Simona, il lavoro e l’hackautism

Caro Diario, questa di Simona Brienza è una storia della serie “apri virgolette” – “incolla storia” – “chiudi virgolette”, insomma funziona così bene da sola che non serve aggiungere altro. Torno alla fine, intanto buona lettura.

«Caro Vincenzo, sono Simona, ho 43 anni e sono del segno dell’Ariete. Questo mi caratterizza molto, in quanto testarda, tenace e poco propensa a perdere le sfide della vita. Ho studiato ragioneria a Pozzuoli e ho fatto un anno di economia e commercio.

Ho avuto un’infanzia felice tutto sommato, ricordo mio padre che a partire dalla primavera ogni venerdì, finito di lavorare, prendeva la roulotte al rimessaggio e andavamo a fare i fine settimana al camping di Baia Domizia, si ritornava la domenica. Oppure quando aveva la moto mi portava a fare i motoraduni in costiera, dove io che avevo circa sette otto anni mi gustavo i panorami.
I miei avevano l’hobby della musica folk napoletana e mi hanno trasmesso questa grande cultura. Ho visto a teatro ben tre volte La gatta cenerentola, la amo!

Ho cominciato a lavorare a 21 anni in un supermercato come cassiera e nello stesso periodo facevo la promoter per una azienda di tonno in scatola. Poi per due anni ho fatto la postina di posta pubblicitaria in giro per la città, fino a quando nell’agosto del 1999 sono stata assunta da McDonald’s Italia, quando ha aperto il locale di Piazza Municipio qui a Napoli.

È stata ed è l’esperienza lavorativa più importante della mia vita. È il mio lavoro. Dietro quei panini si cela un mondo fatto di regole, HACCP e gioco di squadra. Siamo tutti importanti allo stesso modo, tutti tasselli di una organizzazione che mira a soddisfare i clienti. È un lavoro fisicamente e mentalmente stancante perché no stop, ma che ti insegna tante cose utili: per esempio a fare squadra, a relazionarsi con i clienti, a rispettare le gerarchie e ottimizzare il tempo, dopo di che c’è la cosa più importante di tutte, il mio è un lavoro che ti insegna a risolvere problemi in maniera quasi estemporanea.

Vedi, nel mio lavoro tutti devono saper fare tutto, ossia conoscere ogni postazione, il che concretamente significa che un giorno posso fare i panini, ovvero assemblare il pane messo nel toaster con la carne cotta alla griglia, con i condimenti che variano da panino a panino. Un giorno posso fare sala quindi fare la differenziata dai vassoi che lasciano i clienti sul tavolo, spazzare a terra e pulire i tavoli. Un altro posso fare cassa, ossia accogliere il cliente, chiedergli cosa preferisce digitando l’ordine sul touch screen della cassa e prima di incassare sistemare i prodotti sul vassoio, quindi una cassa dinamica e non statica. Una cosa divertente è il modo di ordinare dei vari clienti che talvolta storpiano i nomi dei prodotti, per esempio mi dai un “mec chiccen” (Mc chicken), prendo un “big mech” (Big Mac), “vorrei un cecap” (ketchup).
In ogni caso, quest’anno sono venti anni di McDonald’s e posso dire che è un po’ la mia seconda casa, quindi faccio di tutto per starci bene. Ero fidanzata con mio marito quando fui assunta ed ora mi ritrovo a lavorarci da moglie e madre di due ragazzi.

Ho una serie di abitudini e passioni acquisite nel tempo. Quando posso mi piace ascoltare musica jazz, accendo candele profumate e in base all’umore cambio fragranza. Amo fumare sigari, per sentirne gli aromi, infatti non so aspirare tant’è che non ho mai fumato sigarette o canne. E amo follemente l’Umbria, perché mi dà un senso di pace e tranquillità, forse perché la mia nonna paterna era di Amelia, in provincia di Terni o forse semplicemente perché amo il verde, i girasoli, la montagna, gli agriturismi, i percorsi enogastronomici di cui l’Umbria è piena e le città medioevali come Gubbio.
Da quando ho i figli le estati le passo al mare ma da fidanzati con Antonio mio marito andavamo in giro per le regioni del centro Italia a visitare le città.
Infine adoro cucinare utilizzando materie prime del nostro territorio e ci tengo molto a rifare soprattutto la cucina del cuore quella della tradizione ho anche una pagina social dedicata al cibo, si chiama #incucinaconsimi.

Ho due tatuaggi, il primo è un pezzo di un puzzle con una lampadina accesa all’interno che simboleggia l’autismo. Il secondo è una fenice che simboleggia la resilienza che ho ogni volta che cado, perché cado anche io di tanto in tanto, ma sono abituata a rialzarmi sempre.

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Con Antonio abbiamo due figli che io chiamo scherzando Genio e Sregolatezza.
Il genio è Nino, un ragazzo di tredici anni che fa il primo anno di superiori, ragazzo estremamente intelligente quanto sensibile e maturo. Ha imparato a leggere e a scrivere da solo ed io non gli ho mai fatto vedere un compito. A sei anni faceva le radici quadrate ed ha un Q. I. molto alto, oltre ad essere un gran gnocco.

Poi c’è Lei, Sregolatezza detta Raffaela. È una bellissima bambina di dieci anni autistica con disturbo del comportamento, in pratica diventa violenta quando qualcuno o qualcosa non le garba.
Aveva due anni quando abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava. Dopo tutta la trafila neuropsichiatrica abbiamo appurato che aveva ed ha grosse difficoltà relazionali e di linguaggio. Dovevo decidere se cadere in depressione mettendo a rischio tutta la famiglia oppure, come dico sempre, fare di un problema un’opportunità. Ho scelto la seconda opzione, perché in quanto Ariete il mostro dell’autismo non deve vincere ed io non devo sopravvivere ma vivere a pieno la mia vita senza farmi mancare nulla.

Con grande difficoltà ho trascinato tutta la famiglia in questo cambiamento.
Ho conosciuto grazie a mio marito e alle startup il mondo della robotica applicata all’autismo e questi ausilii innovativi che possono essere utilizzati durante le terapie o a scuola per incentivare l’interazione sociale di questi bambini speciali con quelli normodotati. In più ho creato una pagina social che parla di autismo per fare in modo che diventi sempre meno sconosciuto, si chiama #Hackautism.

Particolarmente forte è il rapporto che ho creato con Roobopoli™, “un progetto che mira alla realizzazione di una esperienza educativa in ambito delle smart-city, smart-industry e smart grid, ed è sviluppato dall’Associazione no-profit Perlatecnica con il supporto tecnico di Bluenet”.
La mission del progetto è promuovere la comprensione, lo sviluppo e la sperimentazione in scala di nuove tecnologie della comunicazione, della mobilità, della salvaguardia dell’ambiente e dell’efficienza energetica, delle tecnologie di automazione in ambito di industria 4.0.
Roobopoli è una tiny smart city, una città in miniatura, dove la vita degli abitanti chiamati Roobo, è assistita da moderne tecnologie, le stesse disponibili nelle città reali, ma riprodotte in scala a scopo educativo, di test e di simulazione.
Nell’ambito di questo progetto, una delle principali attività consiste nella costruzione e la programmazione di veicoli chiamati Roobokart, che dovranno muoversi autonomamente sulle strade di Roobopoli. Questo rende il progetto molto accattivante per i ragazzi che si ritrovano ad immaginare e costruire gli spazi vissuti quotidianamente, ma proiettandoli al futuro. Immaginano quindi la propria città come la vorrebbero.
Io ho visto in questo l’opportunità di proporre il progetto anche per ragazzi affetti da autismo, sia per gli asperger che spesso mostrano capacità di apprendimento superiori ai ragazzi della stessa età, sia per i ragazzi che invece manifestano disturbi legati all’interazione. Per questi ultimi, l’integrazione nel tessuto sociale è di fondamentale importanza, e avendo la necessità di preparasi a vivere le esperienze, Roobopoli diventa il luogo ideale per aiutarli a sperimentare in maniera controllata e simulata quelle che poi saranno le esperienze reali.

Per farla breve una volta capito che noi in Italia siamo decisamente indietro rispetto al resto del mondo occidentale su questo dovevo quanto meno porre la questione a chi di dovere.
Quindi da qualche anno ho un duplice scopo, quello di fare conoscere l’autismo e di fare conoscere questi ausilii innovativi nella mia città e nella mia regione.
Dicono di me che sono una persona dinamica e forte, ma io aggiungo anche tignosa a volte e incazzosa, ma fa parte di me.

Come puoi immaginare è da sposata dopo aver avuto Raffaela che la mia vita è totalmente cambiata, e io sono cambiata.
Vincenzo, diventa una lotta alla sopravvivenza, cerchi di trovare tutti i modi possibili per uscire con la testa fuori a respirare aria di normalità, non è sempre facile.
Ho ferite sul corpo quando lei va in crisi, ma la ferita più grande non si vede anche se è quella che butta sempre sangue, perché sai che è meglio non pensare al suo futuro, perché spesso i casi violenti come mia figlia vengono messi in stand by in istituto con medicinali annessi.
Ho sprazzi di ricordi, perché sono concentrata sul presente e su quello che posso fare per lei e per gli altri autistici.
Avrei voluto una vita diversa? Certo. Avrei voluto una vita con problemi normali.
Ah dimenticavo, sono atea.»

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Come dici amico Diario? L’ultima parte del racconto di Simona è come un coltello che ti sconquassa l’anima? Ti capisco, infatti non dico niente, non tengo niente da aggiungere, piuttosto posso dare una mano, prendo un mattoncino e ci scrivo sopra “sregolatezza”, penso che questo lo posso fare, nella parte di vita che mi resta vorrei evitare le cose inutili e dedicarmi solo a quello che mi piace e che serve. Sì, caro Diario, la battaglia di Simona è da oggi un poco anche la mia, del resto anche a questo servono le storie, a condividere possibilità.