Il Cinema di Vanina Lappa

Cara Irene, questa storia ha inizio un venerdì mattina di un paio di settimane fa quando Michele Arcangelo Croccia, il secondogenito di Mimma e Michele, mi avvicina al bar insieme a una sua compagna di classe, Maria e mi dice che nell’ambito di un progetto stanno facendo delle interviste e che vorrebbero sentire anche me. Naturalmente non dico di no e ci mettiamo d’accordo per il pomeriggio.
A ora di pranzo, come previsto, arriva Cinzia da Napoli, mangiamo una cosa da Zi Filomena e usciamo per avviccinare l’auto a casa e scaricare i bagagli. Ai piedi dell’Urmo troviamo Michele Arcangelo con una decina di altri ragazzi, e ragazze, e con loro due adulte, Vanina Lappa, regista, e Maria Grazia Tulimeri, la loro prof. di italiano. Veniamo adesso o veniamo dopo, veniamo adesso o veniamo dopo, vengono adesso, mentre Cinzia sorride e mi sussurra “meno male che ho partato i cioccolatini così li offriamo a questi ragazzi”, io comincio a capire che la faccenda è seria e penso “meno male che mi sono appena tagliato i capelli e aggiustato la barba da Mario“. Il tempo di scaricare i bagagli, di sedermi sul gradino fuori casa e sono pronto per rispondere alle domande delle ragazze e dei ragazzi. Alla fine, tra cioccolatini e caffè, un po’ di chiacchiere con Maria Grazia e Vanina, e l’idea di raccontare la nuova amica regista che se ne resta lì.
Per genio e per caso ci ritroviamo il giorno dopo da Jepis, in Bottega. Lui è in giro per una decina di minuti, io sono lì in cerca del prossimo libro da comprare e leggere, Vanina mi dice che ha una chiavetta usb da lasciargli io ne approfitto per dirle della mia idea di raccontarla. Ci parliamo, ci capiamo, procediamo. Le mie domande sono quelle di sempre, il suo racconto è questo che puoi leggere di seguito. Buona lettura.

1. Un po’ di me
Ciò che amo di più penso sia il cinema. Quando andavo alla scuola materna, avrò avuto quattro anni, ritagliavo tutte le immagini dei giornali con gli attori che mi piacevano. Le bidelle dicevano a mia madre che avevo buon gusto, il mio preferito era Kevin Costner. “Balla coi lupi” penso mi abbia segnata. Mia madre non si faceva molti problemi a farmelo vedere, anche se c’erano animali uccisi, sangue, pellerossa torturati, conflitti tra popolazioni, ingiustizie, paesaggi sconfinati, il rapporto ancestrale con la natura, penso siano elementi che cerco nei miei lavori anche oggi. Mi hanno regalato la mia prima telecamera a otto anni, andavo al bar sotto casa a chiedere alle persone se amavano Milano. Erano domande fatte quasi a caso, un pretesto per parlare con gli altri. Filmavo delle scenette con le mie compagne di classe, facevo recitare le babysitter o i genitori, insomma la telecamera era il mio strumento per scontrarmi con il mondo, per guardarlo con curiosità, per sperimentare la vita non per svelare misteri.
Da adolescente adoravo, mi piace tuttora, fare le imitazioni. Ho iniziato studiando i professori; mentre interrogavano su Omero mi piaceva guardare come interloquivano con il malcapitato, come si muovevano o gesticolavano, le intonazioni della loro voce, le pause, un sopracciglio inarcato. Una persona che ho amato molto è stata Corrado Guzzanti, non vedevo l’ora che arrivasse il sabato sera per vedere ‘L’ottavo nano’, e la satira in qualche modo ha fatto parte del mio modo di guardare le cose. Ma a parte imitarlo, il professore di greco e latino mi ha fatto amare Omero, Kafka, Calvino di cui ho adorato Le Cosmicomiche.
Ho adorato la forza femminile dei personaggi di Goliarda Sapienza. Purtroppo il suo lavoro si è incominciato a conoscere dopo che è morta.
Ciò che ho amato di più ultimamente è la sincerità interiore di Emmanuel Carrère in “Yoga”: è in grado di dire cose che a volte pensiamo e non diremmo nemmeno al nostro migliore amico o allo psicanalista. “Il mio antidoto alla tristezza è l’ironia” è una delle frasi sottolineate del suo libro che ogni tanto rileggo. Mi porto dentro anche un’altra riflessione che condivido: scegliere la fine di un opera è scegliere il sapore con cui ci vogliamo congedare dal lettore, o nel mio caso dallo spettatore. Un pò come quando cuciniamo.
Adoro cucinare le verdure e sopratutto i peperoni al forno, adoro il momento prima della cena, dove ascolto la musica e sto ai fornelli, taglio e annuso i cibi e ne mischio i colori.
Adoro la notte perché è il momento in cui la natura si può esprimere di più, quando gli essere umani dormono.
Dopo il liceo ero stufa di studiare sui libri, volevo usare le mani. Ho fatto l’Accademia di Belle Arti, le Arti Visive mi permettevano di capire cosa fosse un linguaggio, di svilupparlo, come farlo funzionare.
Ho incontrato molti docenti in gamba, sono stata molto fortunata. Ma a un certo punto, dopo molte discussioni su come installare un cubo bianco in una stanza, mi sono resa conto che volevo veramente sporcarmi le mani e sei mesi dopo la laurea mi sono ritrovata con i piedi nello sterco di maiale, sudata e puzzolente con la telecamera in spalla.
Ecco, ero finalmente al mio posto, così cominciai a girare “Sopra il fiume”.
Non ho fatto la scuola di cinema perché ho una forma di insofferenza verso le scuole.
La scuola è il luogo più importante che ci possa essere nella società, ma ho un rapporto conflittuale con l’autorità, quindi più che con la scuola con il sistema scolastico e certi insegnanti che invece di apprezzare il dissenso lo puniscono.
Il mio incubo da bambina era proprio la scuola. L’obbligo di dover rimanere seduta tutto il giorno al banco ad ascoltare una signora che parlava in maniera noiosa mi faceva sentire in prigione. Invidiavo gli adulti che dopo averci accompagnato uscivano dai cancelli della scuola, potevano prendersi un café quando volevano durante la mattina. E camminare per le strade? Quanta invidia.
Fare una scuola di cinema mi avrebbe fatto odiare ciò che amavo di più: il cinema. Alla fine le basi per il mio lavoro vengono dalla pittura, dalle arti visive (Wilhelm Sasnal, Gerhard Richter, Nan Goldin, Luigi Ghirri), dal suonare pianoforte da quando sono piccola. Alla fine il montaggio è ritmo ed ogni film ha il suo respiro.
Anche l’aver visto tanto teatro mi ha sicuramente in qualche modo formata, mia madre aveva fatto l’abbonamento al teatro Strehler di Milano. Ci ho visto Goldoni, Aristofane, Pirandello, anche un bellissimo spettacolo di Stefano Benni recitato da Antonio Albanese che imitava gli insetti, si trasformava in ape, in farfalla, zanzara o ragno.
Preferisco non citare registi, sono tanti i film che mi porto dentro e sarebbe una lista lunga e forse inutile.
Tutto questo, pittura, teatro, musica, mi ha  insegnato molto di più della scuola e per imparare a fare cinema c’era solo un modo: fare un film.
I miei genitori non sono riusciti a fare il lavoro che avrebbero sognato, mia madre la scrittrice e mio padre il musicista; hanno fatto gli impiegati di banca per avere una sicurezza economica che hanno messo prima delle loro passioni.
Sono privilegiata perché mi hanno dato la possibilità di studiare quello che volevo e di intraprendere il percorso che sognavo per realizzarmi, o almeno per cercare di farlo. Mia madre è francese mia nonna è corsa di Ajaccio, mio nonno loreno, hanno vissuto in Marocco e in Algeria perché mio nonno lavorava nell’esercito, erano quindi nomadi, cambiavano città ogni due anni, e si sono fermati poi in Provenza dove mia nonna si era laureata in filosofia e suo padre insegnava filosofia all’Università. Amante dell’Italia, si occupava delle traduzioni di Pirandello; mia madre mi racconta che aveva viaggiato nel sud Italia sul dorso di un asino per fare un dizionario di lingua italiana. Magari è passato anche nelle zone che percorro da anni con la telecamera, mi piace pensare che in qualche modo siamo collegati.
Il mio ultimo film l’ho montato sulla sua scrivania. La Corsica, la sua terra, è stata molto importante per me, i suoi odori e i suoi colori mi sono entrati dentro o hanno sempre fatto parte di me, d’altra parte nelle mie vene c’è anche il sangue di questa isola. Nel giardino di mia zia sapevo che tra le cinque e le cinque e mezzo di sera sarebbero uscite le tartarughe, che alle sei sarebbe passato il riccio sotto l’ulivo, che i formicai alle due di pomeriggio chiudevano i battenti e la notte avrei visto i cinghiali e la via lattea. Al fiume prendevo i girini e al mare scavavo nella sabbia per trovare i vermi che avrei dato ai pesci immergendomi nell’acqua dove stavo per ore.
A settembre tutto questo finiva e dovevo tornare a Milano, città con la quale ho un rapporto molto conflittuale. È vero, mi ha permesso di fare un percorso formativo importante, ma le persone di Milano che porto oggi nella mia vita sono la mia famiglia e altre cinque o sei, umanamente non mi ha lasciato altro. I miei più cari amici sono sparsi per l’Europa o l’Italia.
La prima città che ho amato tanto è stata Bologna, la prima in cui ho vissuto da sola e ho montato il mio primo film. Vivevo in una casa con sei sette persone e un giardino. I giovani bolognesi e non erano attivi, organizzavano concerti, sagre in campagna, pranzi sui colli e tante rassegne di cinema, anche in casa, insomma tante attività per stare insieme, cosa che a Milano mi è mancata molto.
Una delle cose che soffrivo di Milano è che è fatta di gruppi chiusi, ed ogni gruppo si veste nello stesso modo, per entrare in quei gruppi devi vestirti in modo omogeneo o frequentare certi posti. A Milano riesci a capire in che ambito uno lavora in base a come si veste. A Bologna invece eravamo un gruppo disomogeneo, avevo l’impressione di frequentare persone e non dei vestiti. Milano ti può offrire molto ma si mangia tutto, ti devi uniformare. Anche quando scopri un posto “sincero” che non è di moda viene inghiottito da qualcuno che lo colonizza e diventa alla moda, il posto da frequentare. Anche ragazzi che venivano dal Sud a studiare, all’inizio mi godevo il loro accento musicale per poi constatare che dopo un anno parlavano con l’accento milanese o cambiavano le loro sembianze. Venivano mangiati.
Poi c’è stata Bruxelles, ci sono andata a vivere poco dopo gli attentati. I belgi sono pazzi, accoglienti e molto simpatici, alla buona. Sono andata lì perché ho sempre amato il cinema belga e avevo voglia di vivere un’esperienza all’estero e di ricominciare a parlare la mia seconda lingua, il francese. Lì ho seguito un Master, l’unico modo che potevo avere per conoscere persone della mia età che facessero cinema.
Sono tornata in Italia e in seguito ho frequentato per un anno Parigi dove frequentavo gli Atelier Varan, un atelier di sviluppo di film creato da Jean Rouch, il fondatore del cinema antropologico. Questo mi è servito per riannodare in maniera più profonda il mio legame con la lingua e con un certo modo di fare cinema che sento vicino, ed è proprio lì che ho sviluppato il mio ultimo lavoro, “Nessun posto al mondo”.
Giravo in Cilento e poi andavo a Parigi. Era strano passare dal correre dietro a delle vacche con la telecamera e portare dei capretti appena nati, allo stare seduta e parlare del film a Parigi in mezzo ad una commissione. Questa strana dicotomia è qualcosa di cui si nutre comunque il mio lavoro.

2. I miei lavori
Quando ho iniziato a fare l’accademia facevo ripetizioni di greco e latino, ho fatto la baby sitter, la cat sitter, la sera posavo in accademia per dei corsi serali, fotografa di performance o di mostre, dei lavori che mi avrebbero permesso poi di pagare le spese iniziali per il mio primo film a 23 anni. Ho inoltre partecipato a qualche workshop i cui premi erano in denaro il che mi avrebbe permesso di pagare i viaggi e l’affitto della casa.
Una volta laureata in Pittura ho fatto un workshop di documentario tenuto da Giorgio Diritti e Fredo Valla, dove feci un piccolo cortometraggio a Morigerati, in Cilento, sulla cooperativa Terre di Resilienza, di cui mi aveva parlato una mia amica milanese antropologa che stava facendo una tesi in Cilento. In seguito ho conosciuto Antonio Quaglialatte Pellegrino che mi propone di fare delle riprese al Palio del Grano e lì scoprii Caselle in Pittari e i suoi abitanti. Tra il nomadismo di mia madre in Sud Africa e i genitori di mio papà che sono marchigiani emigrati al nord, ho sempre avuto difficoltà a sentire l’appartenenza a un luogo e il Cilento me l’ha insegnato attraverso il cinema.
Così per un anno, facendo avanti e indietro da Milano girai il mio primo documentario “Sopra il fiume”, con una fotocamera e un monopiede, attrezzature ridotte al minimo, unica compagna di set Silvia Laureti come fonica, che mi ha aiutata molto. Non sapevo fare molto ed era un modo per scoprire un luogo con cui le persone avevano un forte legame, cosa di cui ero e forse sono tutt’ora orfana. Non capivo nulla, non sapevo il dialetto, faticavo a fare riprese, c’erano imprevisti in continuazione, dovevo capire dove mi trovavo per entrare in contatto profondo con le persone, ma sentivo quale direzione doveva prendere il film e la seguivo.
La difficoltà in questo film è stato imparare a fare un film. Montare da sola per un anno non è stato facile, ma è stata una grande gioia, anche la supervisione di varie persone mi ha aiutata enormemente, da registi o montatori che mi sono stati vicino, alla famiglia e gli amici. Eppure la cosa più difficile è far esistere un film.
Il film è stato selezionato al Filmmaker Festival di Milano. Ero molto felice, la proiezione a Milano è stata fantastica, c’erano anche molti cassellesi, 30 persone sono rimaste fuori dalla sala perché non c’era più posto, alcuni erano seduti sugli scalini, Angelo Soria (uno dei protagonisti del film) era molto emozionato. La sala era piegata in due dalle risate e in quei momenti tutta la fatica che hai fatto per tre anni viene ripagata da quelle emozioni che si propagano in sala tra le persone. Dopo la proiezione stavo tornando a Bruxelles, ero in macchina con il mio compagno, che poi sarebbe diventato mio marito. Eravamo in Svizzera, mi arriva un messaggio: “Hai vinto Filmmaker”, ho risposto “è uno scherzo?”.
Ho fatto dietrofront con la macchina e sono tornata a Milano per ritirare il premio. Non avevo nemmeno messo in conto di poter vincere il primo premio. Il film poi ha girato per vari festival: Bellaria, Trento Film Festival dove ha avuto un premio, Molise Film Festival, Katmandu, Anchorage etc etc… ed è stato inserito dall’Istituto Luce Cinecittà in una rassegna di cinema italiano all’estero.
La sua piccola dignità se l’è conquistata da solo, senza produzione o distribuzione. Ero anche molto ingenua e a digiuno per quanto riguarda i meccanismi che regolano la vita di un film e di un regista.
Ora sto terminando “Nessun posto al mondo”, il mio secondo film. Mi ha aiutata tantissimo mio marito, è stato presente per la maggior parte delle riprese. Ci siamo fatti dieci giorni di transumanza a piedi dalla Basilicata al Cervati, abbiamo filmato la processione notturna che arriva a duemila metri della Madonna della Neve per tre anni, insomma è stato sempre al mio fianco. Molti amici mi sono venuti a trovare mentre giravo per darmi una mano. L’aiuto più grande ce l’hanno dato le persone del posto, dai pastori agli abitanti: per citarne solo alcuni ti dico Antonio 5 e 6, la sua famiglia, Carmine e Filomena Pisano, Vincenzo De Luca, sono diventati un pò la mia famiglia in Cilento.
Poi ho incontrato una produzione di Torino che mi sta aiutando a chiudere il film. Prima di loro, alcuni produttori in Italia  si sono rifiutati di produrlo: non rende economicamente, è difficile da produrre, le televisioni non lo vogliono, nessuno si interessa ai pastori, è un film difficile, mi sono sentita anche dire “nessun produttore difenderà il tuo film in una commissione, non sei conosciuta”, lo ringrazio perché mi ha dato la tenacia per dimostrargli il contrario, e così è stato.
Lavorare con i finanziamenti è difficile. I produttori in Italia non hanno vita facile sopratutto per i documentari d’autore, ed è un calvario per tutti. Il film può rimanere fermo per anni, si aspettano risposte dal ministero, dalle regioni, anche spendere banalmente i soldi dei fondi non è semplice, è una macchina burocratica che ti fa passare la voglia di fare questo mestiere. Spesso ti senti da solo a portare sulle spalle il peso di un lavoro che dura anni, nel mentre cerchi di trovare dei lavoretti video per pagarti l’affitto e per portare avanti allo stesso tempo un lavoro che per essere fatto ha bisogno di pazienza, tenacia, perseveranza, un accanimento quasi ossessivo, anche quando tutto sembra andare per il verso storto devi pensare che prima o poi dalle tue lacrime qualcosa nascerà. È una corsa lunga ed estenuante per arrivare ad un’ora e mezza di film, sperando che il film abbia una sua vita dopo, che esista per gli altri e che rimanga nel tempo.
Il mio orizzonte a livello lavorativo è oggi a un bivio. Continuare a fare film in questo modo non è più possibile per me, a livello di energie e anche a livello economico. Magari questo sarà l’ultimo. Adoro montare, fare riprese e mi piace sempre di più l’idea di lavorare per altri autori, fornire le mie competenze e la mia sensibilità per il lavoro di altre persone, forse anche un pò per nutrirmi di altro e per far riposare le mie spalle che in questo momento sento appesantite.
“Nessun posto al mondo”, a cui lavoro da sei anni, girato tra Caselle in Pittari, Sanza e la Basilicata è in post produzione e speriamo esca presto. Bisogna vedere quello che raccolgo con questo lavoro, avere la pazienza di vedere come questo film muoverà i suoi passi nel mondo.

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3. Perché per me il lavoro è importante, vale.
Alla fine fare cinema è il mezzo che ho per andare verso l’altro, per scontrarmi con la realtà, per guardare l’altro da me, per incontrarlo. Nonostante quello che filmo sia apparentemente molto lontano da me, è impossibile fare un film dove non ci sia qualcosa di personale, eppure di solito me ne rendo conto mentre sto chiudendo il film. All’inizio è un’intuizione, poi, mano a mano, il filo che unisce me e ciò che filmo diventa sempre più visibile. A volte capita anche che sono gli altri a raccontarti il film che hai fatto e a fartelo scoprire.
L’altro giorno ho incontrato una signora di Caselle, Elisabetta Giudice, che mi ha detto commossa che in “Sopra il fiume” compaiono un sacco di persone che non ci sono più. Per me è come filmare un pezzo del ‘900, ciò che rimane del secolo scorso.
Il cinema è seguire il mio istinto, che è la forma che mi appartiene per capire e per vivere il mondo. Il cinema è il mio motore, è quello che non mi fa dormire la notte, quello che per anni mi tiene attaccata a un’idea. È il mio modo di stare al mondo. Carrère direbbe che “il posto di ognuno è ovunque egli sia, poco importa dove sia”,  infatti con il cinema puoi andare ovunque.