Caro Diario, adesso che abbiamo la classificazione viene tutto più facile, questo di Alessia è un racconto autodafè.
Prima di lasciare la parola a lei, ti dico solo che, come quella di Giannantonio, anche la sua storia può essere considerata uno spin-off della notte del lavoro narrato 2020, una notte magica, la più narrata di sempre. Ecco, per ora direi che basta questo, ne arriveranno altre di storie figlie di questo bellissimo esempio di narrazione partecipata con al centro il lavoro fatto con le mani, con la testa e ccon il cuore, arriveranno dall’Umbria, dalla Penisola Sorrentina e da tanti altri posti d’Italia, ma adesso è tempo di lasciare la parola ad Alessia. Buona lettura amico mio.
“Caro Vincenzo, vivo da quando sono nata sullo Scalandrone, la strada provinciale che separa il comune di Pozzuoli dal comune di Bacoli. Vivo nella terra dei miti e delle leggende, vivo nei Campi Flegrei.
Sono la figlia di uno dei primi imprenditori di questo territorio: Tommaso Babbo, agricoltore e produttore di vini da tre generazioni, ristoratore dal 1987 e fondatore, nel 1996, dell’azienda vitivinicola Cantine Babbo.
Il grande impegno che mio padre ha sempre messo nelle sue attività, lo teneva spesso occupato e l’amore viscerale che mi ha sempre legato a lui – chi ci conosce lo sa! – mi ha portato sin da piccola a seguirlo nel lavoro, pur di stargli vicino. È così che ho avuto la fortuna di crescere tra gli odori dell’uva appena pigiata, dei mosti in fermentazione, del vino appena prodotto e appena affinato. Odori che durante l’anno invadevano la cantina e che furono per me di grande stimolo per i primi sorsi. Per non parlare del ristorante e degli odori della cucina: ero curiosa, ancora una volta era il naso a portarmi lì, e insomma gli odori e la curiosità mi spingevano a provare ogni pietanza che attirasse la mia attenzione.
Vincenzo, la mia infanzia è stata paffutella e felice, provavo un immenso piacere nel gustare il cibo, non ho mai avuto vizi e sono sempre stata curiosa di provare nuove cose e abbinamenti strani, stimolata anche dal fatto che di solito papà quando andava al mercato mi portava con sé.
Vuoi sapere il mio sogno da piccola? Diventare assaggiatrice! Il piacere che mi recava il cibo non aveva eguali, mi piaceva tanto, troppo, assaporare.
Diventata adolescente, papà mi ha messo subito all’opera, mosso forse anche dalla paura che potessi allontanarmi dal suo ideale di “fatica”, ed è stato così che, appena undicenne, ho incominciato come guardarobiera durante uno dei cenoni di Capodanno a Villa Gitana. Secondo me ha funzionato anche perché tutto è iniziato per gioco, sta di fatto che l’esperienza che avevo fatto mi piacque troppo per abbandonarla.
In estate, durante quegli interminabili matrimoni, papà ebbe la brillante idea di trovare un ruolo non solo per noi figlie, ma anche per i nipoti: comprò dei vestiti da gitani e cominciammo ad affiancare i camerieri durante il servizio per allietare la scena. Confesso che all’inizio era abbastanza imbarazzante, ma ai commensali piaceva molto e alla fine del buffet gli sposi chiedevano spesso la foto con noi gitani, riuscendo a farci sentire – eravamo bambini – delle star. Sono sensazioni che solo a quell’età puoi provare.
Gli anni passano e viene il tempo del passaggio in sala. Divenni hostess di sala che avevo quindici anni, ancora oggi ho sapori e odori ben impressi nella mente: l’odore dei bicchieri a fine servizio sporchi di vino e di liquori, l’alcool dei distillati, l’aroma del caffè, la mano arrossata per le stappature di bottiglie di vino, il dolore ai piedi a fine servizio e quei piatti troppo pesanti per me.
La cosa che mi piaceva fare di più? Raccontare i Campi Flegrei. Mi inorgogliva descriverli a chi non era del posto, adoravo dare cenni storici, parlare del “super” vulcano, degli sbuffi di zolfo che caratterizzano il mio territorio, raccontare della Solfatara, dei laghi circostanti, del Tempio di Apollo, della Casina Vanvitelliana, degli sbarchi dei Greci, delle storiche viti di famiglia. Ecco, ero felice di far capire che ogni luogo dei Campi Flegrei ha una storia da raccontare.
Dopo la gavetta delle cerimonie effettuo il mio primo servizio in sala, non solo come hostess ma come cameriera. Adoravo la spicciolata, coccolare i clienti e, come ti ho detto, raccontare loro dei Campi Flegrei.
Uno snodo importante della mia vita lavorativa avvenne un po’ per caso, ricordo che era Domenica, il ristorante era pieno e la cucina col personale dimezzato. Non ci pensai due volte: indossai la giubba di cuoco. Era una occasione imperdibile per me che non avevo mai avuto una visione unilaterale del lavoro. Da quella domenica in poi non ho più abbandonato la cucina. Ricordo che mi piaceva, per me era come stare nel mondo dei balocchi, il cibo fu ancora una volta protagonista, fino a condizionare anche la scelta dei miei studi universitari: mi iscrissi al corso di laurea triennale in tecnologie alimentari.
Vincenzo, ho sempre abbinato lo studio al lavoro al ristorante, ma durante la laurea triennale vengo attratta dai processi di trasformazione delle materie prime, in particolare dalla trasformazione dell’uva in vino. Inizio così ad interessarmi della cantina, mi piace sempre più, questo grazie anche all’enologo Vincenzo Mercurio, che allora era il nostro consulente aziendale.
Il lavoro di Vincenzo Mercurio riesce ad incrementare il mio “trasporto” nel mondo del vino, e grazie a lui, nel 2010, riesco ad ottenere uno stage presso Fattoria La Rivolta, azienda cardine del Beneventano. Ormai il vino mi aveva rapito, non solo per il prodotto in sé, ma anche per le sue peculiarità e complessità organolettiche, per i piaceri che può regalare sentirsi artefici di un prodotto così unico e personale: é bello poter dire “l’ho fatto io”. È il 2012 e vengo presa dal mio secondo amore, il vino.
Spinta dall’incoscienza, dalla voglia di mettermi in gioco e dal forte legame con mio padre, gli propongo di lasciarmi le redini della cantina, cosa che accadde anche a lui quando, tempo addietro, si caricò di mille responsabilità, facendosi garante verso mio nonno con impegno e sacrificio. Memore della fiducia che allora il padre ripose in lui, dopo tante indecisioni e preoccupazioni anche mio padre decide di darmi la possibilità di provarci. Come ti ho detto correva la vendemmia 2012, finalmente era il mio momento, avevo 22 anni, emozionatissima e piena d’ansia, avevo programmato tutto il piano di lavoro nei minimi dettagli, non volevo fallire.
Ricordo ancora il sudore in vigna sotto il sole cocente per il campionamento delle uve per controllare la maturazione. Sola tra il ronzio degli insetti, con qualche ragnatela presa in pieno, con le foglie che mi accarezzavano il braccio e mi facevano immobilizzare credendo fosse qualche insetto, le lucertole sui tralci e le cavallette che saltavano. Ne ho sconfitte di paure Vincenzo. Poi la raccolta, solo i grappoli perfetti, controllavo le cassette, perché fidarsi è bene ma non fidarsi è sempre meglio. E poi ancora la fermentazione alcolica: i lieviti erano i miei figli, parlavo con loro, li coccolavo e li assistevo durante tutta la fermentazione.
Non è stato facile. Nel corso degli anni ho fatto tanti errori dai quali ho imparato tanto, senza mai perdere lo spirito che mi aveva spinto a propormi a mio padre né la forza di farcela. Dopo aver conseguito la laurea ho continuato a formarmi da autodidatta, ampliando il mio bagaglio culturale e frequentando anche un corso regionale da Sommelier.
Ti devo confessare che durante questi anni io e mio padre abbiamo messo a dura prova il nostro amore tra litigi, incomprensioni e la sua paura intrinseca per la scelta che aveva fatto. A ogni mia preoccupazione o dubbio, a ogni errore, si sommava la tensione di mio padre che diceva di fidarsi ma, come me, dentro di sé pensava che non fidarsi è sempre meglio. In ogni caso, posso dire di essere sempre riuscita a tranquillizzarlo e soddisfarlo, ma non so se senza il suo infinito amore per me ce l’avrei fatta.
Le condizioni climatiche che hanno caratterizzato l’annata 2016 mi spinsero a dar vita a una nuova etichetta. Ero colpita dalla colorazione dei grappoli di Falanghina, di una piccola parcella, erano dorati, oro giallo, e decisi così di vinificare a parte quella parcella, diminuendo in termini di quantità la produzione della storica falanghina di famiglia, Sintema.
Mio padre, seppur contrario e sfiduciato da questa mia iniziativa, mi lascia fare. Quando il mosto divenne vino, al primo assaggio non gli piacque, non riconosceva la sua Falanghina. In effetti le caratteristiche note della Falanghina si fondevano con altre frutto di questa terra ardente rinfrescata dal mare. Nonostante la sua continua reticenza, portai avanti il mio progetto. Giunse il periodo dell’imbottigliamento, e dato che fino ad allora era stato sempre lui a scegliere i nomi ai vini, gli chiesi di procedere, ma mi disse che di questo non ne voleva sapere, “devi sceglierlo tu!”, furono le sue parole.
Consapevole di non essere molto portata per questo tipo di cose lo pregai di aiutarmi e dopo gli ennesimi litigi finalmente si convinse. Arrivó la bozza del grafico, me la giró per email, una fiamma dorata con la dicitura “Harmoniae Flegrei Campi”.
“Hai visto la retro etichetta, Alessia?”, mi chiese quello stesso giorno. Risposi di no, era la verità, ma naturalmente mossa dalla curiosità non esitai un minuto a guardare: mio padre mi aveva dedicato il nome del lotto, lo aveva chiamato “Alessia16”.
Lui è sempre stato un uomo di molto lavoro e di poche parole, ma quello fu un gesto tra i più belli e riconoscenti nei miei riguardi. Siamo diventati, da allora, una coppia molto affiatata e nel 2017 abbiamo dato vita insieme a una nuova etichetta di Piedirosso che abbiamo chiamato “Nobiles Flegreo”.
La voglia di migliorarmi e maturare in ambito enologico mi spinge, nello stesso anno, a iscrivermi al nuovo corso di laurea specialistica in Scienze Enologiche della facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, portato a termine pochi mesi fa. Qui ho avuto il piacere di essere la studentessa di strepitosi professori che mi hanno insegnato tanto, tra cui il grande professore Luigi Moio, una persona a cui ho provato a trasmettere tutto l’amore che provo per la mia terra.
Come mio padre, ho sempre amato il mio territorio e creduto nell’alto potenziale non ancora pienamente sfruttato di questo magico lembo di terra, e attraverso le nostre attività proviamo costantemente a promuoverlo, a raccontarne le bellezze e i prodotti tipici col fine di valorizzarlo a pieno, nonostante le forti difficoltà date dalla carenza di strutture dedite al servizio ed alla diffusione di informazioni a livello turistico-territoriale.
Il mio sogno é semplicemente quello di vedere i Campi Flegrei nel massimo del loro splendore.
Vincenzo, mi chiamo Alessia Babbo e sono orgogliosamente Flegrea.”