Daniela che lavora, impara e gioca

Caro Diario, questa di Daniela Chiru è la storia più lunga che io abbia mai pubblicato sul nostro blog. Sono 50 mila battute, tra 25 e 30 pagine, meglio dichiararlo subito, così i profeti della velocità scappano subito, che persino se sei Speedy Gonzales i 7 – 8 secondi di attenzione che hai a disposizione volano via che neanche te ne accorgi.
Che tipo di storia è e perché sono felice di raccontarla te lo dico alla fine, per adesso aggiungo soltanto che se tu me lo avessi chiesto ti avrei risposto che nella versione social conosco Daniela da almeno un paio d’anni e invece sono andato a controllare e ho visto che il primo contatto lo abbiamo avuto il Primo di Maggio dello scorso anno.
Sono d’accordo con te, la cosa non è affatto banale, avrò modo di tornarci anche su questo. Invece la prima volta che ci siamo incontrati dal vivo è stato a Nobilita Festival a Bologna, lo scorso 23 Marzo, non ti anticipo altro, ne accenna lei alla fine del suo racconto.
Sì, direi che per ora per quanto mi riguarda è tutto, ti metto in testa al racconto un indice per facilitarti la lettura, o per godertela in più puntate, a dopo.
P.S.
La storia di Daniela non è solo lunga, non finisce qui, perché questa donna qui intendo continuare a seguirla e a raccontarla.

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INDICE
1. Profumi
2. I miei nonni
3. I miei genitori
4. Ploiesti
5. La scuola e l’università
6. Radio Contact Romania
7. Italia mon amour
8. Al lavoro e all’università
9. Il lavoro come integrazione
10. Lavoro si cambia
11. Imparo dunque sono
12. Lavorare e giocare
13. Lego® Serious Play®
14. Un altro po’ di me, delle cose che amo e di quelle che faccio
15. I sogni nel cassetto
16. I link
17. Gli acronimi
18. Daniela a Lavoradio
19. Daniela a Impact Hub Firenze

Profumi
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Caro Vincenzo, ti scrivo queste righe avvolta nel profumo di casa.
Sono molto sensibile ai profumi: amo il lilla bianco e il mughetto, il profumo di dolci appena sfornati che associo alle domeniche in famiglia, il profumo di latte e biscotti di mia figlia piccola, quello al muschio bianco di mia nonna e potrei dirti che pure le giornate hanno il loro profumo: l’umido della pioggia, gli alberi in fiore o il sole che bussa alle finestre.
Detto questo provo a dare ordine e senso alla mia storia, provo a farlo come abbiamo deciso assieme, come un flusso di esperienza, poi mi dirai tu se e come aggiustare il tiro.

I miei nonni
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Nei miei ricordi ci sono due paesini in campagna: uno vicino a Ploiesti, la città della Romania dove sono nata e cresciuta, l’altro lontano da ogni città, perduto nelle campagne.
Il primo è il paesino dei miei nonni materni: lui ragioniere, lei sarta, venivano da tutta la regione a trovarla, che a pensarci adesso non sembra neanche tanto, ma in realtà a quei tempi erano chilometri e chilometri da percorrere a piedi o con le carrozze. Lei disegnava, ricamava e cuciva abiti da sposa.
Mi raccontavano che aveva la fila alla porta. Aveva preso due aiutanti per riuscire a gestire il lavoro e all’inizio affidava a loro solo i dettagli che a lei avrebbero rubato del tempo prezioso, il tempo della creatività, così lo chiamava lei mentre raccontava che non ha mai fatto due vestiti uguali perché non ci sono due persone uguali. Era nata quasi una leggenda che univa l’abito da sposa creato da mia nonna alla benedizione di un matrimonio felice e con tanti figli.
Dico all’inizio perché poi come lei stessa raccontava ha trovato persone talmente brave e volenterose che era un piacere insegnare loro il mestiere.
“Il pizzo, la seta, sono materiali delicati e cari”, diceva, “devi sapere cosa vuoi fare ancora prima di tagliare. Nel giorno del matrimonio la sposa deve essere perfetta”, aggiungeva quasi per scusarsi per quella sua mancanza di fiducia che poi ha corretto nel tempo, “ha tutti gli occhi su di lei e tutti sanno che sono stata io a cucire l’abito, non può cascarle male addosso”.
Il nonno l’aveva sposata che aveva 16 anni. Lui alto e sorridente in uniforme, ufficiale nell’esercito, lei in piedi su uno sgabello nascosto nella lunghezza del vestito da sposa, un’idea del fotografo, per immortalare il momento.
La foto del loro matrimonio non si è mai spostata dalla piccola mensola vicino alla macchina da cucire, una Singer. Ricordo il rumore del pedale e della piccola ruota che girava, la precisione dell’ago che eseguiva un movimento continuo mentre la nonna spostava velocemente il tessuto.
Confesso che io non ho ricordo dell’immagine di lei circondata dalla gente, e nemmeno la leggenda di chi l’associava al successo del proprio matrimonio, per me lei è l’attesa per i suoi racconti. Ricordo che eravamo io e le mie due cugine e che lei doveva metterci a riposare un pochino nel pomeriggio. Perché sai Vincenzo, la vita in campagna non iniziava alle 8 del mattino con colazione e la corsa in ufficio o a scuola. In campagna impari ad amare e a rispettare l’alba. Le persone, non li chiamo contadini perché i veri contadini erano gli altri nonni, nell’altro paesino, si alzano e guardano prima di scaldare la casa, escono a dare da mangiare al cane, a controllare le galline, a annusare la terra e a guardare il cielo per capire cosa porta la giornata e solo dopo cominciano a pensare a loro stesse.
Quindi la nonna voleva un pochino di tranquillità dopo pranzo e noi, stanche per quanto avevamo corso, cantato o giocato, ci mettevamo tutte nel lettone, con lei in mezzo, abbracciate, ad ascoltare una storia. Lei la inventava, non la leggeva da un libro, aveva gli occhi stanchi da tutti i ricami, dal movimento guidato dell’ago.
Puntualmente, la storia includeva un cavaliere che correva a difendere il suo castello da qualche mostro, proteggendo la sua bella principessa e i suoi cari. Puntualmente, nel momento più interessante e più difficile la nonna si addormentava e noi ci guardavamo in silenzio dicendoci “e ora lui rimane a cavallo finché non ci risvegliamo”. Una di noi toglieva gli occhiali alla nonna, l’altra prendeva la coperta e la sistemava e ci addormentavamo sorridendo. Non so se questo è stato propedeutico al mio amore verso la letteratura, ma quel misto di storie inventate, di amore e di abbracci l’ho fatto rivivere a mia figlia, ma questa è un’altra storia ancora.

Del nonno so che nella Seconda guerra mondiale, da ufficiale, aveva lavorato negli uffici dell’esercito, era ragioniere. Una persona molto riservata, di quelli che anche se avessero passato brutti momenti non li avrebbero mai condivisi. Mia mamma si è sempre meravigliata nel vederlo ridere e correre tirando lo slittino con me sopra sulla neve mentre io gli chiedevo di fare il verso del cavallo e lui che provava ad accontentarmi. L’immagine che aveva lei del suo papà era parecchio diversa.
Per me invece era colui che leggeva le rubriche più difficili sui giornali, quelle incompressibili per me, quello che teneva i ritagli con le normative più importanti mentre la nonna si raccomandava di non andare a rovistare nell’ufficio del nonno. A differenza della nonna, di lui ricordo benissimo le persone che lo cercavano per chiedere il suo supporto per sbrigare delle pratiche. Si chiudevano per ore nel suo ufficio mentre io mi sedevo con il plaid sull’erba a leggere. Ogni tanto guardavo verso la porta per vedere se tornava ad essere aperta, era il segno che era di nuovo libero per venire a giocare con me.
Vedi Vincenzo, i nonni materni erano un misto di intellettuali-contadini che non saprei spiegare. Tra un incontro e l’altro il nonno passava dalle galline, la nonna mi portava nel giardino dove lei controllava i pomodori e io correvo a prendermi lamponi o fragole, poi arrivava anche il nonno e tirava fuori dalla terra le patate da sbucciare per il pranzo.
Il nonno mi spiegava le stelle, le costellazioni che non hai idea quanto siano belle e brillanti nelle notti di campagna. Il ronzio dei grilli, qualche cane che abbaia e la sua voce con la mano tesa verso la costellazione di Orione mi riscaldano il cuore mentre ti sto scrivendo.
E poi i profumi: la terra appena lavorata, aperta dalla zappa, gli alberi in fiore, i pomodori raggruppati, rossi e pendenti, il mughetto, i gigli.
Non ci crederai ma un altro ricordo sono io che da piccola mi arrampico ovunque per assaggiare la frutta. Non avevo paura di salire, ma di scendere sì, perché andavo tanto in alto a forza di cogliere e mangiare. Ricordo che una volta il nonno, allertato dalle mie cugine, è arrivato con la scala sotto il ciliegio. Allungava le braccia dicendomi di scendere, di prendere la sua mano, mentre io tenevo stretto il ramo. Sicuramente un attimo prima avevo lasciato il ramo per allungare la mano verso le ciliegie e mangiarle, ma in quel momento, guardando il vuoto sotto non riuscivo più a staccarmi. Si potrebbe fare un discorso sulla motivazione che da la forza e sulle paure, in ogni caso alla fine deve essere andata bene visto che non sono più la ragazza del frutteto.
Quello che non è cambiato è la mia tendenza di guardare in alto, di farmi portare dai progetti, dai sogni. Ho sempre le scarpe graffiate in cima, per quanto eleganti. Mia nonna mi diceva che sono nata per volare sulle ali dei sogni da realizzare, perché inciampavo mentre camminavo. Da grande qualche amico mi diceva “tu sei sempre innamorata, hai sempre qualche pensiero o idea nella testa e non guardi mentre cammini”.

Come ti ho accennato i nonni paterni erano invece i contadini per eccellenza: lavoravano la terra, avevano una fattoria con tutto quello che ora mia figlia vede solo nei film: cavalli, tacchini, maiali, oche, papere, vitelli.
Andavo da loro qualche fine settimana e nelle vacanze perché erano lontani da casa dei miei genitori.
La giornata iniziava all’alba e finiva con il buio, non c’erano ancora la corrente elettrica e il gas, sono arrivate quando io finivo le elementari. Come ti dicevo era davvero un paesino sperduto, dove le anime vivevano lavorando la terra e scambiandosi i prodotti.
Lo sai che ho visto costruire la casa di mio zio? Perché c’erano queste famiglie che sapevano tirare su le case. La nonna cucinava per loro e quella estate eravamo davvero in tanti a mangiare: parlavano poco, secondo me perché erano troppo stanchi o con il pensiero al lavoro da finire. Ricordo le loro mani screpolate, provate dai materiali che utilizzavano e dal lavoro che portavano avanti con grinta. Non ti so dire quanto è durata la costruzione, ma la casa è su tuttora ed è bella grande. I miei cugini sono cresciuti, hanno cresciuto i loro figli e i figli dei loro figli sono lì adesso.
La nonna la ricordo piegata sui fornelli, la ricordo mentre mungeva le mucche o preparava il formaggio dal loro latte, la ricordo mentre puliva l’anatra o spennava i polli.
C’era qualcosa di magico nell’aria, a partire dai colori, ovunque ti giravi c’erano pennellate decise di verde, marrone e oro in tutte le loro sfumature, ricordavano le pitture di Nicolae Grigorescu; e poi i profumi – i fiori, le piante, il bosco, il fieno – non ho più trovato altri posti al mondo con quella sinfonia di profumi; e ancora la musica, immagina un tramonto infuocato Vincenzo, chiudi gli occhi e senti i campanacci in arrivo da lontano, e i bambini correvano alle porte delle fattorie per accogliere le mucche e i vitellini di ritorno dal pascolo.
Ricordo che la nonna arrivava con una cesta piena di bontà: zucchine, cetrioli, pomodori appena colti, formaggi, barattoli con vari sughi e la passava al pastore, quello che portava tutti i giorni tranne la domenica, dalla mattina alla sera, le mucche e i vitellini sulle colline a pascolare. Mi ricordo di lui che si toglieva il capello e baciava la mano che impugnava la cesta e che non mancava mai la carezza della nonna sulle sue spalle. Erano quei gesti, senza parole, che mi affascinavano. Il pastore non parlava – povera anima, diceva la nonna, è nato così – ma c’era qualcosa di più forte delle parole, è la gentilezza di ambedue che mi è rimasta impressa.
In questo paesino tutti lavoravano la terra, pochi avevano lavori in città, spesso scambiavano i prodotti per aiutarsi e, ora mi torna in mente, non chiudevano mai a chiave le porte. “Perché chiudere”, mi ha detto una volta la nonna rispondendo alla mia domanda, “se io dormo e qualche cristiano ha bisogno come fa a chiamarmi?”.
A differenza della nonna materna, qui non abbiamo mai riposato il pomeriggio. La nonna era sempre di corsa tra la cucina, gli animali, le marmellate, i sughi mentre il nonno partiva con il carro con i buoi la mattina prestissimo, mentre io dormivo ancora, e tornava tardi la sera: andava a raccogliere la frutta o a lavorare la terra insieme ad altre famiglie. Ho passato davvero poco tempo insieme a lui mentre la nonna la seguivo ovunque: mi raccontava delle piante, dei fiori, degli alberi, delle terre passate dai nonni ai genitori e dai genitori a lei, me ne parlava come di una ricchezza e di un onore.
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I miei genitori
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I miei genitori si sono conosciuti mentre lui insegnava storia e lei finiva gli studi.
Mio papà deve essere stato un insegnante poco formale, ricordo una foto con lui e gli studenti mentre correvano dietro a una palla, in un campo polveroso. Mi aveva indicato lui quale di loro fosse, perché non l’avevo riconosciuto, colpa un po’ della qualità della pellicola ma anche di quello che era la scuola rumena: serietà, uniforme scolastiche dai 6 anni di scuola elementare fino alla fine del liceo. Polvere, football e sorrisi non erano inclusi.
La mamma iniziò ad insegnare nella stessa scuola il francese e il russo. Siamo a fine anni ’60, mi raccontava che insegnava preparando poesie e giochi in lingua per facilitare l’apprendimento.
Non so dirti quando, forse appena nata io, forse qualche anno dopo, succede che lasciano la scuola ed entrano in fabbrica: lei come segretaria di direzione, lui si mette a studiare e diventa tecnico specializzato nel giro di poco tempo.
Lavoravano nella fabbrica di auto Dacia (Renault), lontano dai miei nonni materni dove io sono rimasta per i primi 3-4 anni di vita. Li vedevo solo nel fine settimana. Il motivo del cambiamento lavorativo è che gli intellettuali erano visti male ai tempi della dittatura e la situazione stava peggiorando. Lavorare in fabbrica ti teneva al riparo da possibili persecuzioni.
A metà degli anni 70, si spostano in una fabbrica nella mia città natale, a 20 minuti del paesino dei nonni materni e poi, con l’arrivo della scuola elementare, ritorno anche io nel nucleo famigliare.
Nel frattempo era nata mia sorella, oggi docente all’Università di Ploiesti, insegna l’inglese.
A 14 anni ho scelto di iscrivermi al liceo di scienze sociali – nonostante la professoressa di fisica, che adoravo, ci sia rimasta male, lei mi consigliava lo scientifico e poi medicina – perché sentivo mio il loro rimpianto inespresso. Ti dico la verità, non mi sono mai sembrati infelici, ma non potevo ignorare la passione che percepivo quando mi facevo aiutare nello studio, i racconti di storia oltre i libri di scuola o gli esercizi per perfezionare la pronuncia mentre leggevo in russo.
Il lavoro te lo devi far piacere: è questo l’insegnamento che ho appreso da loro. Lo stesso lo studio, ricordo che non riuscivo a studiare il fascismo, ho detto a papà che mi doveva perdonare se avessi preso 4 a storia per quel capitolo lì ma non me la sentivo di aprire il libro, mi bastavano i racconti della professoressa durante le lezioni.
La sua risposta la ricordo bene, suonava più o meno così: hai osservato lo sguardo e la voce della professoressa mentre insegna? Se non lo hai fatto, fallo. Pensi che per lei sia facile riportarvi quanto è successo? Certe cose vanno fatte lo stesso così come certe altre le dovrai studiare lo stesso, e trasmetterle ai tuoi figli perché non si ripetano più.
Ed è così che ho studiato non solo il fascismo ma anche le opere “grandiose” della dittatura, è così che ho fatto compiti alla luce della lampada a gas (regalata dalla nonna paterna) mentre veniva interrotta la corrente dalla sera fino alla mattina dopo, durante l’inverno, una scelta del dittatore, dei suoi seguaci, chissà. Stiamo parlando degli anni ’88-89. Penso di aver guadagnato in determinazione, serietà, impegno e umiltà in quegli anni.
Lo ripeto, non pensare che eravamo infelici! Per noi bambini era quasi un gioco: la lampada o le candele per la luce, le coperte di lana trasformate in abiti da principesse per non sentire il freddo.

Ploiesti
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Sono nata ad inizio agosto del 1973 a Ploiesti, in Romania, da mamma Maria e papà Ion (Giovanni). La nonna materna mi raccontava che appena mi ha vista ha posato un bacio sulla guancia destra dove adesso ho una fossetta. Un bacio di benedizione diceva lei, un bacio che mi porta a sorridere (altrimenti la fossetta non compare e la nonna questo lo sapeva) per ricordarla con amore, per sentirla ancora vicino a me nonostante sia scomparsa qualche anno fa.
Un po’ di cose le tralascio, questa storia sarà già troppo lunga, sulla parte bella della lavagna ti scrivo solo che leggevo giorno e notte qualsiasi libro mi capitasse sottomano e su quella brutta che nel mio paese le difficoltà sono state sempre tante, la dittatura non si limitava alle libertà e alle possibilità che avevamo come persone o i risparmi – chiamiamoli così – di energia elettrica, avevamo una specie di cartellina per famiglia con 1 kg di zucchero ogni 3 mesi, e pure farina e pane erano a peso e non erano disponibili sempre, dovevamo fare delle file interminabili per ritirarli sperando che non finissero prima che toccasse a noi.

La scuola e l’università
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Sì, le difficoltà sono state tante, per dirtene un’altra a 14 anni a scuola c’era un esame di ammissione da superare, per essere ammesso alle superiori. Le materie: lingua e letteratura rumena e matematica. La mia professoressa di rumeno delle medie era disperata, perché alla simulazione della prova, invece di fare un racconto e l’analisi di un autore, ho inventato una poesia che descriveva, strofa dopo strofa, tutte le opere dell’autore scelto e le sue caratteristiche. Mi ha detto: bello ma sei fai così all’esame sarai bocciata. Le ho dato ascolto perché ci tenevo troppo e perché all’esame ero talmente tesa che non avrei potuto comporre una poesia. La creatività non va molto d’accordo con lo stress e le costrizioni.
Dal professore di matematica delle medie invece ho imparato che se un problema non è facile da risolvere, se fai un errore e ti blocchi, non devi stare a cercare di capire l’errore – si riferiva alle verifiche, quindi in aggiunta la pressione del tempo che passa – ma fare una rilettura dall’inizio del problema, come se non l’avessi mai visto, insomma con uno sguardo diverso.
Dell’iscrizione al liceo di scienze sociali ti ho detto, era un misto tra cultura generale, dalle 8:00 alle 13:00 circa il programma era quello degli altri licei umanistici, invece dopo pranzo avevamo 2 – 3 ore in più con musica, psicologia, pedagogia e sociologia. Facevamo anche delle ore di tirocinio presso la scuola elementare che si trovava nello stesso cortile, però in un edificio a sé.

Durante la scuola superiore ho avuto più di un modello:
la professoressa di matematica, che sento tuttora, una professoressa fuori dalle righe perché oltre agli insegnamenti trovava modi di darci qualche consiglio sull’adolescenza, ci “vedeva” come persone;
la professoressa di musica e la professoressa di arte, grazie a loro ho iniziato a frequentare prima i musei, il teatro e la filarmonica della mia città, poi il Teatro dell’Opera di Bucarest, nasce così il mio grande amore per l’arte, in tutte le sue forme.
A detta dei miei professori di arte, pittrice/pittore (ne ho avuto due diversi), avevo talento all’acquerello, nella gestione dei colori ma ero poco decisa nelle forme. Amo le sfumature, le tonalità, le combinazioni di colore.

Nel Dicembre del 1989, quando è finita la dittatura, ero ancora alle superiori e ho visto il cambiamento culturale, ovvero è stato quello il cambiamento che più ho seguito. Finalmente potevo ascoltare la musica che volevo, leggere libri che non avevo avuto occasione di leggere e viaggiare liberamente fuori dal paese. I miei, grandissimi viaggiatori, avevano già visitato tutti i paesi comunisti dove avevano accesso, ora pianificavano le vacanze negli altri paesi: Italia, Francia, Olanda, Inghilterra.
Mi devi credere Vincenzo, mi sono sempre sentita parte del Mondo, no rumena, no italiana. Non appartengo a qualcosa o a qualcuno come non puoi possedere la pioggia che batte sui vetri o un tramonto. Appartengo al Mondo, appartengo a me stessa.
Ah, per quanto riguarda la vita durante la dittatura vorrei aggiungere che per quanto sia stata dura le persone sono sempre persone, né da compatire, né da disistimare.

Ho scelto l’indirizzo di Psicologia e Sociologia anche all’università. Ho sostenuto l’esame di ammissione mentre lavoravo già come maestra di scuola elementare. Non me la sono sentita di lasciare “i miei bambini” e quindi ho continuato ad insegnare e, una volta finite le lezioni del mattino, correvo a prendere il treno per andare all’università.
Qui faccio una parentesi per dirti che le lezioni di botanica, di scienze naturali le svolgevo nel bosco di fronte alla scuola. Ci sedevamo sull’erba e tra insegnamenti e risate svolgevo una lezione a contatto con la natura.
Dei miei alunni ricordo tra le altre cose belle la loro attesa quando venivo sostituita da altre maestre perché dovevo sostenere gli esami all’università. Devi sapere che al mio ritorno la prima domanda era “com’è andata maestra, era difficile, che voto ha preso?” con le risate e gli applausi che ne seguivano. Spesso mi chiedevano com’era l’università, se era come a scuola.

Ricordo i bambini che avevano difficoltà a tenere il ritmo, il loro impegno, le situazioni famigliari problematiche. Grazie ai social sono ancora in contatto con qualcuno di loro. Di una bambina, in particolar modo, ricordo l’abbraccio e le lacrime a fine ciclo scolastico; l’avevo segnalata un paio di volte come esempio positivo per la sua costante determinazione a migliorare: da 5 – 6 a 7 – 8 fino ad arrivare, l’anno successivo, tra i primi della classe.
C’è qualcosa di magico nei piccoli esseri che credono in noi adulti, che sognano e si aspettano da noi che li aiutiamo a coltivare questi sogni, che insegniamo loro come realizzarli.

Durante il secondo anno d’università, la radio che ascoltavo più frequentemente decide di aprire una filiale nella mia città. Una sera sento il loro annuncio con l’invito a candidarsi, e, nonostante fossi impegnata tra la scuola al mattino e l’università nel resto della giornata, colgo al volo l’opportunità e trovo il tempo per presentarmi al colloquio.
Mi piaceva l’idea di fare cultura, di portare la musica e le informazioni accuratamente preparate nelle case delle persone, dei miei genitori, dei miei cari, di persone che poi, facendo anche delle trasmissioni in diretta dalle piazze, avevo l’occasione di conoscere e di ascoltare.

Radio Contact Romania
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Mi hanno inserita nel team dopo un periodo di preparazione, ho imparato facendo. Sono arrivata poi a gestire le selezioni, a trasmettere ai neoassunti le caratteristiche che definivano e differenziavano il nostro format da quello delle altre realtà radiofoniche.
Da speaker a ideatore di programmi il passo è stato breve. Trattavo tematiche legate al mondo del lavoro, al territorio, alle problematiche scaturite dal cambiamento culturale e politico da una dittatura che nella sua utopia assicurava comunque una casa e un lavoro per tutti alla democrazia nella quale le grosse realtà industriali iniziavano a ridimensionarsi e a trattenere solo le persone competenti, alla psicologia delle masse. In altri casi più semplicemente provavo a parlare di musica, quella mai ascoltata prima, studiando i dischi e le informazioni che apparivano online.
In radio ho imparato a utilizzare un PC, ad ascoltare le persone con un’attenzione diversa, a collaborare in un ambiente poco gerarchico, divertente e ricco di regole da rispettare allo stesso tempo.
Però non ero una giornalista, dovevo studiare per migliorare. Quindi, dopo un esame d’ammissione davvero difficile, ho iniziato un corso organizzato dalla BBC (British Broadcasting Corporation) a Bucarest, con un gruppo di giornalisti inglesi sia per la TV che per la radio, specializzandomi in quest’ultima. In seguito, ho iniziato a gestire i notiziari e le interviste come mi era stato insegnato da loro.
Ho smesso di fare l’insegnante subito dopo la morte di mio padre, quando aveva solo 51 anni.
L’anno dopo a Luglio mi sono laureata e tra settembre e ottobre, desiderosa di continuare a studiare, ho messo un annuncio sul giornale locale per trovare una professoressa di italiano o di spagnolo perché mi andava di studiare una lingua nuova. Durante la scuola d’obbligo potevi imparare solo l’inglese e il russo o il francese. Così ho conosciuto la mia insegnante e, in tre mesi, due volte a settimana, abbiamo finito un paio di libri di grammatica italiana. Dopo di che, senza averlo neanche programmato, arriva un nuovo cambiamento e così un bel giorno ho impacchettato le competenze, i diplomi, i ruoli e le speranze in una valigia e ho spacchettato tutto in un paese straniero. Praticamente in due ore di viaggio sono passata da essere qualcuna in Romania ad essere nessuna in Italia. Avevo un valido motivo però: le rose rosse e il grande amore che mi aspettavano all’aeroporto di Firenze.

Italia, mon amour
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Il mio primo lavoro in Italia è stato quello di babysitter. Avevo la divisa rosa a quadretti bianchi e il colletto in pizzo bianco e dovevo aspettare che la padrona di casa mi concedesse il quarto d’ora per mangiare un boccone prima di rimettermi a sistemare la stanza del bimbo o assegnarmi altri compiti mentre lui riposava. Ho fatto chilometri per tutta la casa con lui in collo provando a tranquillizzare e a gestire un neonato delicato e sempre pronto a piangere. Mi sentivo inadeguata quando piangeva, felice quando riuscivo a farlo sorridere. Un giorno la signora mi ha chiesto cosa facessi in Romania, cosa avessi studiato e dopo che glielo ho detto mi ha risposto che da straniera in Italia non avrei mai fatto altro, che la mia laurea non valeva nulla qui, che dovevo esserle grata per quel lavoro.
Mi è stato molto utile quel periodo, Vincenzo, ho imparato tantissime parole nuove, ho migliorato la pronuncia, ho preso dimestichezza con il mondo dei neonati. Però dopo un po’ di mesi sono venuta via, ho iniziato a fare dei colloqui.
Difficile dimenticare il primo, quando piena di speranze mi sono presentata per un progetto dove la mia laurea in Psicologia e Sociologia poteva essere utile, era richiesta. In seguito al colloquio telefonico, il selezionatore mi fissa un incontro presso l’agenzia per il lavoro. Il giorno dell’appuntamento quando mi sono presentata hanno preso il mio CV e mi hanno fatto la solita domanda “mi parli di lei”. Mentre stavo raccontando le mie esperienze ho notato l’espressione sul volto di uno di loro. Era a dir poco meravigliato: “ma lei non è qui per fare la donna delle pulizie? Avevo visto scritto nata in Romania, non pensavo fosse per il progetto tal dei tali, la sua laurea qui non vale nulla, c’è una ditta di pulizie che la prenderebbe da domani”.
Morale della storia sono tornata a fare la babysitter, servivano i soldi anche perché nel frattempo il mio amore, diventato mio marito, era fiorentino, si è ammalato gravemente.

Al lavoro e all’università
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Successivamente ho lavorato per un’azienda di trasporti locali e interregionali, ho imparato a eseguire gli inserimenti nel loro gestionale di contabilità, ricordavo spesso il nonno e il suo impegno.
Mentre crescevo mia figlia e lavoravo in questa azienda mi sono iscritta all’Università di Firenze, Scienze dell’Educazione e Formazione, qualche esame mi è stato equiparato, altri sono stati superati con successo, più di metà degli esami superati in Romania sono andati persi e ho iniziato la tesi, in psicologia sociale. Vincenzo non è stato facile trovare un professore che accettasse a novembre una studentessa che voleva laurearsi a marzo dell’anno dopo. Ma ero determinata e ho trovato chi ha creduto in me e nella mia serietà.
A fine della presentazione della tesi, quando hanno pronunciato il voto finale, non sapevo il significato. Sapevo solo di aver scritto tutto quello che sentivo mio sul tema ed ero felice per i libri letti, per le persone che ho incontrato all’università, per avercela fatta.
Ho capito che c’era qualcosa di fantastico dalla reazione di chi aveva assistito alla mia presentazione: “110 e Lode dottoressa Chiru”, aveva detto il presidente della commissione, “ci siamo innamorati della sua tesi.”
In ufficio mi hanno festeggiata appena arrivata, mi hanno abbracciata e, qualche giorno dopo, sono stata convocata per essere trasferita da lì a pochi mesi in una nuova società, partner di quella precedente, che aveva aperto da poco gli uffici a Firenze.
Tra le mie mansioni: gestire insieme a un team di 4 persone le partenze internazionali dei passeggeri dal check-in all’imbarco, dalle lamentele alle soluzioni. In più curavo i rapporti con le autorità, questura, dogane e via discorrendo.
In questo periodo mi hanno dato anche un soprannome, “la fata rumena”, giocando sul fatto che “fata” in rumeno significa “ragazza”.
Ricordo che un giorno si presenta una signora che aveva bisogno di orientarsi a Firenze, era arrivata da poco in Italia. Non so da chi l’avesse saputo che nel nostro ufficio, che aveva un lato aperto al pubblico, c’era una persona che parlava rumeno. Le uniche parole che diceva erano “fata rumena”. I colleghi mi hanno contattata e al mio arrivo, dopo averla ascoltata e consigliata sulla gestione dei documenti le ho spiegato cosa significava fata in italiano per giustificare i sorrisi dei miei colleghi. Nonostante ciò, ogni volta che capitava dalle nostre parti passava a salutarmi chiedendo comunque di “Daniela, la fata rumena”.
Questa parte della mia vita lavorativa mi ha fatto conoscere persone di culture diverse e mi piaceva accogliere e aiutare tutti ad imbarcarsi per le vacanze desiderate o a tornare a casa. C’è qualcosa nella frenesia delle partenze che ti viene trasmesso, forse in quel periodo mi sentivo ancora una turista capitata per caso a Firenze.
C’era comunque tanto impegno da parte del team nella gestione delle partenze, soprattutto durante i flussi estivi e natalizi, quando i numeri erano di molto superiori alle nostre forze. Ricordo con affetto la gentilezza dei colleghi, la grinta, la collaborazione, gli scambi della serie “sono americani, vieni tu, io mi prendo i francesi”, il tutto in base alla lingua che parlavamo meglio.
È stato il mio primo e vero approccio con il mondo del lavoro in Italia: la serietà degli orari da rispettare, la gestione dei budget, i reclami front office e back office. Eh, sì, ne capitano tante, come per esempio la cliente che mi ha detto “non parlo con lei che è straniera, voglio un responsabile” e quando le ho risposto “sono io la responsabile” ha ribadito “voglio un responsabile italiano, vede che non capisce la mia lingua?”. Il tutto perché le regole che dovevo applicare non le stavano bene anche se erano scritte a chiare lettere sul titolo di viaggio che teneva in mano.
In ogni caso anche quell’esperienza mi è servita, ho continuato a leggere e a perfezionare il mio italiano, perché anche quello ho percepito dai suoi commenti, che dovevo migliorare. Ho visto e conosciuto tante persone, ho imparato dai colleghi, ho insegnato ai nuovi arrivati, abbiamo costruito la cultura aziendale tutti insieme. Eravamo un gruppo davvero giovane e affiatato, con parte di loro sono ancora in contatto, perché come sai il lavoro è anche amicizia.

Il lavoro come integrazione
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Vedi Vincenzo, per me il lavoro è stato anche un ponte verso l’integrazione: senza le tue radici, senza parenti se non quelli acquisiti, senza amici o colleghi di scuola, di università, sei sola, ti devi reinventare, dipende tutto da te. Devi parlare benissimo la nuova lingua per poter comunicare, ogni giorno di lavoro è una lezione, arrivano nuove parole o le stesse con altri significati, devi osservare le persone, i loro modi di fare e di pensare. Non sarai integrato, accettato se non sei tu a fare il primo passo e altri cento dopo il primo.
Sul lavoro trovi amici, ti senti di appartenere ad un gruppo, di essere importante, il tuo lavoro conta e si intreccia con quello degli altri. Se fai bene il tuo, gli altri continueranno questa catena di valore.

Lavoro si cambia
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Con il 2007 ho cambiato nuovamente lavoro, c’erano segnali evidenti di crisi nel trasporto e io ho superato la selezione per diventare l’assistente personale dei proprietari di un’azienda. Tra le mie mansioni: facilitare i processi organizzativi e le relazioni con i dipendenti, la ricerca e selezione, la valutazione delle prestazioni e lo sviluppo organizzativo, il consolidamento dei rapporti con la rete di distributori internazionali. Si sono fidati di me, curare le relazioni e la comunicazione è una responsabilità quanto una passione.
Approfitto per dirti che sono convinta che le persone che vedi anche una sola volta per un colloquio conoscitivo si ricordano come le hai fatte sentire, anche se non sono state scelte. A me non piace dare brutte notizie, ma un feedback costruttivo dato a chi non è stato scelto vale quanto il sorriso di chi lo è stato. Forse perché mi concentro sulle persone con un doppio approccio, da responsabile delle risorse umane e da consulente di carriera alla ricerca del potenziale inespresso. O forse perché cerco sempre la persona dietro al ruolo.
La nuova azienda è un ambiente multiculturale dove lavorare con intelligenza sociale ed emotiva è un must, dove l’ascolto e la flessibilità sono la chiave della produttività e della collaborazione. La parte che mi affascina di più sono i modi diversi di comunicare, mi riferisco alle preferenze che contraddistinguono le varie culture. Ho studiato lo stile comunicativo della collega cinese, del distributore svedese, del team tedesco o russo. Oltre il tocco personale, ognuno di loro gestisce diversamente le informazioni, i canali e persino le parole. C’è tanta ricchezza e tanto valore nella multiculturalità.
Mi piace ribadirlo, il lavoro non è solo lavoro, è anche amicizia, scambio di esperienze di vita e di culture.
Nel 2011 in ufficio il mio ruolo diventa HR Specialist, iniziando a gestire e valorizzare principalmente il capitale umano nell’azienda, che poi è la cosa che più mi piace del mio lavoro.
Un giorno mentre realizzo il bilancio di competenze di una mia collega, decido di voler capire come leggere le buste paga (lei lo sapeva fare). Aggiornarmi e imparare nuove cose è parte del mio lavoro, non da HR, in generale. Il miglioramento continuo è uno stile di vita per me.

Imparo, dunque sono
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È stato così che per capire le buste paga ho fatto prima un corso serale molto breve, dove ho conosciuto altre persone, altri amici, dopo di che mi sono iscritta ad un corso più completo, sempre la sera. Mi succede così, ci prendo gusto e non mollo finché non ho finito, a meno che, per strada non mi capiti una scoperta interessante. A quel punto cambio la direzione del cammino: dove mi porta la passione, la curiosità, io vado. In ogni caso in azienda ci affidiamo ad un consulente, non gestisco io l’amministrazione, però ora posso spiegare ai dipendenti le varie voci.
Nel 2016 ho sentito la necessità di aggiornarmi e di approfondire argomenti di people management, di diritto del lavoro e così mi sono iscritta all’Master in HR Management di QFORMA, la divisione for manager di QUEC.
Ho continuato la mia formazione seguendo una mia passione, lo sviluppo delle neuroscienze, certificandomi come Emergenetics Associate per la parte ESP perché cercavo uno strumento per valorizzare le differenze cognitive e comportamentali.
L’approccio Emergenetics mi è piaciuto molto, i loro Meeting of the Minds sono stati un’esperienza che ha arricchito la mia professionalità.
Ho iniziato le prime consulenze di carriera via Skype, facendo bilanci di competenze, orientamento, consigliando interventi formativi (anche ai manager) perché io credo molto nella formazione continua come scelta consapevole, non come obbligo per sopravvivere nel mondo del lavoro.
Nella prima metà del 2018 ho iniziato un corso per certificarmi come esperta di valutazione delle competenze e degli apprendimenti ovunque acquisiti. Fino a dicembre del 2018, quando ho sostenuto l’esame, passavo i fine settimana in aula: o da studente, per il mio corso, o da docente, per varie agenzie formative.

Lavorare e giocare
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Un giorno, mentre leggevo dei post su LinkedIn e facevo networking, ho iniziato a seguire una persona che mi ha incuriosito molto. Mi capita spesso e la prima cosa che faccio è quella di leggere il curriculum presente sul profilo per capire cosa ha studiato di diverso da me e cosa dovrei studiare per fare le cose che sta facendo lui o lei. Ho notato i suoi articoli, qualche progetto, mi sono messa in contatto e ho iniziato a leggere su altri siti di questa metodologia: lavorare e giocare, modelli di business, simulazioni sugli imprevisti futuri.
Ho cercato un workshop per vedere, per provare. Il mio primo workshop da partecipante è stato vissuto con l’occhio dell’osservatore, non mi sono goduta il momento, non so come spiegarlo. Ero troppo attenta a prendere appunti, a osservare e analizzare il facilitatore, a capire il potenziale del metodo. Sono uscita dall’aula pensando già a chi e come sarebbe stato utile, come avrei potuto unire le mie competenze da HR poco convenzionale, sempre aperta all’innovazione e allo studio di organizzazioni smart, sempre a conciliare le regole con la libertà e la creatività, a questo metodo.

Lego® Serious Play®
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Prima di iniziare questa parte della storia ti voglio dire che io guardo sempre al risultato in termini di supporto e di benessere per le persone, che non è facile vendermi qualcosa o convincermi se non vedo oltre il metodo il beneficio per le aziende, per le organizzazioni, e che non scelgo cose che vanno di moda, ma le cose in qui credo.
Con Lego® Serious Play® ho in mano dei mattoncini colorati, una metodologia e le mie competenze. Perché senza valide competenze ed esperienze professionali la metodologia resta solo un bellissimo strumento. Ed è altrettanto importante accertarsi che si tratti di un facilitatore certificato, che ha studiato la metodologia con impegno come me, altrimenti stai solo giocando con i Lego.
Ti metto di seguito i 4 passi che sono necessari per entrare dentro il processo:

Passo 1: Porre la domanda
Ai partecipanti viene chiesto di costruire e creare delle storie in risposta a una domanda.
La domanda (la sfida) deve essere chiara ma aperta ad una pluralità di risposte.
Esempi:
Qual è la vostra visione per questo progetto?
Che vantaggi può trarre il vostro team lavorando meglio insieme?
Le domande innescano uno specifico stato mentale nei partecipanti e li aiutano a utilizzare l’inconscio quando costruiscono (nella fase successiva).

Passo 2: Costruire
Individualmente o in gruppi i partecipanti costruiscono il loro modello 3D in risposta alla domanda che è stata posta. La fase di costruzione riguarda sia la costruzione fisica con i mattoncini Lego sia la costruzione interna/mentale del significato del modello.
I partecipanti lavorano con una serie speciale di mattoncini Lego progettata per ispirare l’uso di metafore e la creazione di storie.
È essenziale nel metodo Lego® Serious Play® non passare dalla formulazione della domanda direttamente alla condivisione. Se la risposta a una domanda è talmente ovvia o facile, che non è necessario esplorare e costruire nuovi significati, allora si tratta di una domanda non appropriata per un workshop Lego® Serious Play®.

Passo 3: Condividere
In caso di costruzione condivisa, il gruppo condivide la storia in maniera collettiva o tramite uno o più volontari.
Quando i partecipanti raccontano le loro storie, la loro mente fa ancora altri collegamenti, usare i mattoncini agisce come catalizzatore per la mente.
Il risultato è che le storie contengono più conoscenza e idee di quanto le persone non fossero consapevoli prima della fase di costruzione.
L’uso delle metafore e dell’immaginazione e la creazione di storie sono parte integrante del processo, inoltre la creazione di storie in sé aggiunge significato e contesto.
Tieni presente che tutti partecipano alle fasi 2 e 3 in ogni momento e per tutto il tempo.

Passo 4: Riflettere
Il facilitatore e i partecipanti cristallizzano le loro idee chiave e fanno domande chiarificatrici ed esplorative sui modelli.
Il facilitatore può evidenziare sorprese, idee e collegamenti.

Come ti accennavo vorrei portare Lego® Serious Play® al cuore di tantissime persone, delle organizzazioni, delle aziende, realizzare workshop e progetti formativi con cura sartoriale, analizzare il contesto, facilitare la condivisione degli obiettivi, dei valori aziendali e personali, portare consapevolezza e benessere.

Passo dai sogni ai progetti: il mio primo progetto con Lego® Serious Play®, dedicato alle persone alla ricerca dell’identità personale e professionale, di empowerment (femminile ma non solo) mi porta in tutta l’Italia; il secondo, dedicato alle aziende che vogliono leggere e interpretare la propria complessità, prendere decisioni efficaci, innovare i processi e co-creare benessere partendo dalle persone, dal team, si sta concretizzando tra Milano, Bologna, Genova e Alessandria.
Tramite dei format che disegno su misura offro la possibilità di innovare il processo di selezione, la progettazione di un assessment di selezione o di valutazione, la comunicazione interna per veicolare decisioni e creare una community aziendale coesa e la gestione del team, delle risorse umane. Nelle aziende ci sono adesso più di una generazione con valori, esperienze e conoscenze diverse che dobbiamo armonizzare e valorizzare. Mi piace facilitare lo scambio di esperienze ed insegnamenti tra le varie generazioni, condividere il sapere, sarebbe uno spreco non farlo, ogni persona è importante, ogni persona può contribuire.
Un altro aspetto essenziale è la mappatura delle competenze che eseguo per capire il valore del capitale umano presente in azienda, valutare e valorizzare il potenziale inespresso delle persone è essenziale per le aziende e per le persone stesse. Sembrerà strano ma non tutte le aziende hanno un bilancio aggiornato delle competenze sviluppate dalle persone che vi lavorano all’interno. E se non sai che tesoro hai all’interno, come fai a valorizzarlo, ad innovare e resistere alle turbolenze nel mondo del business? Vedi Vincenzo, partiamo dalle competenze verso le persone e arriviamo subito alla cultura, alla facilitazione dell’auto-formazione.
Mi diverto a progettare degli interventi formativi fuori dalle righe con effetti positivi sugli apprendimenti e sulla produttività, trasmettere valori, mettere in gioco l’intelligenza collettiva.

L’approccio Lego® Serious Play® fonda la sua reputazione sull’idea che gli adulti possano recuperare la loro abilità di giocare, possano rispolverare quelle modalità di pensiero concreto, rimetterle in funzione di nuovo generando, così facendo, grandi benefici. Un’azienda o una società è molto più di un edificio e delle stesse persone da esso contenute, è una vasta rete di connessioni e relazioni complicate su molti livelli differenti.
Rappresentare relazioni così astratte su carta tramite grafici, diagrammi di flusso, diagrammi a blocchi, spesso non riesce a catturare la natura dinamica dell’azienda. Anche se i modelli digitali e le simulazioni costituiscono un passo avanti rispetto ai modelli statici, anche essi sono limitati. Spesso è molto difficile comprendere la totalità delle interrelazioni complesse.
Il metodo Lego® Serious Play® è un tentativo coraggioso di appropriarsi del potere del costruzionismo e applicarlo alla complessità del mondo del business, rendendo così concreta, accessibile e comprensibile la rete astratta di interrelazioni che formano qualsiasi azienda.
Secondo la mia esperienza, quando viene costruito tale modello di azienda – non degli edifici, ma dell’azienda in senso sistemico- le persone vedono cose che non riuscivano a vedere prima. Possono guardare un modello metaforico 3D della loro azienda e dello scenario di riferimento e visualizzare strategie che prima erano opache e inaccessibili. Riescono a vedere la loro azienda in una maniera più olistica. Possono manipolarla,
giocare con essa, e farsi domande del tipo: Cosa accadrebbe se…?; E se il nostro cliente più importante fallisse?; il tutto manipolando fisicamente il loro modello di business.
Far giocare i manager e i dipendenti con la loro azienda può sembrare una deviazione radicale rispetto alle preoccupazioni serie del consiglio di amministrazione. Tuttavia, giocare non è una mera occupazione per il tempo libero, bensì un’attività seria che può liberare energie creative molto necessarie nel mondo del business oggi.
Come ti dicevo, il pensiero analitico, logico e chiaro, incontra sempre il mio lato concettuale, visionario e intuitivo. E poi tutte le cose nuove (metodologie o tools) sembrano folli così come diventano meravigliose dopo che sono state realizzate e validate dalla comunità.
Ad oggi sto lavorando non solo con le aziende, ma anche con agenzie formative che organizzano Master MBA e HR Executive.
Andrei ovunque per lavoro, per incontrare nuove realtà, nuove persone, vado dove c’è bisogno. Qualcuno mi chiede di dove sei – nel senso di dove lavori, in che area – ho sempre risposto “tu di dove sei perché io mi sposto, ti raggiungo”.

Sai, una parte del workshop Lego® Serious Play®, include la storia del modello costruito dalle persone. Non c’è workshop senza occhi lucidi o lacrime, le emozioni che nascondiamo si trovano appoggiate sul modello. Le persone riscoprono loro stesse, la motivazione, i sogni, la forza, la creatività.
Dopo settimane mi telefonano per dirmi che hanno agito, hanno realizzato o stanno realizzando a piccoli passi dei cambiamenti, sento il loro entusiasmo. Qualcuno torna ai workshop successivi, perché non ne faccio mai due uguali.
Dopo i workshop sulla risoluzione dei conflitti e/o i workshop sulla diversità generazionale in azienda vedere le persone sorridere o abbracciarsi mi fa sentire appagata.
Tutto questo mi porta a dirti un’altra cosa che mi rappresenta molto, un invito che vorrei fare arrivare a chi ci legge, riguarda i social e il modo in cui li usiamo.
Sembra che attraverso i social ci teniamo tutti in contatto, sembra che conosciamo la vita di tutti: che mangi, con chi sei, che scarpe porti. Sì, sembra, perché in realtà solo stringendo qualche mano e guardandosi negli occhi riesci a crescere, a formarti, a migliorarti.
Uscire di casa e fare parte di una community, come Fiordirisorse per esempio, di un gruppo significa mettere in dubbio te stesso, significa scoprire che hai gli stessi dolori degli altri, che combatti gli stessi demoni. Quello che intendo dire insomma è che il networking di qualità mi aiuta a camminare nelle scarpe degli altri e vedere il mondo con i loro occhi, mi fa cambiare idea, mi da degli input su cosa studiare, su come continuare a crescere.

Un altro po’ di me, delle cose che amo e di quelle che faccio
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Caro Vincenzo questo è invece un altro po’ di me, un po’ delle cose che amo e di quelle che faccio. Comincio dicendo che ho un profilo psicologico con preferenza cognitiva concettuale e analitica nella stessa percentuale il che significa: razionale, mi affido ai dati e alla logica nella stessa misura nella quale apprendo sperimentando, sono attratta dall’inusuale e uso l’intuito e l’immaginazione. Di solito si tende da una parte o dall’altra.
Dopo di che aggiungo che naturalmente non sono solo Lego® Serious Play®, ma anche HR Specialist Learning & People Development, social recruiter, consulente di carriera, facilitatore certificato LSP, esperto certificato in valutazione delle competenze e degli apprendimenti iscritta all’albo, certificata Emergenetics per ESP, docente certificato nell’utilizzo di metodologie e tool innovativi, certificata AICA per combattere il bullismo.
Nelle consulenze di carriera che faccio via skype inizio dalla persona verso la professione, da chi sei verso chi potresti diventare, inizio dal valore – il bilancio delle competenze – al perché personale, alle leve motivazionali per poi facilitare un processo di orientamento verso obiettivi raggiungibili e misurabili. E non mancano i suggerimenti sulla formazione continua, senza la quale una consulenza di carriera non avrebbe senso.
Al momento seguo un imprenditore, precedentemente ho seguito dei freelance e lavoratori dipendenti con vari livelli di responsabilità. È la prima volta che sento non solo il peso della responsabilità di una persona – perché entri nella vita degli altri quando parli di lavoro – ma anche dei suoi dipendenti, del futuro di questa azienda.

Ancora. Le poesie, l’arte, la musica, il teatro e l’opera sono il mio nutrimento, sempre affamata, sempre felice di assistere a qualche rappresentazione.
Ecco una poesia di Lucian Blaga, uno dei miei autori preferiti.
Io non distruggo la corolla dei miracoli (prodigi) del mondo, in rumeno Eu nu strivesc corola de minuni a lumii.

“Non distruggo la corolla dei prodigi del mondo, e non stermino con la ragione gli enigmi che incontro sul mio cammino, nei fiori, negli occhi, sulle labbra o nei sepolcri.
La luce altrui soffoca il fascino celato nelle profondità del buio, però io, io con la mia luce ingrandisco il mistero del mondo.
Esattamente come con i suoi bianchi raggi la luna non rende più piccolo, ma tremolante,
e aumenta ancora di più il mistero della notte, così io arricchisco anche l’oscuro orizzonte con gli alti fiori del santo mistero e tutto ciò che è inintelligibile si trasforma in maggiormente incomprensibile sotto i miei occhi, perché io amo fiori e occhi e labbra e sepolcri”.

Il pittore che più mi ricorda il paesino dei miei nonni paterni è Nicolae Grigorescu, in particolare “Car cu boi”, Carro con buoi.
Alla voce scultura, raffinatezza intellettuale e purezza, segnalo Constantin Brancusi e “La colonna verso l’infinito”, mentre alla voce musica mi piacciono tantissimo tutti i generi e quindi mi limito a fare qualche nome, Tchaikovsky, Schubert, Verdi, Dire Straits, Creedence Clearwater Revival, Elis Regina & Tom Jobim.

Mi piacciono i dolci con cioccolato fondente, non amo il pan di spagna o le torte alte, meglio basse e con cuore morbido di cioccolato.
Amo le spezie, i profumi e i sapori, poi i frutti di mare, le ciliegie, le arance, il pistacchio.

Durante le vacanze è pressoché impossibile trovarmi sdraiata a prendere il sole, mi piace di più parlare con le persone, visitare piccole chiese e musei, arrampicarmi su per qualche montagna.

Credo nel buono delle persone, sono atea ma rimpiango di non aver studiato religione a scuola per colpa della dittatura perché tantissime opere d’arte sono legate alla Bibbia.

Sono mamma di Adele, che ha 18 anni, e mi mancano gli amici d’infanzia.
Studio lean thinking, holocracy, modelli di business e mi vergogno se sbaglio un congiuntivo o pronuncio male una parola.
Mi piacerebbe avere tempo di ripassare il russo, senza utilizzarlo ho perso molto, e di approfondire lo spagnolo.

I sogni nel cassetto
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Il mio cassetto dei sogni è sempre aperto e disposto ad accogliere, ma ci tengo in particolare a due cose:
la prima è combattere il cyberbullismo, l’aggressività nei confronti delle donne o delle persone deboli; la seconda è incontrare i caregivers, coloro che sono di sostegno alle persone malate o in difficoltà, che svolgono un lavoro impegnativo dedicandosi agli altri, so da esperienza personale quanto sia forte una missione così delicata e quanto bisogno c’è di condividerla, di confrontarsi, di sentirsi ascoltati.
Ecco Vincenzo, questo è il mio cammino, una grande parte della mia vita, nelle tue mani. È iniziato con una valigia di competenze e continua con una valigia di colori e competenze, non mi considero mai arrivata perché in viaggio puoi arrivare sempre in posti che non immaginavi, che non hai programmato, puoi sperimentare, conoscere persone e realtà da esplorare.
Se i Lego hanno mille incastri possibili, se le costruzioni con gli stessi pezzi e lo stesso compito (“costruisci una torre”) non sono mai uguali così il nostro cervello, le possibilità che abbiamo sono illimitate. È uno spreco fermarsi. La mia paura più grande è il potenziale inespresso, non è uscire dalla zona di confort, ma è proprio tornarci, allargarla e ricostruirla. Per me bisogna stare lì dove ci sono i tuoi sogni, le tue passioni, il tuo tesoro fatto di idee creative e di talenti che talvolta non sai di avere.
Tu non sai che piacere rincorrerti a Nobilita – sono arrivata, ho chiesto di te e ti ho intravisto mentre giravi l’angolo verso la stanza degli speaker, sono effettivamente corsa perché avevo paura di perderti – per chiacchierare. Non sapevo se avessi avuto tempo per me, ti sono tanto grata. Il tempo è un regalo prezioso, perciò grazie per il tuo tempo, per l’ascolto, per i consigli.

I link
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Nicolae Grigorescu – Carro con buoi
Come vestivano nel paesino della nonna paterna quando c’era qualche festa paesana, dipinto sempre di Grigorescu
Constantin Brancusi, La colonna verso l’infinito
Lucian Blaga, autore della poesia Io non distruggo la corolla dei miracoli
Nichita Stanescu, nato nella mia città
Biblioteca Regionale Nicolae Iorga
Palazzo della cultura, inizialmente Tribunale, dal 1951 è diventato centro culturale della Regione Prahova (Ploiesti, la mia città, è capoluogo della regione Prahova). All’interno: la Biblioteca, una Scuola d’arte, Museo di Storia ed Etnografia, ampi corridoi dove vengono allestite delle mostre di arte contemporanea.
Interni del Palazzo della Cultura
Museo d’arte con interni
La Filarmonica con la sala piccola ma tanto curata come acustica.

Gli acronimi
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HR – Human Resources
MBA – Master in Business Administration
QFORMA – QUEC For Manager
QUEC – Quality Evolution Consulting
QUEC Srl – Agenzia formativa che ha la divisione di formazione manageriale QFORMA
Caregiver è infine il termine utilizzato da Daniela Chiru per dire che sta lavorando a un progetto sull’empatia e la gestione delle emozioni per il personale sanitario, per i genitori con figli ricoverati in grave condizioni, per malattie oncologiche o degenerative, per chi accoglie il dolore altrui e deve essere di supporto.

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Caro Diario, come promesso rieccomi per dirti perché ho deciso di raccontarti una storia così lunga, lo faccio per punti, cercando di usare solo le parole necessarie:
1. perché la storia di Daniela è molto bella, lo è per le cose che sono raccontate e per il modo in cui sono raccontate. È vero, tu leggi e ti sembra che tutto o quasi fili via liscio, ma per l’appunto sembra, perché nella vita vera le cose sono fatte di legno storto, piene di fatica e a volte di dolore, è il nostro modo di affrontarle che può fare la differenza. Aggiungo solo una cosa per darti un’idea di come funziona Daniela, quando le ho scritto che avrei aggiunto queste righe al suo racconto mi ha risposto “Vincenzo, dai un tono di voce positivo, c’è già tanta tristezza al mondo e la mia, tutto sommato, è una vita felice. Costruita con fatica ma positiva”. Ecco, io con tutta la mia passione per il bicchiere mezzo pieno, anche solo con la metà dei problemi sociali e personali che ha dovuto affrontare lei una cosa così avrei fatto fatica a scriverla;
2. perché la storia di Daniela  rompe molti luoghi comuni, sulle donne, sull’importanza e sul valore della diversità, sulla possibilità di disegnarsi destini diversi da quelli ai quali in certi momenti ci sentiamo condannati. Ci vuole tanta fatica e anche un pizzico di fortuna, ma si può fare;
3. perché la storia di Daniela dimostra che anche al tempo di internet sono la profondità, il sapere, le competenze a fare la differenza, e anche questo suggerisce qualcosa di importante. Lo suggerisce a ciascuna/o di noi e lo suggerisce alle istituzioni, alle comunità, alle organizzazioni,  ai corpi sociali intermedi. Perché per essere davvero abilitante, per dare a un numero sempre maggiore di donne e di uomini più possibilità non si può fare a meno della profondità, del sapere, delle competenza, di quello che Marx nel “Frammento sulle macchine” definisce general intellect;
4. perché come dice il mio amico Luca De Biase noi non siamo i nostri like, e non siamo i nostri soldi aggiungo io. Siamo piuttosto il nostro tempo, le nostre storie e le nostre relazioni, siamo le persone che ci vogliono e a cui vogliamo bene, le persone come Daniela Chiru, che sono davvero felice si sia raccontata qui.

Daniela a Lavoradio
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Caro Diario, a fine Maggio Daniela si è incontrata con Vito Verrastro ed è venuta fuori un’intervista per Lavoradio intitolata Il Lego Serious Play come strumento per allenare creatività e soft skills.
Come puoi immaginare non me la potevo far sfuggire, perciò buon ascolto.

 

Daniela a Impact Hub Firenze
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Caro Diario, quella del 13 Giugno a Impact Hub è stata una giornata particolare, e Daniela ha avuto un ruolo davvero fondamentale nella sua riuscita. Leggi, e poi vedi se non mi dai ragione.