempo. Quanto tempo. Ti svegliavi con questa montagna di ore in tasca, sembrava pesantissima, poi si dissolveva in fretta. Due passi a destra, una brutta notizia di là, aprivi il frigo, chiudevi, lo riaprivi, così con i pensieri, i sogni del dopo e che rimandavi perché prematuri, meglio lasciarli sull’albero. Ad oggi, Zia Ale, seppur zoppicando, seppur trascinando qualche peso a destra e sinistra è riuscita, o meglio, ha capito, forse, qual è la strada giusta per raggiungere i propri sogni e di conseguenza raccogliere quei frutti maturi dall’albero. Perché in questi anni ho avuto la fortuna, seppur a mio discapito, di scoprire la differenza che c’è tra il vivere e il respirare. Quando negli anni papà mi raccontava di questo lavoro come il più assurdo, senza orari, senza ferie, pensavo esagerasse. Ad oggi, posso dire che niente era un’esagerazione e soprattutto nessuna menzogna. Ma posso dire a mio discapito che nonostante le maratone, nonostante i sacrifici e le rinunce perché inevitabilmente ti ritrovi a dover scegliere, la sera quando torno a casa sono felice.
Nella mia vita, non ho mai creduto di essere bella, ma a volte mi piaccio. Magari per un solo giorno, un’ora o dieci minuti, mi piaccio davvero. Forse è quella luce, o il vento, o il mare, o semplicemente è il fatto di sentire che sono al posto giusto, al momento giusto. Succede raramente, ma quando accade, mi brillano gli occhi come le stelle, e tutto pare possibile. I nuovi inizi fanno sempre un po’ paura. Non hanno un prima, non avranno un dopo, sarà tutto da vedere. Magari non cambia niente. Magari cambia tutto. In meglio. Potrai imbatterti per pura fatalità nella passione, nell’amore della tua vita. Dovrai essere brava a riconoscerla. Voi la conoscete per caso quella sensazione di scaramanzia mista alla paura? Non so come si chiama.
Quella che fa trattenere il respiro quando si è nascosti, giocando a nascondino.
Quella che fa chiudere gli occhi quando si bacia per la prima volta e non sai proprio come sarà. Quella che ti fa chiudere le spalle e strizzare la faccia quando aspetti il botto del tappo dello champagne che si apre.
Quella che ferma la lancetta dei secondi dell’orologio quando sei quasi al traguardo.
Qui è tutto fermo.
Sono 2 anni e io ho paura a scrivere, e persino a pensarlo; quello che penso.
O forse che spero.
Così non dico niente. Guardo soltanto.
E mi meraviglio.
Siamo esseri fatti di parole, che ci attraversano costantemente.
Houston abbiamo un problema! A cinquant’anni dallo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11, la tecnica e la cultura hanno fatto passi da gigante eppure, nel secolo di WhatsApp, dei post e dei tweet scriviamo di più, ma scriviamo peggio. Predicati verbali casuali, punteggiatura zoppicante, composizione delle frasi randomica e il sequestro di persona dei soggetti, sono solo alcuni dei “refusi” che costellano la messaggistica istantanea 2.0.
Miei cari lettori alla somma di tutto questo mi risuonano delle parole che ho letto l’altra notte quando ho preso uno degli ultimi libri che mi è stato consigliato dai Professori di Aula O: “Se non si riesce, dico io, a rendere quel che si scrive al meglio delle nostre possibilità, allora che si scrive a fare? Alla fin fine, la soddisfazione di aver fatto del nostro meglio e la prova del nostro sforzo sono le uniche cose che ci possiamo portare appresso nella tomba.”
Credo di essere rimasta a bocca aperta per diversi minuti, le parole scritte da quell’uomo dal viso mite e comune, quell’americano dal nome facile e musicale, Raymond Carver, lo scrittore americano nato a Clatskanie, nell’Oregon, nel 1938 e cresciuto a Yakima nello stato di Washington, mi aveva arricchito. Con poche parole, semplici e dirette aveva cambiato la mia visione delle cose.
Miei cari lettori, sono abituata nell’ultimo periodo a dedicarmi alla enogastronomia, diventata mia grande passione, penso che ormai si sia capito. Vi ho parlato di ogni prelibatezza, dal panettone alla pizza di pasta, ai pomodori secchi e chi più ne ha più ne metta. Oggi, però, vorrei raccontarvi di questo libro, “Il mestiere di scrivere” che a vederlo da lontano può sembrare noioso e troppo difficile ma vi do la mia parola che non è così, vi dà la possibilità di guardare le cose in un’ottica diversa.
Il libro non è proprio di Carver, perché non è un manuale o una biografia scritta dall’autore, ma un testo che raccoglie una collezione di saggi e prefazioni scritte dalla penna dallo scrittore minimalista, con annessa anche una trascrizione di una lezione e una raccolta di esercizi di scrittura creativa che si basano sulla sua opera.
Dunque, “Si prendano quattro schede sei-per-dodici, che poi saranno attaccate alla parete. Sulla prima si scriva: «Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura» (Ezra Pound).
Sulla seconda: «… e all’improvviso tutto gli fu chiaro» (Anton Čechov). Sulla terza: «Niente trucchi da quattro soldi» (Geoffrey Wolff).
E, infine, sull’ultima: «Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto.» (Isaak Babel)”
Con questi quattro principi fondamentali l’autore svela il modo giusto per scrivere un buon racconto. Non a caso, Carver è uno dei pochi scrittori che non ha mai pubblicato un romanzo: solo racconti o poesie, che poi erano sempre racconti (lui stesso le chiamava Poesie in forma di racconto). Amava dire che un buon racconto vale almeno una dozzina di romanzi scadenti, e forse aveva ragione.
La brevità del racconto presuppone uno stile chiaro e non autocelebrativo, che non si lasci andare a futili esercizi di stile ma che vede l’autore completamente a servizio del significato, da esprimere nella maniera più limpida e trasparente possibile. Ma perché scegliere la forma del racconto, in un’epoca in cui risulta più difficile trovare un editore disposto a pubblicarli? «Per scrivere un romanzo, mi sembrava, uno scrittore dovrebbe vivere in un mondo dotato di senso, un mondo in cui poter credere, da poter mettere a fuoco per bene e su cui poi poter scrivere accuratamente. Un mondo che, almeno per un certo tempo, rimanga fisso in un posto. Inoltre, dovrebbe esserci una specie di fiducia nella correttezza di quel mondo. Fiducia nel fatto che il mondo conosciuto abbia una ragion d’essere, e che valga la pena di scriverne, che non vada tutto in fumo mentre lo fai.»
Il mondo conosciuto dal giovane Carver non risponde a questi requisiti ed egli deve piegare la propria passione – o meglio, la propria natura – alla necessità della vita. Lui non corrisponde all’ideale dello scrittore che vive nell’ozio in funzione della propria arte: già sposato e con due figli, non può permettersi di dedicare tanto tempo alla scrittura; addirittura, quando non ha nemmeno quello per il racconto, indirizza la propria attività sulla poesia, nonostante la predisposizione per la forma narrativa. Carver deve far sottostare il tempo della scrittura a quello necessariamente occupato da lavori umili e poco qualificati e da studi universitari che costituiscono un’unica eccezione nella sua famiglia, anche questi un lusso.
Nella sua vita Carver svolse i lavori più disparati, tra questi fu un insegnante superbo. Amava dire: “Non si può insegnare a scrivere. Però si può imparare a farlo”, e in questo sottile pensiero c’è tutta la grandezza del maestro. Carver aveva un enorme rispetto per l’allievo. Non a caso, non stroncò mai i suoi allievi. Pensava che il danno prodotto da un errore di valutazione potesse essere molto più grave di un incoraggiamento imprudente, e questo atteggiamento, così empatico verso l’allievo, lo porterà a formare scrittori di livello assoluto. Anche se, all’epoca, l’idea che un giorno si sarebbe trovato dall’altro lato della cattedra – o che fosse necessario frequentare una scuola di scrittura creativa – non gli sarebbe nemmeno passata per la testa. La scrittura non è altro che una distrazione dalla «normalità», ma non può ancora considerarsi una professione.
Ma come si modifica la narrativa di fronte alla presa di coscienza che carmina non dant panem?
«Era proprio la cosa che volevo fare con i miei racconti: mettere in fila le parole giuste, le immagini precise, ma anche la punteggiatura esatta e appropriata per far sì che il lettore fosse attratto e coinvolto all’interno del racconto fino a essere incapace di distogliere lo sguardo dal testo, a meno che non gli andasse a fuoco la casa attorno. Chiedere alle parole di assumere la forza delle azioni magari è un desiderio vano, ma è chiaramente un desiderio proprio di uno scrittore alle prime armi.»
La prosa di Carver sceglie la via del realismo – o del minimalismo per chi sentisse la necessità di incanalarla in un genere – e di attingere all’azione quotidiana per far sì che la lettura assuma la funzione di esperienza nella vita del lettore, che sappia anche essere utile. E allora lo scrittore è colui che vede quello che gli altri non hanno visto, o – meglio – lo vede con più precisione e che, con profondo rispetto per il lettore, decide di trasmetterlo attraverso la chiarezza, l’esattezza e l’onestà.
A chi pensa, però, di trovarsi di fronte a un manuale di scrittura un monito: qui non troverete consigli di un grande autore del ‘900, né tecniche incredibili per imparare a produrre bestseller, né «trucchi da quattro soldi». Il volume è un compendio che ha come scopo raccontare la vita e le esperienze da scrittore e insegnante di uno dei grandi scrittori statunitensi del secolo scorso, forse per ispirare i Carver del futuro con la sua storia, forse per far conoscere meglio l’uomo dietro quelle secche storie brevi, forse per raccogliere una sfilza di testimonianze su uno dei produttori di short story più celebri.
“Secondo me la trama, una linea narrativa, è molto importante. Sia che scriva poesia oppure prosa, cerco sempre di raccontare una storia.”
Ci tengo a sottolineare la semplicità e l’originalità dell’autore. Il modo in cui scrive non dà impressione di leggere un racconto strutturato, calcolato, pensato. Sembra un racconto fatto da stralci di appunti. L’appunto si prende e si scrive così come viene. Un po’ come a scuola: mentre la professoressa spiega, l’alunno prende appunti ma li sistemerà solo in un secondo momento. Anche quando questi appunti verranno sistemati, con colori e con ordine, l’alunno continuerà a ricordarsi l’argomento solo grazie a quello che ha scritto di getto. Sembra strano da dire, eppure è così. In questo libro la particolarità sta proprio nel fatto che nessun pezzo è calcolato: sembrano veri e propri appunti presi di getto.
Una ulteriore testimonianza del suo periodo da professore universitario è una trascrizione della registrazione di una sua lezione, in cui egli analizza, in una discussione in classe, alcuni dei racconti scritti dai suoi studenti.
Il volume si conclude con una appendice interamente dedicata a esercizi di scrittura creativa: in pratica cinquanta input che servono agli aspiranti scrittori ad allenarsi, prendendo spunto proprio dalla opera di Carver, ispirandosi a questa per alcune prove pratiche dei temi ricorrenti e delle sue tecniche narrative.
Ho trovato questa parte molto interessante, benché non abbia svolto gli esercizi, poiché, per ognuna delle istruzioni, ci sono i riferimenti delle short story o poesie dell’autore da prendere come esempio, da approfondire per sviluppare poi il proprio elaborato.
Penso che sia davvero ben fatta e organizzata, che dà a una persona interessata a fare pratica con degli spunti curiosi e stimolanti.
“Il mestiere di scrivere” dunque è un volume piacevole, dove Carver inconsapevolmente ci racconta la sua esperienza di vita tra produzione letteraria e insegnamento, un testo che dà molti spunti a un aspirante scrittore, ma che consiglio anche ai lettori per approfondire la figura di uno dei grandi scrittori moderni, che magari tra cinquant’anni probabilmente ricorderemo come un autore di opere considerate classici.
Miei cari lettori, rieccomi, dopo aver raccontato questo libro nel modo più oggettivo possibile, concedetemi qualche altra riga per le mie considerazioni personali. Pensateci, in fondo, lo scrittore è un equilibrista che passeggia su un filo sottile tirato tra un punto e un altro, o tra una virgola e un’altra se preferite. Il lavoro comporta molte riletture, che si accavallano nella testa come motte di fieno, andando a coprire i buchi e le imprecisioni, e rendendoci ciechi ai refusi.
Poco importa quanto l’abbiamo progettato, l’analisi di un occhio esterno è vitale alla scrittura, e non mi riferisco al così detto “lettore ideale” quanto piuttosto a qualcuno dotato di maggiore conoscenza ed esperienza.
Conoscenza dell’italiano, certo, ma anche delle tecniche di costruzione della trama e dei personaggi. Esperienza nel valutare col giusto distacco emotivo, e soprattutto con criticità oggettiva, quello che funziona o meno.
In questo momento un lettore starà visitando le nostre pagine social, il nostro sito internet o starà leggendo un racconto che abbiamo pubblicato su WordPress o che abbiamo iscritto a qualche concorso letterario. Ora proviamo a pensare, solo per un istante, a cosa succederebbe se ci trovasse una forma sgrammatica o una fallacia logica. Proseguirà nella lettura o storcerà il naso, condividendo il refuso con altri? La nostra voce può essere autorevole, ma dal lettore esigente verremo sempre associati a quell’errore.
Se vogliamo rispettare la promessa che il sogno narrativo non venga infranto, dobbiamo preoccuparci dei punti e delle virgole.
Non a caso Carver diceva: “Uno scrittore che ha una maniera particolare di guardare le cose e riesce a dare espressione artistica alla sua maniera di guardare le cose, è uno scrittore che durerà per un pezzo.”
E lui, pur avendo confezionato un lavoro “classico”, credetemi, ha lasciato il segno, con un’opera veramente pazzesca. In un periodo dove stiamo perdendo il valore delle parole e le parole possono diventare pietre, Carver può essere quel valore aggiunto. Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile. Quindi, istruitevi. Anche dopo la scuola, spingete il vostro evidenziatore oltre la formazione, continuate, cercate nel cuore un banco dover poter sedersi e imparare. Acculturatevi, leggete, siate divoratori di pagine, divoratori di storie degli altri. Sbranate l’esperienza di tutti, sottolineate gli uomini, i loro racconti, fate l’orecchietta sui capitoli più interessanti perché non avete idea di quanto ci tornerà utile la vostra intelligenza.
Il lavoro ben fatto, può cambiare il mondo.
Solo chi fa domande sui dettagli ha provato a sentire cosa sente il tuo cuore.
“Che si tratti di preparare un piatto di pasta e patate o per preparare una buona pasta con i polipetti bastano 20 minuti lo stesso tempo per farne una insipida: allora perché sprecare tempo ed ingredienti? La differenza, sta in come decidi di investire quei 20 minuti!”
Ogni qual volta che mi ritrovo a fare qualcosa, negli ultimi due anni, mi ritrovo a sentire questa vocina nella testa che mi ripete questa frase. Miei cari lettori, lo so, di primo acchito non capirete, ma a termine della lettura sono sicura di sì, vi do la mia parola leggete fino alla fine e non ve ne pentirete.
Oggi, vorrei raccontarvi una storia “bella assai”, la storia del “Lavoro Ben Fatto” c’è un dettaglio, non ve la racconterò io, ve la racconterà un uomo cresciuto a Secondigliano, grande e grosso che all’apparenza può sembrare un po’ burbero ma che in realtà ha un cuore grande verso il prossimo ed un grande amore verso il suo lavoro.
Lui è Vincenzo Moretti, un “sozologo”, come avrebbe detto suo papà Pasquale, muratore e operaio elettrico, che come racconta nel suo libro “Il lavoro ben fatto”, è stata sua fonte d’ispirazione da sempre, perché gli ha insegnato la cosa più importante, a fare la differenza.
“Nel futuro che vorrei il concetto di lavoro è assai più largo e abbraccia assai più mestieri che restano produttivi anche se non determinano plusvalore e profitto in senso classico e in questo futuro, vorrei che il nostro Paese ritrovasse carattere, senso e identità.”
Cari miei lettori non potevo non partire da questa citazione, che troviamo a pagina 17, e il numero 17, per chi mi conosce, sa che non è un caso. Pensateci, in un momento dove le nostre vite sembrano essere in bilico, dove ogni certezza è diventata incertezza, il “Lavoro ben fatto” può essere quello spiraglio di luce che può accompagnarci verso un futuro diverso, fatto di educazione, di creatività, di bellezza, e perché no che possa “abbracciare più mestieri che restano produttivi anche se non determinano plusvalore e profitto in sensi classico”.
In questo libro il professor Vincenzo Moretti e suo figlio Luca ripercorrono la storia di un’idea, di un progetto, di una serie d’iniziative e, potremmo dire, di una filosofia di vita: quella del lavoro ben fatto. Ma voi, miei cari, ora, vi chiederete, che cos’è il lavoro ben fatto?
“Il lavoro ben fatto è quando ci alziamo la mattina e facciamo bene quello che dobbiamo fare, qualunque cosa dobbiamo fare.
Come si fa? Ci si abitua. È come allacciare le scarpe o abbottonare la camicia, una volta che ci siamo abituati a farlo nel modo giusto non smettiamo più.
Perché farlo? Perché ha senso, è bello, è giusto e soprattutto conviene.
Chi lo può fare? Lo possono fare tutti, in qualunque contesto e a qualunque età.
Cosa accade quando ognuno fa bene quello che deve fare? Tutto funziona meglio.
Qualunque cosa tu debba fare, in qualunque condizione la debba fare, falla bene, perché in questa maniera che rispetti te stesso e gli altri, dai valore al tuo lavoro e a quello degli altri, eserciti i tuoi diritti e adempi ai tuoi doveri.” Perché come diceva il papà del prof Moretti, il signor Pasquale, “Chi fa bene il proprio lavoro, la sera, quando mette la testa sul cuscino, è contento.
“Il lavoro ben fatto può moltiplicare le possibilità. Può motivare, ispirare, dare senso e significato. Può produrre soddisfazione e senso di appartenenza. Può ridurre la distanza tra ciò che diciamo e ciò che facciamo. Può aiutarci a stabilire più relazioni di qualità e a vivere vite migliori.”
È la voce di un padre che racconta lo sforzo compiuto ogni giorno per dare dignità al proprio lavoro; può essere il racconto di un viaggio in un paese straniero che aiuta a comprendere altri punti di vista; possono essere i mille incontri di chi ha vissuto più vite, osservando la realtà come studente, come sociologo, come sindacalista e come esperto del mondo del lavoro; può essere, infine, l’abilità manuale di tutti quelli che sembrano creare qualcosa quasi dal nulla: racconto, parola, incontro, rispetto e condivisione, queste sono le parole che ci accompagnano nella lettura.
Non sono qualcosa di sconnesso ed indipendente. Anzi, sono visceralmente collegate e conseguenza dell’altra. E proprio per questo non dobbiamo dimenticare, come ricorda il prof . Moretti, che, per fare “un lavoro ben fatto” bisogna prendere la cassetta degli attrezzi personali, trovare il proprio posto nel mondo e differenziarsi.
Bisogna essere differenti, posizionarsi in modo differente, comunicare in modo differente, perché, “Noi siamo storie per noi stessi. Racconti”.
La frase è del fisico Carlo Rovelli e ci ricorda che “noi siamo lunghi romanzi della nostra vita”. Ciascuno di noi ha delle grandi capacità, delle grandi risorse, di cui forse non si è mai accorto. C’è bisogno di guardare nella profondità della nostra persona. Conoscerle queste risorse, per poi, investirle.
“Con le nostre storie custodiamo ricordi, condividiamo credenze, coltiviamo speranze, immaginiamo futuri, costruiamo comunità. È per questo che abbiamo sentito il bisogno di riunirci e di raccontarle intorno al fuoco fin dalla notte dei tempi. È per questo che continuiamo a sentirne il bisogno oggi, al tempo in cui ogni frammento di vita può essere tramandato, ogni momento di gioia o di paura condiviso, e lo stesso vale per un significato, per un ammonimento, per una possibilità.”
Una della qualità di questo testo, pur nella sua vocazione socio-economica, è la volontà a non aver paura delle emozioni e dei legami, perché l’idea del lavoro ben fatto non è solo una concezione del mondo della produzione e dell’evoluzione degli strumenti, è, prima di tutto, una visione della vita e dei legami umani, della relazione e delle opportunità, delle connessioni che, prima di essere virtuali, sono fatte di corpi, esempi, racconti e forme diverse d’amore per le persone e per le cose che si fanno.
“Renato aveva nei confronti della vita e del lavoro, sempre affrontati con amore e competenza, qualsiasi fosse la cosa che faceva. Renato è stato l’amore per il Giappone, la vita è effimera come la fioritura dei ciliegi, che come si sa è bellissima, ma dura al massimo una settimana… A Renato, che mi ha sempre incoraggiato a essere la versione migliore di me”, scirve Luca.
La storia di Renato e Luca ci ricorda una cosa, che ci sono cose che non si possono esprimere, perché l’amore ha un linguaggio tutto suo, perché l’amore è un mondo a sé. Renato ha lasciato un segno indelebile, perché quando un’amicizia è vera, quando c’è un bene sano ed autentico, resterà per sempre, in qualunque modo, in qualunque posto, in qualunque ora. Una cosa è certa, Renato ha insegnato tanto a Luca, e ad oggi, tanto anche a noi, ma una cosa l’ha dimenticata, non gli ha insegnato che si può vivere anche senza di lui.
Luca e Vincenzo Moretti partono entrambi dai ricordi e dagli incontri che nel corso della vita li hanno spinti a un rispetto assoluto per la qualità del ben fare e lavoro ben fatto e dunque fra le righe che conducono il lettore alla scoperta di mille personaggi e occasioni, si nasconde anche un legame sentimentale tra un padre e un figlio che s’incontrano ancora, mentre fanno ancora i conti con le proprie origini. Dentro è un posto che si resta per sempre e il signor Pasquale, è una di quelle perle, che vuoi o non vuoi impari ad amare e lo fai per sempre, Vincenzo racconta del suo grande amore per il suo papà e di quel rammarico che ancora sente dopo tutti questi nell’aver mancato una tradizione chiamando il figlio Luca e non Pasquale.
Per finire ecco tre parole che, secondo me, proprio non possono mancare nel vocabolario del futuro prossimo venturo.
La prima parola è pensare, credo che sia, dopo lavoro ben fatto, la più utilizzata in queste pagine. Nel futuro in cui la tecnologia è sinonimo di libertà e di tante altre belle cose, non possiamo rinunciare in nessuna circostanza e per nessuna ragione a pensare. È nell’oggi assai utile perché tiene insieme l’analisi delle grandi novità organizzative che possono riguardare tutti i campi del lavoro con la costante consapevolezza della cura e del rispetto per ogni singolo atto e persona. “La seconda parola è limite, e la terza non meno importante è amore, l’amore per noi stessi, per gli altri, l’amore per quello che siamo e per quello che facciamo.”
Il professore, ha conosciuto e tramandato quell’amore vero e autentico che ha conosciuto grazie ai suoi genitori.
“Papà e mamma sapevano dare senso alla parola famiglia… Indossavamo i cappottini dei cugini più grandi con il risvolto e pantaloni con le toppe, e non perché erano di moda. Ci dicevano: “Basta che sono puliti”. Papà aveva però l’ossessione per lo studio: ero obbligato ad andare bene a scuola. Io, primogenito: ho dovuto imparare presto la responsabilità, l’impegno, l’onestà, il valore delle cose fatte bene. Le vite di periferia non sono mai facili, il rischio di prendere strade sbagliate è sempre dietro l’angolo: avere ancoraggi solidi è fondamentale.”
Sapete miei cari lettori, vi confesso una cosa, leggendo del signor Pasquale, ho avuto la possibilità di rivedere, su alcuni aspetti, delle somiglianze con il mio papà, o come amo chiamarlo io per prenderlo in giro “Nonno Raffy”. Anche lui a tratti è insopportabile ma è grazie a lui se oggi sono qui a potervi scrivere e a essere quella che sono. Nel bene e nel male. Col suo sacrificio, con il suo lavoro, con la sua presenza anche nell’assenza, con il suo amore mi ha regalato la possibilità di scegliere sempre, di non essere schiava di niente e nessuno, mi ha regalato il bene più prezioso nella vita: la libertà. E per questo sarò sempre grata. Io non posso fare altro che, ogni giorno, cercare di essere sempre un po’più simile a lui per dimostragli il mio amore.
Ci sono dei legami, che restano attaccati all’anima, che sfidano le distanze, il tempo, la logica. Sono quelle persone con cui potete stare insieme, anche da lontano e le persone con cui potete stare insieme anche senza parlare, anche senza dire niente, se non avete niente da dire o se non avete voglia di parlare. Questo libro, miei cari lettori, non mi resta che consigliarvelo, perché vi darà quella conferma, quella carica di cui ognuno ha bisogno per migliorarsi e fare bene. Per me è stata una riconferma, perché due anni fa, quando ho conosciuto il professor Moretti ho preso la cassetta degli attrezzi l’ho abbellita con lustrini e brillantini, l’ho fatta mia e ogni giorno con impegno e dedizione cerco di inserire qualcosa di nuovo.
Cari miei lettori, vi lascio con tre miei articoli a cui sono particolarmente affezionata, non voglio sembrarvi esagerata, ne volevo sciegliere solo uno, ma non riesco a decidermi perciò scegliete voi, basta che poi mi fate sapere cosa ne pensate.
L’amore è come la quarantena, finchè non lo è
Date una medaglia, please, a chi ha inventato la gloria delle ricette del Sud. La Signora Frittata di Pasta
Gli stendibiancheria unici a reggere il cambiamento e “la finestra di fronte” ne è la prova