Caro Diario, Luciano Petrizzo è entrato nella mia vita il 4 Gennaio di quest’anno, nel corso della sera splendida, buia e tempestosa che ho raccontato qui. Fu un incontro fugace, la neve scendeva su Monte San Giacomo sempre più copiosa e noi avevamo fretta di tornare a casa, però poi Luciano mi ha contattato sui social, ci siamo raccontati un po’ di cose e siamo diventati @mici, questo fino a una decina di giorni fa, quando è venuto a #Cip e complici Giuseppe Jepis Rivello, Claudia Castaldo e le pizze di Michele Croccia siamo diventati amici.
Lo sai come funziono amico mio, quando sento l’odore di belle storie cerco di non farmele scappare, e così ho chiesto a Luciano di racconarsi, lui lo ha fatto, e dunque eccolo qua. Buona lettura.
«Caro Vincenzo, per prima cosa ci tengo a dirti che non sono uno chef né un cuoco stellato, sono semplicemente un cuoco terrone – dallo spagnolo terrón, zolla -, in omaggio alle origini contadine di mia madre, andata via presto, troppo presto, dalla mia vita.
Non saprei raccontarti con esattezza in quale momento della mia vita ho cominciato realmente ad amare la cucina. Forse è iniziato tutto per caso, per la volontà di mio padre di mandarmi alla Scuola Alberghiera di Salerno, perché poteva essere utile nell’attività di gestione di un salone per matrimoni che all’epoca, sul finire degli anni ’60, fu uno dei primi nella nostra zona a offrire la possibilità di organizzare pranzi e cene.
Nella maggior parte dei casi, durante queste feste venivano offerti dolcetti secchi e piccoli mignon, oltre ai tanti panini ripieni di salame, prosciutto, capicollo e formaggio, contenuti in grosse ceste da panettiere e distribuiti da camerieri in divisa o amici e parenti.
Di certo, quando ho cominciato a smanettare ai fornelli, avevo bene in mente certi sapori e profumi della nostra terra che ancora oggi mi accompagnano; quello del latte, ad esempio, derivante dall’allevamento di due mucche che tenevamo in una piccolissima stalla e che fornivano il latte sia per il nostro consumo sia per la produzione di ricotta e formaggi; o quello di carne, salumi, prosciutti, “pacciariedd’” (rotolini di cotiche), o il sanguinaccio ricavati da una coppia di maiali allevati “ind’ u’ sturiedd” (dentro la ‘casetta dei maiali’), che costituivano una delle nostre risorse alimentari per il periodo invernale.
E ancora, l’odore del pane appena sfornato, che ovviamente si faceva in casa. L’ultimo atto di un ciclo stagionale che iniziava in autunno, quando mamma Antonietta, alla guida del suo carretto, andava in campagna per la semina del grano. La mietitura in estate era una festa indescrivibile. Nel terreno in località “r’u’ Patr’Amat’” (del Padre Amato) si formavano e si accumulavano “i gregne’’ (spighe legate in piccoli cumuli) alla cui raccolta seguiva la trebbiatura e infine l’obbligato passaggio al mulino per ottenere la farina che sarebbe servita per la preparazione di pasta casereccia, fragranti pizze, focacce e dorate pagnotte.
Nel periodo estivo, i sapori erano scanditi dalla presenza in tavola di pomodori e ortaggi, che in parte venivano trasformati in conserve, ed alcuni tra “mulignan” e puparuol” (melanzane e peperoni) venivano posti sott’olio e sott’aceto, impreziositi dall’aggiunta di erbe aromatiche, aglio e peperoncino che ne garantivano la conservazione per tutto l’inverno.
Erano tempi in cui la vita era regolata dal ritmo delle stagioni: la primavera, ad esempio, era dedicata alla piantagione delle patate che sarebbero state poi raccolte nel mese di agosto.
I “puparuoli cruschi”, detti anche “sciuscelluni”, venivano infilati in “nzerte” (letteralmente ‘corona’, realizzata con un ago e un filo di spago), appesi ad essiccare e conservati per la lunga stagione invernale per il gran numero di usi che se ne facevano.
Infine c’erano i “fasul’ p’sidd’” (qualità di fagiolo tondo), che si coltivavano a ridosso del fiume Calore e che i napoletani che arrivavano in zona per comprarli in grossi sacchi di juta.
Insomma, grazie a mia madre eravamo ricchi di cose buone e genuine da mangiare. Inoltre, una parte di ciò che la terra metteva a disposizione veniva venduto a prezzi che ben compensavano il duro lavoro nei campi, per il gran caldo d’estate o per la pioggia e il freddo in autunno e inverno. Tuttavia, la gratificazione di avere il cibo prodotto con passione utilizzando l’aratro, la buona terra e “u’ fumier” (concime biologico, naturale) era un’esperienza che oggi definiremmo “senza prezzo”.
La raccolta delle uova, in particolare, ha lasciato un ricordo indelebile nella mia memoria. Nei mesi primaverili, a giorni alterni mia madre, in sella alla bicicletta e con due “spare” (due grosse ceste posizionate una sul manubrio e l’altra sul portapacchi posteriore) faceva il giro dei casali per raccogliere le uova. A fine giornata, nella piccola cucina di mattonelle, con l’aiuto di una lampadina posta in controluce, iniziava il rito della selezione. Mia madre osservava le uova una ad una in controluce per selezionare quelle più fresche. Queste venivano adagiate in una scatola di cartone riempita con paglia, che il giorno successivo veniva consegnata alle cucine di alcuni ospedali di Napoli. Le uova rimanenti, solo un po’ meno fresche, venivano vendute alle salumerie e alle botteghe napoletane di generi alimentari. Della consegna si occupava mio padre che, tre volte a settimana affrontava un lungo viaggio in “litturina” (vecchio treno) che, sulla linea Sicignano-Lagonegro, da Padula lo portava a Napoli, sua città di adozione.
È da questa storia di due genitori nati a Sassano e poi trasferitisi nella campagna di Padula, che ho assimilato le radici della mia cucina, fatta di prodotti unici, grezzi, rari, genuini. È da lì che ho scoperto, sin da bambino, quel frutto unico dal sapore impareggiabile e straordinario al mio primo assaggio, di quella che rappresenta l’elemento principe di questo breve racconto: la “pera a’ l’acqua” o “pera lardara”, alla quale, per la sua particolarità, mi sono nel tempo appassionato.
Si tratta di un frutto che nasce sugli alberi di “p’raîno”, una specie di pero selvatico che cresce esclusivamente nel territorio di Monte San Giacomo – nell’area del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, in pochi poderi privati che vengono tramandati come una preziosa eredità di famiglia. I frutti vengono raccolti a mano ancor prima della completa maturazione, che poi avverrà al chiuso. Sono dette ”pere all’acqua” perché conservate coperte d’acqua per tutto l’inverno, in anfore di terracotta dette ”p’rànn”. Un tempo, per la conservazione, si usava l’acqua piovana. Ricordo che mio padre, nel periodo di Natale, affondava le sue mani in una di queste anfore ed estraeva 2-3 pere alla volta. L’odore era forte, deciso, intenso; le ripuliva sotto l’acqua corrente e poi, in una zuppiera, le mescolava con i “puparuoli sott’acìt'” (papaccelle), le acciughe sotto sale, le olive verdi, uno spicchio d’aglio e un filo d’olio d’oliva, creando un connubio di sapori (dolce, salato e acidulo) che completavano un piatto unico.
Ecco caro prof., questo è un po’ di me, per il resto che ti devo dire, che ho frequentato l’Istituto Professionale Alberghiero di Salerno, dal 1972 al 1975 e che nei periodi estivi, dopo la chiusura delle scuole, ho fatto diversi stage professionali, nel 1973 all’Hotel Certosa a Padula, nel 1974 all’Hotel President di Silvi Marina e nel 1975 all’Hotel Germania a Praia a Mare.
Nello stesso anno, dopo aver conseguito la qualifica di Cuoco, sono stato al Ristorante Bergantino a Napoli, immagino lo conosci, sta nella zona Stazione, ed è lì che grazie alla maestria del grande Chef Alfonso Pelella, ho vissuto emozioni e avuto grandi insegnamenti sulla vera cucina partenopea, oltre alle sue lezioni di vita. Il Maestro non solo aveva avuto molteplici esperienze nei migliori hotel e ristoranti di Napoli, ma aveva anche una grande passione per la Lirica, quando poteva durante il servizio mi regalava una sua breve aria dal Rigoletto o dall’Otello, era un vero e proprio portento naturale.
Due anni dopo, nel 1977, ho la ventura di incontrare un altro grande cuoco, il maestro Tommaso Avanzati, che era stato lo chef della Nazionale Italiana di Calcio ai mondiali di Monaco di Baviera nel 1974, che mi impartisce lezioni di Cucina Siciliana, presso l’Hotel Diana a Sala Consilina.
L’anno succssivo lascio temporaneamente il lavoro di Cuoco e mi dedico forzatamente all’attività di famiglia, non la mia, quella delle scarpe, e così per un po’ di anni sono titolare di un negozio di articoli sportivi. Stanco della monotonia di questo lavoro nel negozio, negli anni seguenti mi sposo, felicemente, incontro una grande donna, e ritorna in me forte la vera vocazione, quella che avevo abbandonato per un po’, la Cucina.
È così che apro un mio locale a Padula, Il Picchio Nero, che per 4 anni mi regala successi e gratificazioni. Protagonista dei miei piatti sono la cucina del mio territorio e la vera Pizza Napoletana, però a un certo punto sento l’esigenza di un nuovo cambiamento, così lascio il ristorante ad alcuni miei allievi e mi dedico per un pò alla crescita dei miei figli.
Sono ritornato in sella nel 1999, quando mi viene offerta una stimolante occasione per contribuire a risollevare le sorti di una struttura che mi era molto cara e che negli ultimi anni aveva subito gestioni poco brillanti. Ci sono restato per dodici lunghi anni a parte una breve parentesi nel 2004, quando chiesi un permesso straordinario per fare una stagione estiva in Sardegna in una struttura a Lido di Pittulongu frequentata da molti cosiddetti vip della Costa Smeralda.
Dopo l’esperienza dei 12 anni mi sono congedato e mi sono dedicato alla gestione di nuove aperture di locali nel mio Vallo di Diano e, nei periodi liberi, trovo l’opportunità di andare in Svizzera, in diversi Cantoni e ristoranti italiani, dove insegno a giovani cuochi la cucina italiana.
Negli anni più recenti ho lavorato sulla costa Cilentana, sul bel porto di Scario, dove ho proposto una cucina di pescato a metro zero, pesci di piccole barche e di clienti esigenti in cerca di sapori antichi e genuini. Ho lavorato a Valmontone, dove ho portato la cucina Napoletana e del mio Parco del Cilento e Vallo di Diano, con grande soddisfazione sia dei proprietari che dei clienti. Ho collaborato e collaboro con il gruppo Grotta, Briganti e Cacio che mi ha stimolato a portare avanti un progetto di riscoperta di nuovi prodotti, tra cui La Pera Lardara o Pera all’acqua di cui ti ho detto prima, che mi offre ogni anno l’occasione di fare attività di ricerca e di promozione per questo antico frutto che stava scomparendo dai nostri luoghi. Perché sì, Vincenzo, collaboro con molto entusiasmo con tutto ciò che è rivalutazione dei prodotti della mia terra ed amo cucinare tutto ciò che è salubre e naturale.
Come dici prof.? Vuoi che t faccia un esempio? Non ho dubbi, la Cuccìa, una minestra di 13 legumi e cereali del territorio. Si mangiava come piatto unico e ci vuole molta pazienza a prepararla, perché ciascun ingrediente va cotto separatamente. C’è stato un tempo in cui poche signore lo preparavano e poi lo distribuivano a tutte le famiglie come gesto di fratellanza e condivisione.
Ecco, direi che con questo ho finito, anzi no, ti devo dire che sono iscritto da oltre 25 anni alla Federazione Italiana Cuochi, allo Slow Food e all’Accademia del Peperoncino di Diamante.
Un abbraccio affettuoso. »
Post Scriptum del 14 Maggio 2019
Caro Diario, ce l’ho, ho chiesto a Luciano la ricetta della cuccìa, mi ha mandato le dosi per 10 persone, noi del Sud siamo fatti così, ci piace abbondare, ma insomma anche per 5 fai presto a fare le proporzioni, eccola qui:
Ingredienti per 10 persone
150 grammi di ciascun legume e cereale;
3 spicchi d’aglio;
100 grammi di polvere di peperone dolce;
1 peperoncino piccante fresco;
olio evo;
sale.
Preparazione
Mettere due giorni prima tutti i legumi e i cereali a bagno separatamene in acqua fredda.
Cuocerli separatamente perché hanno cotture diverse.
A cottura ultimata, in una capiente casseruola versare l’olio e l’aglio.
Appena l’aglio si è cotto toglierlo e aggiungere il peperoncino.
Trascorso qualche minuto, versare tutti legumi e i cereali, la polvere di peperone dolce e il sale.
Cuocere ancora per 40 minuti, aggiungendo l’acqua in cui sono stati cotti i legumi.
Lasciare riposare per almeno un’ora, servire con un filo di olio evo e un crostone di pane tostato.
Si può conservare per più giorni.
Come dici amico Diaro? Alla prima occasione te la prepari? Io può darsi che aspetto il prossimo inverno o può darsi che no, però la prima volta me la deve preparare Luciano, senza offesa, ma penso che per te sarà difficile fare meglio, comunque fammi sapere.