Una vita senza lavoro è una vita senza significato. Pure se tieni i soldi

CASELLE IN PITTARI, 30 NOVEMBRE 2021
Caro Diario, qualche giorno mi è ricapitato sotto gli occhi questo post e mi sono chiesto se mi riconoscevo ancora nel titolo e nel testo. Da lì è stato facile andare alle tante cose che ho pensato e che ho fatto in questi tre anni e mi sono detto “sì Vincenzo, riproporresti titolo e testo.”
Come dici? No, non mi sono fermato qui, mi sono detto che ancora più di 3 anni fa quello che penso io da solo non basta, che il tema merita di essere approfondito, che più persone e più punti di vista sono indispensabili in discussioni come questa, che insomma valeva la pena riprovarci ancora e perciò eccomi qui. L’indirizzo dove inviare il tuo punto di vista lo conosci, partecipa@lavorobenfatto.org, come sempre vale per te e vale per tutte/i coloro che hanno voglia di partecipare. Resto in ascolto.

Caro Diario, il mio amico Mirko Lalli mi ha segnalato un articolo assai interessante di Yuval Noah Harari, sì, proprio lui, l’autore di Sapiens.
Già il titolo, The meaning of life in a world without work, mi aveva incuriosito, e la lettura dell’articolo pubblicato su The Guardian mi ha confermato che più ti confronti con pensieri e punti di vista divergenti dal tuo e più la tua testa, le tue idee, persino la tua vita, ne traggono beneficio.
Sì, perché come sai l’idea di un mondo senza lavoro non mi piace, e non per gli aspetti materiali della questione, della serie senza soldi come si fa a vivere, perché anzi su questo sono d’accordo con Harari, si può vivere anche senza lavoro, se ci pensi già i cittadini greci compresi i filosofi che tanto amiamo di lavoro in senso stretto ne facevano poco, a quello ci pensavano gli schiavi e per noi potrebbero farlo le macchine.

A non piacermi, o se preferisci a non convincermi, è proprio la tesi di fondo di Harari, perché sono convinto che il lavoro abbia un valore non solo in sé ma anche per sé, che insomma sia qualcosa di cui noi sapiens non possiamo fare a meno se vogliamo vivere vite più degne di essere vissute.
Detto che quello penso io sul lavoro che verrà l’ho scritto più volte, con Luca De Biase in questo recente scambio di lettere su Lavoro come identità o come bancomat pubblicato su Il Sole 24 Ore, in maniera più ragionata un po’ di tempo fa in questo articolo nato dal mio incontro con Roberto Paura e il suo Italian Institute for the Future nel quale raccontavo Il futuro del lavoro, insieme a un po’ di altre belle teste a più riprese, per esempio qui e qui, vengo al punto, che riassumo con le parole che Primo Levi nel corso di una conversazione con Philip Roth nel 1986:
«Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del lavoro ben fatto è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale».

Ecco caro Diario, quello che penso io è che solo il lavoro abbia queste caratteristiche, sia in grado di darti questa consapevolezza e questa possibilità: la consapevolezza che ciascuno di noi è quello che sa e sa fare, la possibilità di affermare la nostra dignità di uomini e di donne a prescindere dal contesto nel quale ci troviamo.
Sì amico mio, è il valore del lavoro, è tutto qui. Un valore che è insieme la nostra identità e il nostro destino, un valore e un destino che si manifestano ogni qualvolta riusciamo a mettere, in quello che facciamo, qualunque cosa facciamo, la testa (il sapere), le mani (il saper fare) e il cuore (l’amore per quello che facciamo).
Ecco, questo è quello che penso io, se però dopo che ti sei letto l’articolo di Harari e un po’ delle altri cose che ti ho segnalato scrivi quello che pensi tu sarò felice di pubblicarlo. Sì, certo, anche se quello che pensi tu dovesse essere completamente diverso da quello che penso io.

NUOVI INTERVENTI

Antonella Vecchi
Bisogna riuscire a nobilitare il lavoro, qualunque esso sia, perchè il lavoro riesca a dare significato alla vita. Dunque non è tanto l’avere un lavoro che rende dignitosa l’esistenza umana, ma cosa ne fai di quel lavoro, se riesci a metterci tutto il tuo essere. Allora non è più importante che lavoro fai, ma come lo fai.

Cosimo Saccone
Ho letto con attenzione il post del Prof e i precedenti interventi e ho trovato aspetti di riflessione interessanti e che condivido.
Si tratta essenzialmente di 3 punti:
1. Il concetto di lavoro non è tanto scontato e delimitato come potrebbe sembrare e la sua definizione è problematica, in quanto risente fortemente del sistema di valori (ideologie, credenze, ecc) di ciascun individuo. Alcuni sembrano privilegiare una concezione più materialistica del lavoro come attività che gli umani devono svolgere (volente o nolente) per portare la pagnotta in tavola. Per altri, invece, il concetto di lavoro si allarga anche ad altre attività non immediatamente produttive e che coinvolgono la sfera spirituale individuale e collettiva (mi sento di sposare questa seconda concezione che è quella che sembra sostenere anche il Prof. Moretti). Per cui pensiamo ai tanti poveri sfruttati che fanno un lavoro pesante per pochi soldi ma pensiamo anche a quei tanti (filosofi, artisti, inventori, scopritori, ecc) che con il loro “lavoro” hanno prodotto un progresso per l’umanità, spesso senza guadagnarci un soldo (e, anzi, morendo letteralmente di fame).
Sta di fatto che, nella lingua italiana, il sostantivo “lavoro” e il verbo “lavorare” sono utilizzati in modo molto ampio in tantissime situazioni (non specificamente riconducibili al lavoro classico).
2. Il lavoro contribuisce a definire l’identità della persona. Vero. Il nostro lavoro e, in generale, le nostre attività sono lo specchio della nostra personalità e viceversa. Ci indirizziamo verso determinate attività (e determinati percorsi di studio) in ragione delle nostre passioni, del nostro carattere e dei nostri desideri ma è anche vero che il lavoro ci cambia. Il lavoro modifica la nostra personalità facendoci sviluppare abilità e capacità specifiche. E’ anche vero che l’essere umano, senza svolgere alcun tipo di attività o lavoro, subisce un drastico calo delle capacità cognitive (aspetto riscontrato ad es nelle comunità carcerarie, motivo per cui si cerca di coinvolgere i detenuti in attività di vario genere). Il lavoro è anche un nutrimento per lo spirito.
3. Il titolo del post, a mio avviso (ma non mi pare di essere l’unico), può risultare un po’ brutale specie se lo si decontestualizza. E questo perchè rischia di priviligiare la definizione materialistica del lavoro (la pagnotta) ed essere strumentalizzato da chi decide cosa sia lavoro e cosa no. Ad esempio, se quello del filosofo non è considerato un lavoro, la sua vita, per questo, non ha significato? E la vita dell’anziano pensionato, che riceve un sussidio di carattere previdenziale senza svolgere più alcuna attività, non ha significato?
La definizione di lavoro descritta dal Prof. Moretti, tuttavia, mi piace: “…ogni qualvolta riusciamo a mettere, in quello che facciamo, qualunque cosa facciamo, la testa (il sapere), le mani (il saper fare) e il cuore (l’amore per quello che facciamo).”

INTERVENTI PRECEDENTI

Carmine Ammaturo
Ma chi lo ha detto! Avendo una solida situazione finanziaria si possono fare tante cose interessanti e utili. Comunque l’unica cosa che non si può comprare è il tempo, fatevi due conti, sommate dormire più lavoro e vedete quello che resta …

Maria Gabriella Ragusa
Condivido con Vincenzo la sua voglia di cambiare il mondo. È vero, noi non siamo il lavoro che facciamo ma il modo in cui lavoriamo dice tanto di noi e del significato che diamo al lavoro, qualunque esso sia. Sottoscrivo anche l’affermazione “il lavoro serve a realizzare se stesso. Non é una questione di soldi. È una questione di bisogno intimo e irrefrenabile di essere parte del mondo”. Aggiungerei “e di lasciarvi un’impronta indelebile!”

Piero Vigutto, Cassio Seizeri, Roberto Gattinoni, Domenico Idone, Riccardo Audano, Viviana I.
Piero Vigutto: Come non essere d’accordo con Vincenzo Moretti: una vita senza lavoro è una vita senza significato, pure se tieni i soldi.
#LavoroBenFatto #IlCambiamentoCheVorrei #PieroVigutto
Cassio Seizeri: Tantissime persone fanno un lavoro che non amano, che magari fanno per caso quando non lo detestano. Da qui al ” se potessi non lavorerei”, ci vuole un nanosecondo. Spesso è tardi per trasformare le proprie passioni in ciò che ti dà il pane. È difficile trovare uno sceneggiatore a cui non piace il proprio lavoro e che preferirebbe fare il contabile. Molto più probabile il contrario. Ci sono più contabili o sceneggiatori?
Piero Vigutto: non lo so, ma l’importante è scrivere, dirigere e interpretare la sceneggiatura della propria vita.
Roberto Gattinoni: Sicuramente sono convinto di un principio: a prescindere se ti faccia schifo il lavoro che fai per vari motivi e che non rispecchia le tue aspettative, molto meglio far andare (demotivati) le mani o il cervello o entrambi piuttosto che oziare e lamentarsi.

Domenico Idone: Più che di #lavoro parlerei di sentirsi impegnati su tematiche di proprio interesse. Non è il lavoro o il denaro che ci rende le persone che siamo quanto riuscire ad esprimerci al meglio verso noi stessi e verso gli altri. Questo può avvenire attraverso un lavoro (prestazione remunerata) ma non è scontato o automatico. La piramide di Maslow nella sua semplicità è sempre un’ottima sintesi.
Piero Vigutto: Concordo sulla piramide e sul resto. Una buona sintesi del mio pensiero, Domenico, è che noi non siamo il nostro lavoro ma il nostro lavoro è espressione del sé. Se ci pensiamo non siamo noi che dipendiamo dal lavoro ma il lavoro che dipende da noi. Senza di noi non esisterebbe e senza lavoro mancherebbe una parte di noi. Un interessante simbiosi dove il significato che ognuno dà al lavoro fa da collante tra il sé e il significato che il lavoro ha per il sé.

Riccardo Audano: Come non essere d’accordo? Facilissimo:
1) Il lavoro e’ destinato a scomparire. Si può seriamente pensare che anche solo tra qualche centinaio di anni ci sara’ gente che lavora? Centinaia di anni possono sembrare parecchio tempo, ma non lo sono affatto, e quello che conta ancora di piu’ e’ che la trasformazione è già iniziata. Prima lo capiamo, prima possiamo iniziare a governarla.
2) Certo, in alcuni casi (e sottolineo alcuni casi fortunati) il lavoro è parte della nostra identità. Ma sostenere che senza il lavoro la tua vita non avrebbe significato ha un solo significato: che la tua vita è vuota e triste.
3) Solo una minoranza riesce a svolgere un lavoro “liberamente”, cioè svolge un’attivita’ che farebbe, esattamente allo stesso modo e con le stesse tempistiche, anche se fosse completamente scollegata dal fattore economico. Per il resto del mondo gli interessi e le passioni personali non coincidono totalmente o per nulla con il propio lavoro. Non è dimostrazione di intelligenza fare affermazioni generali a partire dal punto di vista del proprio piccolo angolo personale. E capisco che siamo su LinkedIn, dove lo sport nazionale è vendersi, ma evitiamo almeno le ipocrisie più plateali.
Tra l’altro una società libera dal lavoro sarebbe sicuramente migliore, anche al di là della felicità dei singoli componenti, perché libererebbe la creatività e permetterebbe di esprimere e coltivare il talento di cosi tante persone che ad oggi sono soffocate o limitate dalle necessità economiche.

Viviana I.: Il lavoro occupa la maggior parte della nostra vita, viverla bene significa anche trovare un lavoro che si avvicini il più possibile ai nostri interessi.
Piero Vigutto: Eh sì. Credo che questa sia la parte più difficile. Ma chi cerca trova, prima o poi. Accontentarsi non è mai una buona scelta.

Simone Bigongiari
Secondo me il lavoro stesso deve essere un’occasione di felicità, proprio così, il modo per essere ancora più felice come uomo o donna; non grazie ai soldi ricavati, ma grazie al fatto che lavorare vuol dire contribuire al benessere di te stesso e della comunità. Il lavoro è importante per sé e per gli altri! E questa consapevolezza non può non dare che felicità e soddisfazione.

Piero Vigutto
Il lavoro, fondamentale per descrivere una considerevole parte della nostra vita: “sono Piero e faccio…”
Così ci presentiamo di solito, riferendoci a noi come “chi sa fare” che non coincide necessariamente con ciò che siamo. Strani noi sapiens, tanto evoluti ma ci accontentiamo di una sommaria e generica descrizione di noi stessi.

Alessandro Boni
Il lavoro è a base della dignità umana ed a fondamento non casuale della nostra Costituzione. Rispetto quindi per chi lo cerca, per chi lo detiene, per tutti gli operatori del settore. Davvero ognuno di noi lo pratica il rispetto?

Sara Parroco
Ho proposto in un questionario sulla felicità lavorativa una domanda: se domani conseguissi una vincita milionaria, continueresti a lavorare?
Se anche istintivamente verrebbe da rispondere “Mollo tutto e me ne vado su un’isola caraibica”, quello che in realtà si farebbe è una vacanza per poi tornare indietro e investire parte della vincita in progetti lavorativi. Perché? Perché il lavoro è vita. Il lavoro permette all’uomo di realizzare e realizzare se stesso, gli permette di abilitarsi e nobilitarsi, gli permette di ottenere riconoscimenti personali e sociali, gli permette di crescere e sognare. Non é una questione di soldi. È una questione di bisogno intimo e irrefrenabile di essere parte del mondo.

Francesco Vitelli
Ikigai cerca il lavoro ideale.

Luigi Santoro
Il lavoro come espressione massima dell’individuo
«Piacere, sono Luigi Santoro, studente.»
«Piacere, Mario Rossi, ingegnere.»
«Piacere, Giuseppe Esposito, consulente finanziario.»
Fermiamoci un momento a riflettere: la prima cosa che ci piace dire di noi è chi siamo nel senso di cosa facciamo. Quando non conosciamo qualcuno, quando cerchiamo di stabilire chi siamo per dirlo a terzi, per dare un’idea di noi stessi che possa inclinare la prima impressione del nostro interlocutore, noi “ci qualifichiamo”, innanzitutto. Subito dopo il nome e il cognome sentiamo il bisogno di far sapere che cosa noi facciamo, che cosa ci qualifichi. E oggigiorno ci sono migliaia di modi diversi per qualificarci.
All’Università ci sono perlopiù studenti, professori, dottori. Fuori dal contesto universitario e scolastico troviamo ingegneri, dottori, consulenti, politici e via discorrendo. Ma ci sono nuove figure professionali, più o meno riconosciute, che nascono quasi ogni mese: dai fashion blogger agli esperti di tendenze, dai Professional Video Games Players ai motivatori. Sempre più modi per qualificare l’individuo, per chiarire la sua posizione nel contesto sociale che abita e vive.
Ciò con cui riempiamo la maggior parte delle giornate, insomma ciò che noi facciamo per lavoro, è parte fondamentale e insostituibile di noi stessi. È sempre la risposta alla domanda “cosa vuoi fare da grande” che apre ad un oceano di risposte più disparate. Naturalmente, messi da parte i sogni da bambini, ci si scontra con il nocciolo duro della realtà: per fare qualcosa bisogna saper fare qualcosa. E allora ci si attrezza, ci si impegna: chi vuole insegnare s’ingegna a capire come può farlo, chi preferisce pensarsi come un importante dirigente cerca di comprendere quale sia la strada per arrivare ad una posizione di rilievo e prestigio. Chi ha un talento artistico, musicale, magari cerca di fare della propria passione un lavoro in senso stretto.
Non mi si fraintenda: non penso che si possa lavorare senza passione e la banalità di questa osservazione è solo apparente. Bisogna fare in modo che, in un uomo, in una donna, l’io-che-vive e l’io-che-lavora siano sempre in armonia tra di loro. O, perlomeno, che lo siano la maggior parte del tempo. L’io-che-vive a casa, con gli amici, con la famiglia, che lascia il posto all’io-che-lavora – a scuola, in ospedale, in fabbrica, da casa, in Borsa – e che lo fa senza troppi rimpianti.
Come si può pensare, ad esempio, di dover fare un lavoro che non piace per venti, trenta, quaranta, cinquant’anni? Come si può accettare di vivere un perenne conflitto con sé stessi, tra l’io-che-vive e l’io-che-lavora, per tutta la vita?
Ammetto che ci sia questa possibilità; però non dovrebbe essere considerata accettabile, non dovrebbe essere presa in considerazione. Certo, non dipende tutto da me, non dipende tutto da chi cerca lavoro. Da chi cerca di realizzarsi, che bella parola!, di diventare ciò che si è, Nietzsche non me ne voglia. Ci devono essere le condizioni sociali, temporali, politiche. Ma resto convinto, forse da ingenuo, forse da bambino, sicuramente da entrambi, che abbiamo ancora una importante possibilità di indirizzare la vita nella direzione che preferiamo.
Se il nuovo millennio ha un pregio è proprio quello di permettere una diversificazione delle cose da fare, del lavoro, grazie alle nuove frontiere digitali, grazie al web, a internet, alla nuova realtà del social network in generale. Non so se tra trent’anni ci troveremo di fronte ad una generazione “non impiegabile”; sicuramente l’indecisione permea attualmente quelli che sono “in età da lavoro”, che magari hanno concluso l’Università o la scuola superiore e non sanno bene che cosa “fare”.
E se, come io credo, è vero che gran parte di ciò che siamo dipende dal nostro io-che-lavora, allora è fondamentale che la mia generazione e quella dopo, e quella dopo ancora, trovi il migliore equilibrio possibile con il fare, con il lavoro.

Roberto Paura
Ci sarà ancora posto per l’uomo nella società post-lavoro?

Michele Cignarale
Il lavoro è quella cosa che serve per sentirti vivo. Il lavoro che ti piace è quella cosa che ti fa battere forte il cuore quando lo fai. Il lavoro che ti piace e che è anche ben fatto è quella cosa che ti fa salire tanta di quell’adrenalina che potresti distribuirne ad ogni angolo della strada. Perdi la cognizione del tempo e dello spazio non pensi più a quanto valga o a quanto ti farà diventare stimato e cercato. Il lavoro ben fatto ti rende davvero libero e ti aiuta a liberare gli altri, in una straordinaria sinfonia di sogni e visioni. Grazie Vincenzo per le letture e le suggestioni!

Leandro Mazzarella
La questione del lavoro è centrale oggigiorno, perché mai come nella contemporaneità nuove sue forme (spesso incomprensibili ai più) sbocciano, e vecchie tendono a scomparire. Un po’ come ci raccontava Totò che in un suo film, avendo a mestiere la stesura di lettere e documenti per chi non sapeva leggere e scrivere, non vedeva proprio di buon occhio la crescente alfabetizzazione del popolo.
Oggi le mansioni meno qualificate stanno vedendo la sostituzione degli uomini da parte delle macchine, e si fatica molto, troppo a reintrodurre quelle persone nel mondo del lavoro. Ad ogni modo, non credo che la nostra specie sia destinata, in un futuro lontano ad un totale abbandono all’ozio perché non ci sarà più bisogno di lavorare. A parte che, con la scarsità delle risorse (e il loro essere in uno stato grezzo) ciò mi appare complicato. Secondo me non ci si può limitare a chiedere se le macchine “possano” o meno, se insomma sono in grado di fare le cose, ma, come scriveva un socialista abbastanza radicale circa la rivoluzione industriale, Karl Polany, la comunità politica ha anche l’obbligo, dove sia necessario, di rallentare i processi di sviluppo tecnologico per farli assorbire dalla società e dalle comunità al suo interno. E poi va considerato che senza il lavoro si perderebbe una delle dimensioni di crescita individuale e sociale fondamentali, sin dai tempi della scimmia e il bastone.
Lavorare significa imparare, faticare, guadagnare, scoprire sé stessi e gli altri: emancipazione, crescita, godimento dei frutti. Se poi il proprio lavoro combacia con le proprie attitudini e passioni, riducendo al minimo quelle variabili negative quali possono essere lo stress, la fatica, la noia etc, il lavoro va ben oltre i soldi e la sussistenza: esso diviene esistenza, lavorare VIVENDO.
Ma la verità sta anche nel fatto che, su larga scala, non è facile estendere questo stato di essere e di fare ai molti; la verità è anche l’illibertà di tante persone che sono legate (costrette o meno) ad un lavoro che non piace perché inadatto o perché forma di sfruttamento, e che vivono solo come mezzo per portare il pane a casa. Perché ci sono persone e persone, ma c’è anche lavoro e lavoro.

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