Celeste, le parole, il lavoro e il mare

Cara Irene, Celeste Pinto quest’anno ha lavorato con me e la prof. Maria D’Ambrosio in Bottega O, Corso di Comunicazione e Culture Digitali, Università Suor Orsola Benincasa. Spero tanto che possa trovare le ragioni e le motivazioni per continuare a frequentare la bottega, perché è brava, perché con Maria, dopo oltre 10 anni di attività, stiamo pensando di tenerla aperta tutto l’anno e perché di ragazze e ragazzi come Celeste c’è un gran bisogno, sono loro l’anima della Didattica Artigiana,  la metodologia di apprendimento che portiamo avanti. Ci stiamo lavorando, vediamo dove arriviamo. Per ora è tutto, ti lascio alla storia di Celeste, buona lettura.

Il mio nome è Pinto, Celeste Pinto
Allora prof., ho 29 anni e faccio fatica a dirlo, in un certo senso nella mia testa ne ho ancora 22, invece il tempo passa e questo è.

Un po’ delle cose che amo
Chi sono? Come descrivermi?
Partirei dalla cosa che amo di più al mondo, la parola. La parola nel senso più ampio possibile, il logos che tiene insieme la ragione, il discorso, la capacità di comunicare, che è l’elemento sul quale posso dire di basare veramente tutta la mia vita.
Se ci pensa, anche il nostro corso di studi è questo, ma comunque la parola, il modo in cui qualcuno mi dice una cosa, è davvero quello che cambia le mie giornate. 
Per me le parole valgono, le amo più della scrittura, dove a volte mi perdo. E naturalmente non valgono solo le parole mie, valgono anche quelle degli altri, è molto difficile che io ascolti qualcosa con superficialità.
Credo che “ascolto” sia stata anche una delle prime parole che ho usato per descrivermi quando abbiamo lavorato sulle nostre biografie. Sono convinta che attraverso l’ascolto si costruiscano mondi infiniti. È attraverso l’ascolto di persone e di storie che possono riguardare qualunque argomento che riusciamo a definire e costruire la nostra identità. Per me l’ascolto è il fondamento di tutto, applico questo approccio al lavoro come in tutte le altre situazioni della vita, è il mio punto fisso.

Dopo la parola e l’ascolto amo moltissimo il pallone, nel senso del calcio, il gioco del calcio.
Sono tifosa del Napoli, ci mancherebbe, per me non c’è altra possibilità, altrimenti dove sta il senso di appartenenza.
La passione per il calcio mi è stata trasmessa da mia madre, è da quando avevo 13 anni che vado allo stadio, lì ho visto e incontrato sempre tantissima umanità.
Lo stadio è il luogo che mi ha fatto innamorare ancora di più delle persone. Gli spettatori, i tifosi, sono, siamo, una parte fondamentale dello spettacolo, quasi allo stesso livello di quello che si svolge in campo. E poi la tensione e la gioia, o il dolore e la rabbia che vivi quando le cose non vanno bene, la vicinanza che senti con persone che all’inizio conosci poco e che poi diventano una famiglia con la quale aspetti un’intera settimana che arrivi il giorno della partita, cosa che ci lega profondamente.

Con il calcio, il mare. È il mio elemento, non saprei come spiegare, quando sono in un momento di difficoltà arrivo lì e già soltanto il sentirne il moto perpetuo mi riequilibria, mi riporta con i piedi a terra.
Per me il mare è un legame, è come se la terra e gli elementi della natura mi parlassero e mi dicessero fermati, non ti ritenere così importante da farti tutte queste pippe mentali, metti da parte tutti gli ingarbugliamenti che ti fai viaggiando con la testa, tu, in fondo in fondo, sei solo un essere con due piedi, due braccia e una testa. Lo so prof., detto così è curioso, ma il mare mi fa riacquistare il legame con la terra, con la materia terrena, la sua immensità mi ricorda quanto in realtà siamo relativi al mondo: esseri fatti di acqua, ossa, carne e poco più.
Altre cose che amo fare e che mi caratterizzano? La passione per la “stand up comedy”.
L’ironia è stata da sempre una guida nella mia vita, mi porta a farla semplice, in certi momenti mi ha aiutato a rimuovere i macigni immaginari che portavo sulle spalle, in altri mi ha fatto riflettere e ragionare su parole o temi a cui mai avrei pensato.
Amo ridere e far sorridere, quando ci riesco. Mi intrigano molto il metodo e le strategie che utilizzano i comici per riuscire a suscitare quel sentimento nel pubblico. Mi affascina tremendamente perché credo che sia molto più facile scrivere un testo drammatico, e far commuovere le persone, piuttosto che scrivere un testo comico con la speranza che faccia ridere. Alla fine quel testo resta un’incognita fino alla fine, bisogna di volta in volta toccare corde molto soggettive. Quindi, quando ho la possibilità, seguo vari comici italiani, in verità se potessi passerei giornate intere a farlo. Le faccio qualche nome dei miei artisti preferiti: Francesco De Carlo, Stefano Rapone, Luca Ravenna, Michela Giraud, Max Angioni, Sandro Cappai.

Ah, mi piace anche mangiare, assolutamente, non mi chieda cosa preferisco perché preferisco tutto. Il cibo coinvolge il gusto, il tatto, la vista, l’olfatto, insomma è l’esperienza più embodied che si possa vivere.

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E due cose che non sopporto
La cosa che proprio non sopporto è legata anch’essa all’aspetto umano, mi riferisco alla facilità con cui tante persone giudicano, la superficialità nei suoi mille aspetti, la tendenza a farsi un’idea molto rapidamente. Io impazzisco quando, anche uscendo da una sala cinematografica, mi dicono “allora?, “è bello, è brutto, ti è piaciuto?”.
Ho bisogno di elaborare, ci devo riflettere sulle cose, anche dopo aver visto uno spettacolo. A volte penso “Ma siete tutti così dei cavolo di geni in grado di sentenziare all’istante su tutto?”
A questo si lega il dispiacere che provo quando le persone che mi circondano, in particolare quelle a cui tengo di più, osservano la realtà con il filtro bicolore, o bianco o nero. L’incapacità di cogliere le tante sfumature possibili in ogni questione la considero sempre un’occasione sprecata. Ma ormai mi rendo conto che polarizzarsi, salire il più in fretta possibile su uno dei piatti della bilancia tenendo rigorosamente il pollice in su, è l’attività preferita da molti. Il sistema ci ha abituato così.

La mia storia
La mia storia ha parecchie curve, ma alla fine quale storia non ne ha.
Dopo il liceo, che ho frequentato qui al Suor Orsola, sono un po’ figlia di queste mura, c’era su di me il peso di tantissime aspettative.
A scuola andavo bene, nel senso che ero brava, e tutti a dirmi “ma fai, ma dici, tu puoi fare tutto, puoi ottenere tutto” e altre cose di questo tipo. Il risultato è che sono uscita da qui con un peso enorme, non mi sentivo per niente libera. Per quanto mi conoscessi poco, secondo gli altri mi conoscevo già, ma in realtà avevo ragione io, gli altri conoscevano soltanto il disegno che loro si erano fatti di me.
Sì, direi che di base io non mi conoscevo, andavo avanti come una macchina, con i paraocchi come un cavallo, facendo esattamente quello che gli altri mi dicevano di fare.
“Tu che cosa vuoi fare? Che ti piace? Leggere, scrivere? Vai là, fai Lettere.”
Per la verità già allora avrei voluto fare comunicazione ma quando lo dissi ai miei insegnanti del liceo mi dissero “tu che ti metti a fare comunicazione?, è una cosa scema, fai una cosa seria, Lettere ad esempio”.
Io ogni tanto mi chiedevo perché sminuissero un mondo che poteva essere mio, però poi mi sono adattata e ho seguito il loro consiglio.
Per quanto la letteratura mi piaccia molto, per quanto sia anche andata avanti con gli studi, per due anni,  sentivo di non essere nel posto giusto. Voglio essere chiara prof., nonostante mi affascinasse la materia, perché amo la conoscenza, mi piace avere cose da imparare, arricchirmi anche di una sciocchezza mi alimenta, però alla fine ero senza voglia, sentivo di volere altro in quella fase della mia vita, volevo conoscermi sul serio e continuare a vivere in quel modo non aveva senso.
Mi deve credere, io anche se sono seduta al bar e ho modo di osservare dieci persone che passano, posso sognare, scoprire mondi, posso impazzire, lo giuro. Potrei stare in una stazione o in un aeroporto per sette ore a guardare come le persone si comportano, come si approcciano alle cose.
Vabbè, comunque, tornando a noi, a un certo punto ho deluso tutti, i miei genitori per primi, e ho mollato.
Nella vita non c’è solo la poesia ma anche la concretezza e non voglio nasconderla. A un certo punto cose come l’ambizione, il risultato, “che hai preso”, “che hai fatto”, “dove stai andando” non mi hanno detto più niente; avevo bisogno di vita concreta, di stare in una stazione a guardare la gente, insomma volevo vivere, volevo imparare altre cose però nel mondo.
Vede, per quanto dai libri avessi preso tanto in quella fase della mia vita, non ne potevo più; volevo il mondo, volevo affacciarmi alla finestra, stare a conoscere, fare cose diverse. E avrei voluto anche un po’ più di indipendenza economica, poter gestire meglio le cose mie. La paghetta non mi bastava più, fare la figlia che doveva stare a casa e campare con 30 euro a settimana non mi stava più bene, volevo viaggiare, fare altro, andare oltre.
Ma come si fa a spiegare tutto questo a dei genitori che si sono impegnati sempre per darti tutta l’istruzione possibile perché pensano, anche giustamente, che quella sia l’unica strada per salvarti? E soprattutto come si fa a spiegare tutto il resto? Sta di fatto che ho mollato completamente lo studio, sono stata abbastanza categorica, ho detto basta, non sono capace, o comunque non è la mia strada, faccio altro, lavoro e basta. In due mesi ho fatto la rinuncia agli studi e ho iniziato a lavorare, per fortuna avevo un posto dove farlo, con mio padre, che si occupa di un vivaio.
In realtà collaboravo già prima con lui, però in maniera saltuaria, adesso invece lo avevo scelto come lavoro. Devo dire che all’inizio non sono stata accolta benissimo da mio padre, ma anche questo lo trovo comprensibile dal suo punto di vista, alla fine si aspettava altro da me, era fortemente deluso. Potrei dire anche che ha provato in tutti i modi a farmi cambiare idea, mi ha fatto spazzare per terra per intere giornate, mi sono venuti i calli alle mani, mi voleva allontanare in ogni modo e quindi mi faceva sentire la fatica, cercava di farmi capire le conseguenze della mia scelta.
Però prof., come può immaginare, io ho resistito, l’ho fatto un poco perché la sua punizione ci stava e un po’ perché anche io mi stavo auto infliggendo una punizione. In ogni caso non potevo fare diversamente, mi ripetevo che se a studiare non ero stata capace in questo lavoro non potevo fallire, quindi lì avevo deciso di stare e là sono restata. Mi sono impegnata molto, e in questo modo sono passati sette anni nei quali sono cresciuta e ho imparato mille altre cose. Comunque il punto più importante era che dovevo lavorare, e quindi ho continuato e il tempo è passato, eccome se è passato, dopo di che sono accadute delle altre cose.
Il fatto sa qual è, prof.? È che per quanto avessi cambiato direzione, quello che non era cambiato era l’approccio che avevo con la realtà, in pratica continuavo a vivere su un treno in corsa. Scendevo in una stazione e dovevo salire su un altro treno, sempre prendendolo di corsa, finché non mi sono resa conto che non era quello che volevo fare. In pratica ho cominciato a pensare che  non dovevo per forza salire sul treno di qualcun altro, che dovevo essere io la locomotiva e che per farlo dovevo rendermi indipendente dall’influenza e dal giudizio degli altri.
Questa cosa mi ha segnato tanto. Ho sempre vissuto sentendomi giudicata per tanti motivi, e nel momento in cui mio padre ha avuto delle problematiche di salute sono entrata in una fase difficile, ho iniziato a perdere l’equilibrio.
Non era tanto per il peso e la responsabilità di quello che avrei dovuto affrontare da sola, anche perché poi i problemi di salute mio padre per fortuna li aveva superati benissimo, è che mi sono resa conto che non stava andando tutto bene, che non c’erano sempre tutte le caselle al posto giusto, che non era tutto sotto controllo, che continuavo a camminare sul filo di lana. 
Non mi bastava essere consapevole che potevo andare avanti nonostante tutte le difficoltà e le problematiche lavorative, familiari o di altro tipo, la mia domanda era: ma se perdo l’equilibrio di mio che cosa ho, che cosa mi rimane, qual è la strada mia, quella mia e basta?
Ho vissuto un periodo molto difficile, è successo un paio di anni fa. Avevo 27 anni e sono andata in crisi. Una crisi totale, stavo veramente malissimo, in precedenza non ero mai stata così, non mi riconoscevo più, ero totalmente persa.
Vede prof., a pensarci adesso mi dico che quella crisi doveva esserci e c’è stata, prima mi era andato tutto più o meno liscio, non avevo vissuto un’adolescenza traumatica, niente di niente, doveva succedere, però è stata veramente dura, è durata per mesi e mesi.
La verità è che avevo bisogno di conoscere e di nutrirmi di cose nuove, di fare esperienze nuove, di incorporare materia nuova, ma non avevo più spazio per farlo. Si arriva al punto che bisogna fare spazio.
Io con il lavoro, anche nei primi anni, seguendo mio padre, ho capito e imparato tante cose che non conoscevo, dal modo di comportarsi e di approcciarsi ai clienti a tanto altro. Con gli anni avevo praticamente raggiunto il livello massimo, avevo imparato quasi tutto quello che potevo. In pratica il midollo che potevo succhiare da quel posto me l’ero preso tutto, o comunque non vedevo la possibilità di andare oltre, di crescere di più, di fare cose diverse. A un certo punto ho pensato anche che avrei voluto un po’ di spazio in più, spazio che non ho saputo prendermi o che mio padre non mi ha dato, dal suo punto di vista ancora una volta giustamente. Lui con il suo lavoro stava bene, andava avanti da 40 anni, non aveva mai avuto problemi, perché avrebbe dovuto fare un passo indietro? Penso veramente che dal suo punto di vista abbia avuto senso, alla fine che cosa avevo combinato io fino a quel momento di veramente mio?
Prof., se lo posso dire, mio padre è un po’ quello che il suo è stato per lei, ingombrante ma vitale, non c’è giorno che passi senza che io porti con me almeno uno dei suoi insegnamenti, quando sono in aula, per strada, nella vita. Sta di fatto che a un certo punto ho capito che il passo indietro dovevo farlo io, che avevo bisogno di farlo io il cambio di passo generazionale. Così mi sono detta va bene, il lavoro con mio padre al vivaio c’è e continuerà a esserci nella mia vita, ma intanto cerco la strada che mi dia qualcosa di mio, che mi arricchisca, che mi faccia crescere come dico io.
L’ho detto e l’ho fatto, sono tornata sulla mia strada, quella che volevo percorrere quando ero al liceo, l’anno scorso mi sono iscritta di nuovo all’università, qui a comunicazione. Come sa, adesso sto al secondo anno, ho anche convalidato una buona parte degli esami che avvevo fatto a Lettere, mi mancano 7 – 8 esami alla laurea triennale, l’anno prossimo spero.
Come hanno reagito le persone intorno a me, quelle che mi vogliono e a cui voglio veramente bene? Ho lasciato tutti abbastanza interdetti, però questa volta sto percorrendo la mia strada. Questo mondo mi ha dato e mi sta dando una spinta incredibile, una botta di adrenalina così forte che non la puoi solamente raccontare, la devi vivere.
Comunque ci tengo ad aggiungere che trovare il modo di tornare in equilibrio non è stata una cosa semplice.
Inizialmente provavo a cercare le ragioni del mio malessere fisico nei comportamenti degli altri, tra le cose negative che mi accadevano intorno, poi man mano ho iniziato a rendermi conto che gli altri c’entravano ben poco e che le ragioni e le presunte colpe potevo trovarle solo in me stessa. E così ho iniziato a scavare.
Devo ammettere che anche quella ricerca, nel prime fasi, si rivelò un buco nell’acqua; le tentai tutte per trovare quelle ragioni nella scienza o nella medicina, avevo un mal di testa perenne da mesi, non dormivo più, scappavo da tutto e da tutti, ero convinta di avere un serio problema di salute, ma per fortuna le decine di esami diagnostici a cui mi sottoposi mi diedero torto.
“Celeste sei sana come un pesce, non hai niente, non ci pensare più perché non hai niente” mi dicevano i medici, eppure io bene non stavo.
Cominciai a pensare che se il mio corpo mi aveva dato torto, allora il problema era nella mia testa. Così diedi il via alla ricerca di qualcuno che potesse curare la mia mente, a mio dire “malata”, e anche in quel caso incontrai specialisti che, nonostante il loro impegno, riuscivano a farmi stare solo peggio. Niente da fare, per me non c’era soluzione, ero spacciata.
A un certo punto mi dissi: basta! Decisi di smettere di cercare, non serviva a niente, cominciai a vivere col dolore, portandomelo dietro, assecondandolo, coccolandolo, per scoprire dove mi avrebbe portato. Presi a vivere pienamente tutte le possibilità che la vita mi offriva, nonostante il malessere, approfittavo di tutte le opportunità che il mondo mi proponeva.
Non dimenticherò mai il giorno in cui, mentre ero in spiaggia con il mio amato mal di testa, un ragazzo provò a vendermi un libro che aveva scritto. Lessi il retro della copertina e stentai a crederci, ma in quelle pagine c’ero io, c’era tutta la mia condizione, raccontata da uno sconosciuto.
Scoprii che io e quel ragazzo avevamo vissuto qualcosa di molto simile, diventammo amici, la mia identificazione nelle sue parole mi aiutò a sciogliere i primi nodi. Non ero più sola in quel dolore, e con me non c’era qualcuno che mi consolava pietosamente né mi aggrediva dicendomi che “i problemi nella vita sono altri, di cosa ti lamenti”.
In quelle pagine trovai parte della mia terapia. Le parole, ancora una volta, mi avevano confermato di poter essere più potenti di qualunque farmaco, almeno in certi casi. Da quel momento non ho più smesso di avere una sorta di slancio attivo verso me stessa e verso il prossimo. L’apertura all’interazione con l’altro, anche un soggetto sconosciuto, da allora e per sempre, sarà una delle chiavi della mia vita.
Talvolta i drammi che pensiamo siano solo nostri, incomprensibili agli occhi degli altri – piccoli e innocui come moscerini, ma che diventano mostruosi e capaci di abbatterci, in condizioni di squilibrio – non sono altri che nodi all’apparenza inestricabili in cui moltissime persone sono già incappate.
Solo grazie alla condivisione, all’interazione tra noi attraverso gli occhi, le orecchie, gli abbracci, le parole e il cuore aperto, siamo in grado di risolvere questioni che altrimenti non avrebbero soluzione. Per me è così che ci si trova di fronte a nuove possibilità che ti salvano la vita.

Per me il lavoro è
Per me il lavoro è quasi la vita, nel senso che lavorare non vuol dire semplicemente lavarsi, vestirsi e andare sul posto di lavoro. Per me lavorare vuol dire farlo proprio con se stessi, da quando ci si sveglia, vuol dire vivere con un approccio, un’etica, un ragionamento che ha al centro il lavoro, la voglia di costruire sempre, di mettere ogni volta che è possibile un mattoncino in più. Puoi mettere un mattoncino in più sul cantiere, lo puoi mettere nella tua vita, lo puoi mettere quando studi, lo puoi mettere sempre. Per me è importantissimo andare a letto la sera e dire va bene, oggi ho aggiunto questo mattoncino; un mattoncino che può essere “ho imparato questa cosa”, “ho conosciuto questa persona”, “mi è rimasta questa idea”. È questo che mi fa andare a letto serena. È per questo che per me il lavoro, lavorare, significa veramente tanto.

Amore vuol dire
Che mi dice la parola amore? Bella domanda. Mi dice tanto, ha un ruolo importante in più campi. Ho un compagno da 9 anni, vivo ancora con la mia famiglia d’origine ma con lui sto molto bene, ha 5 anni più di me ed è parecchio più razionale di me. Naturalmente anche in una relazione le cose cambiano, negli anni è cambiato lui, sono cambiata io, abbiamo avuto periodi di crisi, però stiamo bene, anche nel mio periodo più difficile ha cercato in tutti i modi di starmi vicino anche se non era per niente facile, ero veramente diventata una scintilla, non mi potevi toccare, nessuno mi poteva toccare.
Sì, in generale l’amore ha un ruolo molto importante nella mia vita, direi fondamentale, è uno di quei sentimenti che ti spinge in ogni cosa, però allo stesso tempo per tantissimi anni mi sono fatta delle domande, diciamo che non ero molto convinta della mia idea di amore.
Anche in questo caso mi sembrava un’idea che qualcuno mi avesse dato, mi avesse tramandato, la sua lettura dell’amore che però non doveva per forza corrispondere alla mia.
La mia domanda era: va bene, provo delle sensazioni, dei sentimenti, ma le posso definire amore o sono un’altra cosa? In pratica mi sentivo persa proprio nel definirlo, perché non capivo veramente se il mio fosse amore o fosse altro. Forse ho capito davvero cosa fosse l’amore quando ho fatto pace con me stessa, quando ho cominciato ad amarmi in prima persona.
Come posso dire? Era un amore dato con poca consapevolezza. Me ne sono resa conto nel momento in cui ho iniziato a svegliarmi la mattina completamente convinta di quello che stavo facendo.
Prima di amarmi davvero ero piena di pregiudizi, mi giudicavo tantissimo, mi trovavo mille difetti, facevo mille congetture per dire vali o non vali, sei capace o non sei capace.
Adesso se qualcuno me lo chiedesse gli direi “amati per prima cosa e l’amore per gli altri ti verrà naturale”. Lo direi perché è quello che è successo a me quando ho smesso di essere rpiegata su me stessa.
Ecco, nel mio caso a un certo punto quel ripiegamento si è trasformato in un’estensione, accade se ti cominci ad amare, perché l’amore ti fa viaggiare serena.
Le faccio un esempio prof.; quando ho detto al mio compagno che avrei voluto ricominciare a studiare, perché è stato a lui che l’ho detto per primo, forse ci è rimasto un po’ male, nel senso che abbiamo tutti e due l’età giusta per avere altre prospettive del tipo andiamo a vivere insieme, mettiamo su famiglia. Le dico subito che per me l’idea della famiglia è enorme, la vedo, la trovo un atto d’amore enorme, però per me era impensabile se non mi fossi amata abbastanza prima io.
Come creo una famiglia se manco mi amo, che cosa dico a questa famiglia se neanche so bene che cosa sono io, che faccio, dove vado? Questo aspetto per me è fondamentale, senza di esso tutto il resto non potrà mai venire. Certo, potrei anche farlo, però come una macchina, come una delle tante, e dei tanti, che si rassegna a seguire la mandria, perché così si fa a questa età. No, io non mi rimetto più a seguire la mandria, e anche se all’inizio è stata dura per lui, il mio compagno l’ha capito, si è reso conto della mia decisione, l’ha apprezzata, è felice nel vedermi felice, viva, riappropriata di me. L’amore che mi piace è questo.

Post Scriptum
Cara Irene, Celeste ieri pomeriggio mi ha inviato il breve messaggio che segue. Ci ho messo tempo per convincerla a pubblicarlo, dice che ha già detto troppo, ma alla fine ci sono riuscito, trovo che la prima parte sia un modo magnifico per raccontare il suo approccio e il suo carattere e la seconda un segno che è stata contenta di raccontarsi, che non è mai una cosa scontata. Eccolo:
Caro prof., penso che prima di continuare a far girare il mio racconto lo dobbiamo rileggere, ci sono alcuni errori e lei mi ha insegnato che una cosa che va quasi bene non va bene.
Poi volevo dirle una cosa che mi ha fatto sorridere: il mio ragazzo dopo aver letto la storia mi ha detto: “Tutto fantastico, la lacrima è caduta, ma come hai fatto a dimenticarti dei viaggi tra le cose che ami? Cara mia, come hai potuto omettere che mi fai fare 15 km al giorno a piedi, in qualunque posto del mondo andiamo?”.
Devo ammettere che ha ragione, i viaggi non li ho nominati, ma come può immaginare ogni scorcio, ogni sguardo incrociato, ogni parola sussurrata, ogni sapore, colore, usanza conosciuta nel mondo, torna sempre a casa con me. Le suole devono consumarsi, altrimenti come si fa.

Post Post Scriptum
Cara Irene, naturalmente stamattina la prima cosa che ho fatto ho riletto tutto e ho corretto gli errori che ho trovato. Quelli che invece no ho chiesto a lei di rileggerli e di segnalarmeli, così impara.

Post Post Post Scriptum
Iré, ‘a guagliona è brava assai, mi ha mandato le sue correzioni e non le sfugge niente. Direi che adesso è quasi a posto, perché del tutto a posto sarebbe la perfezione, e noi umani non possiamo essere perfetti.

UN PO’ DI CELESTE IN BOTTEGA O
Io, una talea
Sistema di Roteanza Antigravitazionale
Daria
La scuola del fare in pace
Essenze mitologiche al monte Echia
Le due vandere, lavoro di gruppo
Le parole della Bottega 2024

  • Irene Costantini |

    Una narrazione potente quella di Celeste, quel suo invito quasi gridato ad amarsi prima di tutto e a non seguire le mandrie. E i suoi scritti che hanno qualcosa di speciale, le parole che sceglie, e che ama tanto, la familiarità con le piante, quella stupenda descrizione della macchia mediterranea. E allora in tutto questo narrare, grazie Celeste per aver associato il mio racconto di scuola alla parola Pace!

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