Marilena, il lavoro delle donne e il valore di essere diversi

Caro Diario, l’idea di farmi raccontare da Marilena la sua storia mi è venuta una sera d’estate a #Cip, a un tavolino del Twins Pub, dopo che con Cinzia avevamo fatto un bel giro con lei e Gabriele, mio amico di social e di idee, nel paese vecchio, il centro storico di Caselle in Pittari. Non c’è bisogno che aggiungo altro, tu leggi, che te ne accorgi da te che è stata una bella idea.

#lavorobenfatto

Caro Vincenzo, sono nata il 19 Dicembre 1960 a Ferrara, a casa di mia zia, da madre irpina e padre ferrarese.
Avevo già due fratelli maschi, quella mattina la levatrice doveva essere molto stanca perché annunciò a mia madre, che naturalmente desiderava una femmina: “è maschio”.
Prostrata dal parto, mia madre mi lasciò accudire da mia zia, che, rimasta vedova da poco tempo, le chiese di chiamarmi col nome del marito defunto, e così diventai Giordano. Dopo qualche ora la cara donna, sollecitata dal mio pianto, cominciò a svolgere il ciripà e le varie bende per cambiarmi e, lasciandomi cadere sul letto per la sorpresa, urlò: “ma è una femmina!”. Diventai così Marilena, Pazzi Marilena. Fino all’età di 5 anni sono vissuta in provincia di Ferrara e sono stati anni felici per quanto mi posso ricordare.

Ho memoria di alcune persone che sembrano uscite da un libro di Stefano Benni, tipo Aires che ammaestrava le mosche e Oreste che mangiava i gatti. Ogni tanto mi rivedo ancora bambina, col ditino puntato verso quell’omone ad urlargli: “Tu ti sei mangiato il mio gatto”, con lui che mi guarda torvo, poi scoppia in una risata e io terrorizzata corro via. Poi c’erano Margherita, la mia migliore amica, con la quale ho collezionato cicatrici, una signora che aveva una parete di casa dove conservava, attaccati a chiodi, i mazzi di chiavi che trovava per strada (ci finì pure il nostro) ed infine la paurosa vicina, moglie del calzolaio dalla quale dovevo guardarmi perchè considerata pazza.

La mia casa era sulle sponde di un canale che faceva da sfondo ai giochi di noi bambini, il passatempo preferito nelle giornate di pioggia era stare alla finestra e contare le pantegane che correvano lungo gli argini. Chi ne vedeva in maggior numero vinceva. In inverno il canale ghiacciava e allora ci si lasciava scivolare lungo gli argini fino ad arrivare sulla sua superficie gelata. I più fortunati con la slitta, gli altri con qualsiasi altra cosa, cartoni, pneumatici, strofinacci ecc. Io no, mi era stato proibito da mia madre a suon di botte dopo che mi aveva sorpreso a camminare sul ghiaccio. All’epoca ero una bimba ubbidiente.
Eravamo poveri e gli unici giochi che ricordo erano: una scimmia di peluche che emetteva uno strano suono quando gli premevi la pancia (ricordo che non avendo abbastanza forza per farla suonare, la mettevo per terra e ci saltavo sopra) e un’altalena formata da una fune legata agli stipiti della porta della cantina, con un vecchio cuscino per sedile, per usarla si doveva spalancare la porta e dondolarsi dentro e fuori dalla cantina.

All’età di 6 anni, mio padre venne trasferito per lavoro a Bologna. Tutta la famiglia lo seguì. Un mondo nuovo, nuovo dialetto, nuovi compagni di gioco.
Il primo giorno che scendo in cortile e cerco di giocare con gli altri bambini, vengo spinta via e apostrofata con rabbia con la parola “marocchina”. Non conoscevo il significato, ma dal tono con cui veniva pronunciata capivo che non era una cosa buona. Corsi da mia madre a raccontarle l’accaduto e a chiedere spiegazioni. Lei con un sorriso gentile ed una voce dolcissima mi disse: “È vero, tu sei marocchina, perchè sei mia figlia. Così li chiamano qui quelli nati al Sud”. Da quel giorno cominciai ad avere coscienza della mia “diversità”, del non essere del tutto in sintonia con l’ambiente.
Il giorno dopo mi presentai nuovamente in cortile e raccolsi intorno a me tutti i bambini emarginati, una bimba minuta con i denti storti, un bimbo con gli occhiali ed una lente oscurata, un altro che risolveva la sua rabbia tirando calci e pugni a tutti quanti, pure a me. Cominciammo ad inventare storie bellissime e presto il nostro cerchio si aprì anche agli altri e diventammo un gruppo eterogeneo. Una cosa però non riuscivo a capire: perché i maschi si riempivano di botte, per motivi futili, tornando a casa lividi e tumefatti e però il giorno dopo erano nuovamente amiconi. La risposta era: “che vuoi capire tu che sei femmina”. Già, marocchina e femmina.

Per molto tempo noi bimbe subimmo le angherie dei maschi. C’era un compagno che tutti i pomeriggi, durante il periodo del doposcuola, mi tirava i capelli. Ma davvero per tutto il pomeriggio. Tornavo a casa con feroci mal di testa. Era troppo. Fu così che ispirata da uno scherzo fattomi da una amica, inventai un’altra storia: informai tutti i “maschi” coraggiosi che il giorno dopo avrebbero portato a casa mia una mummia egiziana autentica e che se volevano e non erano troppo spaventati, potevano venire a vederla. Accettarono l’invito. Ah, dimenticavo, i miei genitori ed i miei fratelli erano tutti fuori casa per lavoro e dalle 7:00 alle 17:30 la casa era mia.
Con stracci e pupazzi fabbricai una sagoma umana distesa sul divano, la ricoprii con un panno, le adagiai sul petto un pugnale comprato a una fiera e feci accomodare in salotto, uno per volta, i maschi. La musica di sottofondo era “Careful with that axe Eugene” dei Pink Floyd, il disco era di mio fratello.
Due amiche stavano sedute per terra con gli occhi imbambolati e una era nascosta dietro ad una tenda, tapparelle abbassate e stanza illuminata da candele, mentre io raccontavo la storia di quella mummia, dei sacrifici umani che compiva quando era in vita e dell’esperimento che avrebbe potuto farla resuscitare, magari proprio in quel momento. Nell’attimo in cui nella canzone parte il grido, la ragazza nascosta dietro la tenda si precipitava sul malcapitato che cominciava ad urlare terrorizzato.
Da quel giorno i ragazzi smisero di fare gli sbruffoni, e si tennero alla larga.
La mia ormai era diventata una missione. Dovevo modificare l’ambiente e renderlo meno ostile. Cominciai a diffondere le teorie di Ghandi, cercando di placare tutta quell’aggressività diffusa. Adesso parlano di bullismo, ma anche negli anni 70 non si scherzava, solo che allora non faceva scalpore, anzi. Era quasi considerata la normalità. E cominciai a leggere libri ai ragazzi, ammetto che forse la scelta era un po’ azzardata, per esempio “Jukebox all’idrogeno” di Ginsberg non ottenne l’effetto sperato. Qualcuno cambiò, qualcun’altro si perse per strada e ad un certo punto mi persi pure io.

Vincenzo, gli adolescenti non accettano compromessi: il mondo era ostile, le persone erano false, non degne della mia fiducia. Chiusi tutto e tutti fuori. Passai un anno intero della mia vita in isolamento. Uscivo solo per andare a scuola. Una volta tornata a casa, abbassavo le tapparelle e rimanevo al buio ascoltando musica con gli occhi chiusi. In quel periodo, frequentavo le scuole superiori, il sottofondo erano i dischi dei Pink Floyd. Avevo escluso il mondo dalla mia vita. Trascorrevo molto del mio tempo in silenzio, persa in un fiume di pensieri che si accavallavano senza un senso logico.
Ho un’immagine ricorrente di quei giorni. Io davanti ad un piatto di pasta in brodo che con la forchetta unisco le bolle di grasso fino a formarne una unica, grande quasi come il centro del piatto, per poi frantumarla e ricominciare daccapo. Cosa ci fosse intorno a me o qualsiasi cosa succedesse non aveva importanza.
Poi, un giorno, la considerazione che se vuoi combattere non puoi stare ai margini, devi entrare sul campo di battaglia. E riuscii alla vita.

Un grande aiuto mi venne dai miei fratelli. Mauro mi insegnò che se guardi bene, tutto può essere leggero e divertente, Vito mi insegnò che ci sono molti punti di vista e non bisogna fermarsi alla prima impressione. Ritrovai la voglia di studiare e di imparare, recuperai gli anni persi, mi diplomai e mi iscrissi all’università. Dams, discipline di arte musica e spettacolo, indirizzo comunicazione. Questa la mia formazione.
Gli anni più belli della mia vita. Occorrerebbe un capitolo solo per il periodo universitario. Te lo lascio immaginare, frequentavo le lezioni di Paolo Fabbri, Umberto Eco, Giovanni Anceschi, Roberto Grandi e tanti altri.
Mi dedicai alla poesia, partecipai al primo “Made in BO”, manifestazione che racchiudeva al proprio interno artisti di ogni genere. Organizzai con un gruppo di ragazzi chiamato “Versodove” la seconda edizione di questa manifestazione, curando la sezione “Narrativa e Poesia”. Fu una esperienza bellissima che purtroppo negli anni si frantumò prendendo una piega tutta commerciale.
A un certo punto la necessità di lavorare e di aiutare la famiglia mi portò lontano da tutto questo, però il bagaglio che porto con me è troppo importante per dimenticarlo. Spero anche di essere riuscita a passare a mio figlio gli stessi valori in cui credo e di avergli dato gli strumenti affinché la vita gli sia lieve. Al momento sono orgogliosa di lui e ho fiducia che sarà sempre così.

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Le cose che più mi disgustano sono la discriminazione di genere e di provenienza. Ho cercato di annullare queste differenze. Durante l’arco della mia vita non è cambiato quasi nulla, ho sempre avuto a che fare con queste problematiche. Non sopporto tutte le forme di razzismo e sopratutto non sopporto, durante un colloquio di lavoro, dover parlare a uomini che non ti guardano negli occhi, ma un po’ più in basso e che sai già che non prenderanno in considerazione le tue parole o le tue idee: “che vuoi capire tu che sei femmina”.
Tutto più o meno uguale. Puoi anche vestirti con un sacco, non tingerti i capelli, non truccarti, annullarti, la maggior parte continueranno a vedere solo un corpo e non ascolteranno le tue parole. Ti ricorda qualcuno? Per fortuna non sempre è così, ma tanti ne ho incontrati durante il mio viaggio di questi personaggi, non ti dico se poi addirittura parli di politica.

Mio padre era uno di quelli, non ha mai creduto che io fossi capace di ragionare con la mia testa, ha sempre pensato che dietro le mie parole ci fossero sempre quelle di un uomo. Credo mi abbia riabilitato solo negli ultimi anni della sua vita, almeno così spero. Non ha mai compreso la mia voglia di studiare, disapprovò la mia scelta di iscrivermi al DAMS, cercò in ogni modo di ridurre la mia libertà, non si interessò mai a quelle che erano le mie passioni e i miei interessi: la poesia, la fotografia, l’organizzazione di una rassegna di poesia e narrativa di giovani scrittori. Ma forse è proprio a lui che devo questo spirito un po’ ribelle. Mia madre invece, una donna con spirito curioso e polso fermo, ha mandato avanti la famiglia prendendo decisioni a volte coraggiose. Una mente dinamica e aperta, strano per una donna del Sud (è ironico, ovviamente).

Da trent’anni ormai lavoro nella stessa azienda, all’ufficio commerciale. Ho già visto avvicendarsi tre proprietari, ognuno di loro con un atteggiamento diverso nei confronti dei propri dipendenti. Difficile l’equilibrio tra autorevolezza ed autorità. Questo non è il lavoro che desideravo, ma quello che ho dovuto fare, ma naturalmente cerco di farlo al meglio, metto tutto l’impegno che posso nello svolgerlo, a volta anche a scapito della mia famiglia. Cerco, nei limiti del possibile, di mantenere un’etica professionale che mi deriva da un’educazione familiare molto rigida. Ci sono in ogni caso aspetti del mio lavoro che mi affascinano, che mi portano a cercare di risolvere i problemi prendendo in considerazione i diversi punti di vista e cercando di tenere conto anche dei bisogni dei colleghi. Non è detto che questo sia sempre l’atteggiamento più funzionale per quello che riguarda la produttività o il fatturato, ma per me è importante, allo stesso modo in cui è importante il lavorare.

Durante il periodo di lock down l’azienda dove lavoro ha potuto rimanere aperta. O.P.O. Officina Prodotti Ortopedici, di proprietà della famiglia Nobili, è un’azienda italiana che produce stampelle e articoli per la deambulazione. Durante l’emergenza Covid 19 siamo stati considerati, in base al codice Ateco, azienda strategica.
La prima settimana mi è sembrata un’assurdità. Ero combattuta tra il desiderio di uscire di casa per andare al lavoro e la paura di potermi ammalare.
O.P.O. aveva comunque fornito ai propri dipendenti tutti gli strumenti per mantenere la sicurezza all’interno dei propri ambienti. Avevamo turni lavorativi che ci permettevano di mantenere la giusta distanza gli uni dagli altri, e poi barriere di plexiglass, mascherine, guanti e disinfettanti. La seconda settimana è stata ancora peggio, il telefono non squillava, non arrivavano ordini, la produzione aveva evaso tutti quelli in essere. Mi sembrava inutile andare al lavoro ed esaurire i miei compiti in metà del tempo. Fuori come sai bene il panico, con tutto il mondo che chiedeva mascherine, guanti o qualsiasi altra cosa e nessuno riusciva a soddisfare questi bisogni.

Non ti ho detto ancora che ho sposato un grande uomo. Si occupa di progettare stampanti 3D ed è appassionato di meccanica e non solo. Durante i mesi di lock down, lo vedevo fare le ore piccole davanti al computer disegnando e progettando, era in contatto con il gruppo di maker che ha dato la propria esperienza ed il proprio tempo per fronteggiare l’emergenza, stando sempre nell’ombra.
Una sera, mentre lo guardavo davanti al computer che vagliava progetti per respiratori, mascherine ecc, i miei occhi caddero sull’immagine di uno schermo facciale, fotografato capovolto. All’improvviso l’intuizione: ho avuto l’immagine di un prodotto simile che avevamo nel nostro catalogo.

Il giorno dopo ne parlai al lavoro con Alessandro Lenzi, collega dell’ufficio tecnico. Prendemmo il nostro prodotto, un divaricatore per correggere la lussazione dell’anca nei neonati, e cominciammo a fare le nostre considerazioni per poterlo trasformare in schermo facciale.
In quel momento il titolare entrò in ufficio e con aria interrogativa indicò il divaricatore. Gli esponemmo la nostra idea e lui decise di investire tempo e denaro per poter realizzare lo schermo facciale. Ci tengo a dire che la proprietà non si è limitata a quello, ha creduto nel progetto e ha deciso di renderlo un prodotto certificato.
Come ti ho detto O.P.O. produce dispositivi tecnico medici, lo schermo invece è un DPI (dispositivo di protezione individuale), il collega dell’ufficio ha ricercato i materiali più idonei e, supportato dai colleghi in produzione, ha valutato scelte industriali che rendessero possibile la produzione in serie e ha seguito l’iter per la certificazione CE del prodotto. Questo lavoro di equipe, nato dalla base e supportato dal vertice, ha permesso all’azienda di andare avanti durante i terribili mesi dell’emergenza, cogliendo un’opportunità creata dal disagio e dalla necessità.

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Ti confesso che sono molto orgogliosa di questa intuizione e finalmente sono riuscita a dare alle mie parole il peso necessario per scalvalcare l’immagine di una “femmina che non capisce”, però il percorso per superare l’ottusità di certe argomentazioni è ancora lungo.
Vincenzo, il disagio che accomuna molte donne sta diventando sempre più pesante. I miei occhi vedono una continua regressione sul fronte dell’accettazione delle diversità, di qualsiasi tipo esse siano. Una chiusura mentale come da anni non si avvertiva si sta facendo strada e non abbiamo armi abbastanza affilate per combatterla. Mi annienta, dopo tante lotte portate avanti per dare dignità al lavoro e per riconoscere alla donna la propria posizione all’interno della società e del mondo del lavoro, pensare che tutto possa sgretolarsi.
Il percorso che una donna deve affrontare ogni giorno è cosparso di pregiudizi e disconoscimenti, ci vuole rabbia, ci vuole tenacia e testardaggine. Ci viene richiesto un impegno maggiore rispetto a quello che viene richiesto a un uomo e questo non è giusto. Siamo stanche di dover dimostrare ogni volta il nostro valore, non dovrebbero esserci più dubbi. Ti mando un caro saluto.
Marilena

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