Vito, Lavoradio e la voglia di libertà

Caro Diario,
Vito Verrastro l’ho conosciuto a inizio Settembre 2016 a Potenza, raccontando storie di startup, di lavoro e di futuro,  come ho scritto qui. Poi l’ho rivisto a metà Dicembre, e abbiamo avuto più tempo per conoscerci e chiacchierare, e mi è piaciuto ancora di più, però ti giuro che di raccontarlo non mi era proprio venuto in mente. È successo ieri, per una cosa che ha scritto in una chat che condividiamo con altri amici, e così gli ho inviato delle domande che poi come faccio sempre lavorando sulle risposte avrei scritto il mio racconto. Questa volta no, questa volta mi sono divertito a costruire un’intervista, sarà perché lui è giornalista e io no, non lo so, ma mi è venuto così, spero di non averla rovinata, perché la storia di Vito è bella assai.
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Vito, facciamo come diceva mio padre, cominciamo dal principio: chi sei, che cosa ti piace e che cosa invece no.
«Mi autodefinisco un inquieto seriale, sempre in cerca di nuove sfide professionali. Ancora adesso, alla soglia dei miei primi 50 anni. 
Sono figlio di due maestri di scuola elementare dai quali ho avuto radici e ali. Sono nato sulla punta dello Stivale, in Calabria, a Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria (mia madre è di lì): dove finisce l’Europa Continentale inizio io. Nasco sul mare e mi trasferisco dopo un anno a Potenza, dove in precedenza mia madre aveva vinto un concorso e conosciuto mio padre, originario di Avigliano, un piccolo paese del Potentino. Amo dire che porto dentro di me gli orizzonti ampi e le profondità del mare e la dura salita che una città verticale e di montagna impone. Sono due componenti che formano buona parte del mio carattere, insieme alla caparbietà (che nel tempo mi è servita, manifestandosi sotto forma di resilienza) e alla voglia di libertà e di nuovi limiti da spostare in avanti. Da piccolo, però, ero introverso e un po’ musone. Poca voglia di parlare e una timidezza che ho ancora oggi. Ma i miei mai avrebbero immaginato che potessi diventare un comunicatore, capace magari di tenere un palco di fronte a migliaia di persone. È stata una sfida continua con me stesso, per vincere la timidezza e affrontare il microfono, il registratore, la telecamera, il palco, le conferenze stampa.
Oggi di me direi che ho una trasversalità di fondo che vivo a volte come una condanna – perché rischia di farmi restare in superficie – e a volte come un premio, perché mi consente di esplorare situazioni che sono fuori dalla mia zona di comfort e dal mio raggio di azione ordinario. Per anni ho lavorato a ritmi talmente alti, dal punto di vista operativo, che sognavo di potermi fermare a leggere almeno un libro. Da qualche anno a questa parte il lavoro su me stesso mi ha portato a cambiare ritmi, abitudini e ad attenuare l’operatività, puntando sulla qualità. Oggi leggo moltissimi libri, ascolto musica, riesco a ritagliare tempo per la famiglia e per me, l’anno scorso mi sono iscritto in palestra per la prima volta e la frequento. Certo,  ho la fortuna di poter contare su una persona speciale come mia moglie, una donna preziosa che ha fatto molte rinunce per la famiglia e ha mille passioni – fotografia, decoupage, pittura – con doti organizzative fuori dal comune. Farebbe la fortuna di qualunque organizzazione per com’è precisa e meticolosa.
Tra le cose che amo di più ci sono i viaggi, quelli per lavoro e quelli per piacere. In realtà ogni volta che posso viaggio con la famiglia. Mia moglie Giuliana dice sempre che un vestito resta nell’armadio, un viaggio resta nell’anima e anche i nostri figli anche da piccoli erano più contenti di viaggiare che di avere regali. Poi ci sono le letture: storie, autobiografie, racconti, e a livello professionale il personal branding, lo storytelling e tutto ciò che è comunicazione e marketing. Tra le cose che proprio non sopporto  ci sono l’arroganza, la prepotenza, la maleducazione, il vittimismo, i comportamenti negativi, le resistenze al cambiamento.»

Come hai cominciato?
«Ho scoperto una predisposizione per la scrittura giornalistica alle superiori, durante l’ora di dattilografia, ed è stata una folgorazione. Scrivere mi dava piacere, sperimentavo su me stesso qualcosa che avrebbe segnato il mio futuro. A un certo punto propongo un mio pezzo a un giornalista di lungo corso che lavorava in Rai Basilicata e lui mi recluta per far parte della redazione di un settimanale locale. Compenso zero, ma c’è la possibilità di avviare i due anni di pratica per diventare pubblicista. È l’inizio di una serie di collaborazioni che prosegue negli anni con testate cartacee, radio, tv locali. Mi occupo di cronaca e soprattutto di sport, la mia prima passione. Nel frattempo studio e mi laureo in Lingue e Letterature Straniere moderne. Quella del giornalismo è ancora soprattuto una passione, anche se arrivano i primi compensi retribuiti. Nel frattempo faccio altri lavori come il commesso in una libreria, per pagarmi le vacanze.»

Com’è che hai deciso di fare il freelance?
«In un modo che non ti aspetti. Dal 1992 al 1994 mi assumono in una tv regionale, con contratto full time, ma nel ’95 la redazione di Potenza salta e mi ritrovo a dover ricominciare tutto daccapo. È la svolta (positiva) della mia vita. Lì giuro a me stesso che non metterò mai più la mia vita nelle mani di un solo editore, che al timone ci resterò io. È il primo step per la mia carriera da freelance, che non è solo uno status ma anche un modo di pensare e di vivere. Senza certezze, ma con un bel libro bianco davanti e la possibilità di scriverne tutte le pagine, dalla prima all’ultima.»

L’altra volta che ci siamo visti mi hai accennato che è stato importante l’incontro con Radio Dimensione Suono.
«Più che importante, direi magico. Succede quasi casualmente, mentre occupo i mesi senza lavoro con una collaborazione a un’agenzia di assicurazioni; giuro, non saprei vendere nulla, ma mi serve per studiare la psicologia del cliente, la modalità di vendita dell’agente, le trattative, i pregi e difetti di quella difficilissima missione che è propria del venditore. È il 1995 e a un mega concerto di RDS – Radio Dimensione Suono da semplice spettatore riesco ad imbucarmi nel backstage, della serie a volte osare, pensare e agire “out of the box”, premia. Quella sera stessa mi presento a Franco Scarsella l’allora direttore di redazione, due mesi dopo registro un provino, la cosa piace, il direttore in persona mi richiama per dirmi che potevo iniziare una collaborazione. Da aprile ’96 al 1997 faccio il corrispondente dalla Basilicata, e nel frattempo avvio una collaborazione anche con una TV di Potenza. Nel 1998, l’anno del mio matrimonio con Giuliana, a Scarsella subentra Teo Bellìa, uno dei miei miti “vocali” di sempre, e lui mi valorizza promuovendomi a inviato, ruolo che ricopro fino al 1999, quando un cambio al vertice sancisce un netto cambiamento di rotta: l’editore intende puntare più sulla musica e meno sulle news, e così si interrompe una palestra di 4 anni in cui ho lavorato senza sosta, con reperibilità H24, servizi e dirette, speciali e reportage, sempre in trincea. Un’esperienza straordinaria, che porterò sempre nel mio bagaglio professionale come qualcosa di unico. 
Sempre in quegli anni mi propongo a una emittente satellitare, INN, il primo canale all news della piattaforma Stream (gli antesignani di Sky Tg 24) e per due anni coordino una redazione locale che realizza video reportage e speciali dal territorio. Poi arriva la fusione tra Stream e D+, e con Sky si rimescolano le carte. Ma anche quella è stata un’esperienza fantastica. Nel 1999 arriva Antonio, il mio primo figlio, una delle gioie più grandi della mia vita.»

Vito, insomma sei diventato sempre più imprenditore di te stesso.
«Proprio così. L’animo da free lance si è consolidato, le collaborazioni locali si susseguono, però le redazioni sono sempre più strette e così scelgo di passare dall’altro lato della barricata: è l’anno 2000 e io avvio un’agenzia di comunicazione e vado a ricoprire la posizione di capo ufficio stampa alla Camera di Commercio di Potenza – entrambe le esperienze ancora in corso-. È l’inizio di un nuovo percorso, fatto di uffici stampa per Enti pubblici e organizzazioni private, in cui mi sperimento anche come formatore, progettista e personal brander, esploro le diverse dimensioni della comunicazione come autore di format radio e tv, realizzo prodotti editoriali e multimediali, partecipo a team di progetti europei, viaggio. Nel frattempo divento giornalista professionista, siamo al 2005, e inizio a collaborare con il gruppo L’Informatore Agrario, raccontando di prodotti agroalimentari e territori del Sud per la rivista “Origine”. Avvio delle consulenze per alcuni Comuni, per cui curo strategie di comunicazione, organizzazione di rassegne estive e progetti culturali.»

Ti sarà capitato anche di dire dei no!
«Certo che si. Nel 2009, nell’ambito di un avviso pubblico per dirigenti alla Regione Basilicata, su 100 domande entro nella triade tra cui dovranno scegliere e tutti mi danno come favorito. Quando capisco che per vincere devo far fare la classica telefonata al politico di turno mi tiro fuori. Non sono uno che accetta compromessi, chi mi vuole deve farlo per le mie capacità e non per le conoscenze o per le solite scorciatoie che hanno dopato il Sud e la forma mentis delle persone. Finisce tutto in una bolla di sapone ma non me ne sono mai pentito. È vero, ho rinunciato ad una comoda situazione economica ma in compenso non ho perso in dignità e in voglia di trasmettere esempi positivi, partendo dai miei comportamenti. Ne ho detto diversi altri di no, continuo a dirne, soprattutto a persone che mi propongono delle collaborazioni ma che non stimo. Per me non è mai soltanto una questione di soldi che pure sono importanti in particolare se fai il freelance, è prima di tutto una questione di libertà. Ecco, direi che è questa l’eredità che vorrei lasciare ai miei figli (nel 2002 è arrivata anche Alice, altro grandissimo regalo della vita) e al mondo che verrà.»

In tutto questo Lavoradio.
«Già. Come sai mi sono sempre nutrito di notizie e storie positive, mi hanno aiutato a guardare la realtà da un punto di vista di ciò che potevo fare per me stesso, senza crearmi alibi di alcun tipo. Nel 2012, stanco di raccontare ai miei due figli che il lavoro di cui parlava la tv era solo una parte della realtà, decido di fare la mia parte per realizzare una contro-narrazione che vada a scoprire chi non si è mai arreso, chi si è rimesso in gioco, chi ha fallito ed è riuscito a rialzarsi. Mi rivolgo ad un amico, Gianluigi Petruccio, editore di Radio Tour, il quale mi mette a disposizione gratuitamente un’ora a settimana lo studio. Tutte le spese che arriveranno me le accollerò io.  Con la collega Angela Di Maggio decido di ideare e sperimentare un format radiofonico di un quarto d’ora che faccia leva sulle good news. Si chiama Lavoradio, crasi tra i due concetti chiave della sfida. Lo riempiamo di storie, testimonianze, consigli: tutti coloro che si avvicinano al progetto, quasi da non crederci, chiedono “cosa posso fare per voi?” e non “Cosa c’è per me?”. È una sfida culturale, una missione sociale: smuovere i giovani e meno giovani dal torpore, dall’immobilismo, dall’attesa, per far passare un nuovo messaggio: occorre essere proattivi, imprenditivi, creativi, per procurarsi qualche chance sul mercato del lavoro che cambia in fretta. Su Lavoradio non ci sono annunci classici di lavoro, ma emerge tutto quello che significa prepararsi alle nuove sfide: studiare, formarsi, informarsi, attingere da case history positivi, utilizzare le leve della resilienza e della creatività, ascoltare ed essere sempre curiosi.
Si, direi che dal 2012 ad oggi raccontiamo il cambiamento, da Nord a Sud Italia, e da quella sfida iniziata da una piccola radio lucana oggi il network si è esteso a 14 radio sul territorio nazionale che trasmettono dal loro palinsesto il nostro format, che va in onda in podcast su soundcloud.com/lavoradio e sui canali social. Ad oggi, abbiamo realizzato oltre 1.000 podcast, che sono frammenti di racconto sul cambiamento utilissimi e disponibili gratuitamente per tutti. Abbiamo partner e una rete di esperti assai prestigiosi e mantiene la nostra missione sociale e culturale, fin qui non abbiamo ancora fatto ricorso a sponsorizzazioni.»

Mi dicevi che fate anche molte iniziative nelle scuole.

«Si. Dal 2013 abbiamo deciso di portare fisicamente la radio nelle aule di scuole e Università, nelle organizzazioni, nei centri di aggregazione giovanile, per mostrare – attraverso racconto di trend e scenari, testimonianze e laboratori – che “ce la si può fare”, ma solo se, come spesso diciamo, si è disposti a sognare e a darsi da fare. Tra talk, eventi, presentazioni di libri, seminari e media partnership, abbiamo realizzato e partecipato a oltre 100 eventi. Quello più importante, il “Jobbing Fest”, in cui abbiamo incontrato in due giorni 700 ragazzi delle ultime classi delle superiori, è entrato in finale al Sodalitas Social Award 2014 come uno dei tre migliori progetti nazionali di inclusione sociale.»

E ancora c’è il tuo libro sulla generazione boomerang.
«Ho sempre avuto uno sguardo curioso e un po’ controcorrente: da alcuni incroci, assolutamente casuali, ho maturato l’idea di andare a scovare e raccontare storie di chi, pur avendo avuto successo all’estero, ha deciso di tornare in Italia per scommettere qui e vivere qui il proprio futuro, da Nord a Sud. È il tema del mio libro, Generazione boomerang, che sto ultimando e con il quale intendo rilanciare il dibattito sui “cervelli di ritorno” e sul ruolo prezioso che possono avere per il nostro Paese.»

Le prossime sfide?
«Ho mille idee, se riuscirò a realizzare anche solo il 10% sarò più che soddisfatto. Di certo nel 2017 avremo molte più news dall’Europa, più scuola e più libri in Lavoradio, che manterrà la fisionomia del magazine settimanale ma farà parte di un progetto molto più ampio che comprende una webradio, un format per le scuole, un’Academy formativa che lavorerà soprattutto in direzione delle soft skills e del digitale, per auto imprenditori.»

Finiamo con la domanda che mi piace di più: cos’è per te il lavoro?

«Guarda Vincenzo, ti rispondo in questo modo: quando mi sono accorto che mi stavano pagando per un qualcosa che avrei fatto io a pagamento, ho capito che avevo trasformato la mia passione in lavoro e che ci avrei potuto vivere; è stata una felicità immensa. Ho lavorato e lavoro tantissimo, ma ci ho anche creduto molto. 
Lo so, le difficoltà sono tante, il futuro dei giovani è denso di nebbia, non c’è una classe dirigente con la visione giusta per portarci fuori dalla crisi, scuola e università hanno bisogno di cambiamenti radicali se non vogliamo restare per sempre al palo, però anche con tutte queste difficoltà ognuno può fare qualcosa. Ognuno può fare qualcosa per migliorare se stesso e procurarsi delle chance, non dobbiamo darci alibi, dobbiamo coltivare resilienza, capacità di lavorare in team, di risolvere problemi, di osservare le cose con sguardo laterale, ottimismo, empatia, intelligenza emotiva. Per me sono sono le leve su cui si può agire per migliorare, e sono tutte cose che si possono imparare. Dire “sono fatto così”, “non posso cambiare”, “ho sempre fatto così” non aiuta. Cambiare è difficile, porta stress, a volte dolore, perché ci astrae dalla zona di comfort, ci sottopone a una grande fatica, ma è necessario. Sta a noi farlo, a ognuno di noi, studiando in continuazione e lavorando su noi stessi giorno dopo giorno. Siamo la migliore cavia su cui testare il cambiamento. Per cogliere le opportunità che ci sono.»



E magari  moltiplicarle.
«
Appunto!»

DUE ANNI DOPO
Caro Diario, in due anni accadono tante cose, nel caso di Vito e del nostro rapporto in senso letterale, così ho pensato di limitare le mie mille domande a una, quella relativa a Generazione Boomerang, al senso e al significato del libro e del viaggio.
Ecco quello che mi ha risposto Vito.

Caro Vincenzo, quando scrivi un libro pensi ad un destinatario: nel mio caso era un giovane, per far comprendere attraverso esempi reali che il futuro non è necessariamente un biglietto di sola andata via dall’Italia, come i protagonisti delle 19 storie dimostrano. Poi, quando presenti il volume al pubblico, capisci che magari il messaggio che passa di più è quello “emotivo” ed è legato al mondo degli adulti: soprattutto quelli che hanno figli o nipoti in giro per l’Europa e per il mondo, e che attraverso quei racconti proiettano la loro voglia di vederli tornare, per averli vicini e far crescere il proprio paese, la propria comunità.
Il tour di presentazione del libro, appena iniziato, mi ha già consentito di capire che a Sud e a Nord alcuni stereotipi sono identici. “Vado via, perchè qui non c’è niente” lo senti dire a Potenza, Matera, Bari, ma anche a Verona e Mantova. E questo è preoccupante, perchè se il paradigma si consolida, l’emorragia di capitale umano aumenterà inevitabilmente.
Io voglio invece continuare a pensare che, se sul versante dei numeri non c’è storia (tra i tanti che partono e i pochi che tornano), sul piano del significato questi “rientranti” possano dire moltissimo, in termini di speranza e di fiducia. La cosa più bella me l’ha detta, sulla strada tra Mantova e Verona, Emanuele Rocco, uno dei protagonisti di Generazione Boomerang. Fisico e maker, dopo meravigliose esperienze in Uk e Usa è tornato a Trento e ora lavora in un fablab che è diventato centro di robotica ed anche Academy per i più giovani: “Quando vai via pensi a quello che non c’è; quando torni guardi a quello che si può migliorare”.
Secondo me è questo lo switch, il cambio del punto di vista che un’esperienza lontano da casa ti fa compiere. Ed è questo il sogno di un futuro in cui le nostre città possano popolarsi di chi va e torna, e di chi viene da altre realtà e contamina positivamente i nostri luoghi. È successo ad un ragazzo londinese che ha conosciuto qualche mese fa una ragazza di Tramutola, piccolo paese della Val d’Agri, in Basilicata. Adesso vivono non lontano da Londra, lei lavora con una municipalità nel settore della cura alle persone. Ma, visitandolo per la prima volta, lui si è innamorato di quel piccolo paesino lucano, e insieme stanno pensando di trasferirsi, un giorno. Non so se questo avverrà, ma la luce che ho visto nei loro occhi me lo fa pensare. È così che la Generazione Boomerang allarga i suoi confini: non solo con i protagonisti del volume, ma anche con quelli che incontriamo in ogni città, e che invitiamo a raccontarsi.
Parliamo con chi resta e non vorrebbe mai andarsene, con chi progetta di andare, con chi è tornato e con chi vuole farlo. E ancora, con mamme, papà, zii e nonni che aspettano un ritorno e te lo sussurrano con gli occhi gonfi di lacrime. È come se il libro avesse sollevato una botola, aperto una breccia, illuminato una nuova traiettoria, regalato un’utopistica via di fiducia nel futuro. Aver spostato i riflettori dalla fuga al ritorno ha regalato d’un tratto calore, speranza. Sarà dura rovesciare i paradigmi, ma è meraviglioso pensare anche per un solo istante di poterlo fare.
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