Walter, Partenope e i suoi tanti Ulisse

Bacoli, 21 Marzo 2020
Caro Diario, Walter Tinganelli ha accettao il mio invito a raccontarsi ancora e io sono troppo contento. Perché le mie sono storie, non fotografie, io non aspiro a immortalare l’attimo ma a raccontare una vita, mi piacerebbe che tra 10 anni su questo nostro blog ci fossero tanti racconti di vita. Non è facile, siamo tutti presi dalle cose, ma Walter l’ha fatto e il suo esempio produrrà sicuramente dei risultati. Buona lettura.

PARTENOPE E I SUOI TANTI ULISSE
di Walter Tinganelli

“Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, ferma la nave, la nostra voce a sentire.
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce;
poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.
Noi tutti sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia Argivi e Teucri patirono per volere dei numi;
tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice”.

Caro Vincenzo, come certo saprai sono queste le parole pronunciate dalle Sirene mentre cantano ad Ulisse. Egli, nel frattempo, attraversa con la sua nave uno stretto fazzoletto di mare fra una penisola incantata ed un’isola magica. È un canto dolce, irresistibile e come sappiamo Ulisse per non cedere – le sirene avevano la fama di divorare chiunque fosse rimasto incantato dal loro canto – chiede ai suoi marinai di legarlo all’albero della nave e poi di coprirsi le orecchie con della cera.
Non ti preoccupare, non ho intenzione di raccontare tutta la storia, chi non la consoce la può cercare facilmente, io invece faccio un salto a a quando i greci, sbarcati su di un piccolo isolotto nello stesso golfo trovano il corpo senza vita di una di queste sirene e decidono di fondare una città isolotto di Megaride e di dedicarla a una delle sirene, Partenope. È così che nasce Napoli.

Posso dire che la NeaPolis fondata sulle rovine della bella Partenope, conserva oggi la stessa magia?
Napoli è una città stupenda, e però tremenda al tempo stesso.
È incantata, e con il suo canto ammaliatore attira a se. Proprio come una volta, anche oggi Ulisse, colui che è sempre in viaggio, lo sa bene. Chi vive sotto il canto della sirena infatti, non se ne accorge neanche più. È estasiato da tanta bellezza, da tanto amore, e lentamente si lascia divorare da questa meravigliosa Sirena.
Ma chi è lontano, chi torna di tanto in tanto, riesce ancora a sentire il suo canto magico e misterioso, ed ogni volta, deve legarsi all’albero della sua “vita di sempre” per poi poter ripartire dopo una breve visita.
Ulisse infatti pensa di stare bene. Vive altrove in qualche città lontana, una città che gli ha dato un lavoro migliore, una casa, nuovi amici, un nuovo porto sicuro in cui riposare.
Ma egli sa anche che il canto della Sirena è sempre li, e sa che ogni volta che si avvicinerà lo sentirà e sarà una fatica ripartire, sarà doloroso, sarà estenuante. In cuor suo, ogni Ulisse sa quanto gli manca il canto di quella Sirena e quanto difficile è stare lontano.
Nel silenzio assordante della vita lontano da casa, i figli di Partenope, gli Ulisse, si adattano.

Anche io sono uno di questi Ulisse. Sempre in viaggio da oramai 12 anni. Di tanto in tanto torno nella mia Napoli per ascoltare il magico canto. Ho sulla pelle i segni delle corde che, di volta in volta, stringo più forte prima di tornare.
Vincenzo, come i nostri lettori sanno sono un biotecnologo e oggi vivo in Germania.
Vivo in Germania, dopo un’Odissea che mi ha portato prima in Giappone, terra stupenda, magica che ancora oggi è nel mio cuore, e poi a Trento, terra incantata tra le Alpi.
Mi occupo di radiobiologia in generale, e di adroterapia, una nuova branca della radioterapia.
La adroterapia viene utilizzata per trattare alcuni tipi di tumore. Essa non utilizza i più convenzionali raggi x, ma particelle, ioni, che vengono “sparati” nel tumore. Questa tecnica, non più sperimentale, è più precisa della radioterapia convenzionale, ed è più efficiente verso tumori radioresistenti, tumori che non sarebbe possibile trattare con raggi x. Inoltre, essa provoca meno danno ai tessuti sani circostanti il tumore stesso.
Studio nuovi ioni che possano essere utilizzati per la terapia, al momento la terapia utilizza infatti protoni e ioni carbonio (atomi di carbonio da cui vengono strappati degli elettroni), ma altre particelle potrebbero andare meglio per alcuni tipi di tumore forse, noi cerchiamo di capire come e perchè. Un po’ come disegnare nuovi bisturi per un chirurgo.

Oltre a questo, con il mio lavoro provo a rispondere ad altre, a mio parere, affascinanti domande.
Dal tumore, alcune cellule, a seguito di qualche segnale biochimico, si staccano e iniziano a circolare nei vasi sanguigni e nei vasi linfatici del paziente. Queste cellule sono oggi conosciute come cellule tumorali circolanti (CTC). Esse dunque circolano fino a trovare una nuova collocazione. Arrivate a destinazione queste cellule attecchiscono. Restano in uno stato quiescente per lungo tempo prima di riattivarsi e sviluppare metastasi. Ma cosa dice alle cellule di migrare? Come fanno a scegliere dove attecchire? Cosa da alle cellule il segnale per tornare ad essere delle normali cellule tumorali e a proliferare di nuovo formando metastasi?

Molti tumori hanno delle zone di ipossia. Zone in cui la concentrazione di ossigeno è bassa. Questo perché i tumori crescono in maniera disordinata. Molte cellule crescono dunque lontane dai vasi sanguigni che le riforniscono di ossigeno. Inoltre l’architettura del tumore stesso è disordinata e si creano spesso vasi ciechi, costruzioni, etc… Le zone di ipossia dei tumori, sono particolarmente aggressive e, purtroppo, spesso, anche resistenti a molte terapie. Come si possono sconfiggere queste zone ipossiche dei tumori? Che caratteristiche hanno le cellule che si trovano in queste nicchie ipossiche?

La radiobiologia è strettamente collegata alla fisica, per ovvi motivi. Il principale campo di applicazione è la medicina, ma essa si occupa anche dello spazio.

Sulla terra, nella nostra casa, nei nostri letti, siamo costantemente esposti a radiazione. È normale, naturale. Questa radiazione arriva dalle pietre, dalle cose che mangiamo e dal nostro stesso corpo, si, noi stessi siamo radioattivi.
Ma nello spazio, la radiazione è molto più forte.
Per intenderci, proviamo a capire cosa è un Sievert.
Il Sievert è una misura degli effetti e del danno provocato dalla radiazione su di un organismo.
Il millisievert (mSv) è la millesima parte di un Sievert, come si può leggere anche su Wikipedia, da dove ho preso la tabella che riporto qui:

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Come si può vedere, in questo momento, mediamente, ognuno di noi è esposto a 3 mSv di radiazione/anno.
Nella Stazione Spaziale Internazionale (ISS) un’astronauta riceve una dose media di radiazione di 1 mSv al giorno. Una quantità di molto superiore a quella che riceviamo noi sulla terra. In soli 3 giorni un’astronauta supera il fondo annuale di radiazione terrestre.
Perché questa differenza?
Nello spazio esiste quella che si chiama radiazione cosmica galattica. Questo tipo di radiazione è formata da particelle, ioni, proprio come quelli che usiamo in adroterapia, accelerati ad altissima velocità da fenomeni astronomici impressionanti come le esplosioni di stelle.
Queste particelle velocissime bombardano la terra costantemente.
Tutti noi siamo, più o meno, schermati dall’atmosfera e dal campo magnetico terrestre, ma gli astronauti, nello spazio, non sono protetti. Per questo motivo subiscono questo bombardamenteo costante. 
Quanto è pericolosa questa radiazione spaziale? Questa ed altre domande del tipo,
Come possiamo diminuire la dose che un astronauta riceve in una missione spaziale magari in un viaggio verso un altro pianeta?
Come possiamo ridurre gli effetti della radiazione sugli astronauti durante i loro viaggi?
Sono solo alcune delle domande a cui proviamo a rispondere.

Ed è proprio da una di queste domande che nasce uno dei progetti, a mio parere, più affascianti. Quello dell’Ibernazione sintetica.
Negli anni ’60, durante le prime missioni spaziali umane, quelle che nel 1969 porteranno, con l’Apollo 11 i primi due uomini sulla Luna, Neil Armstrong and Edwin (Buzz) Aldrin, si scoprì una incredibile proprietà degli animali in ibernazione (letargo). Questi animali, durante l’ibernazione, diventano più radioresistenti.
Nessuno fu in grado di spiegare il perché.
Gli studi terminarono quando qualcuno si pose il problema dell’utilità di tali studi, alla fine, l’essere umano non può essere ibernato, o no?

Se si guarda al mondo della natura, si potrà notare che l’ibernazione è una condizione abbastanza comune per molti animali. Esistono diverse forme di ibernazione, una ibernazione giornaliera chiamata torpore, una ibernazione calda detta estivazione, etc. Tutti questi animali però hanno un comune antenato, un piccolo animaletto che viveva all’ombra dei grandi dinosauri.
Ed è da esso che discendiamo anche noi. Esso era in grado di attivare e disattivare il suo metabolismo.
È dunque possibile che anche l’essere umano sia in grado di andare in ibernazione e che l’abbia “dimenticato”?

Alcuni colleghi dell’Università di Bologna, il gruppo del Dr. Cerri, sono riusciti in una incredibile impresa, hanno creato ciò che oggi chiamiamo torpore sintetico o ibernazione sintetica.

Ebbene, in collaborazione con questo gruppo dell’Università di Bologna, l’INFN e l’Università Partenope di Napoli abbiamo avuto modo di verificare che anche questa ibernazione sintetica è capace di indurre radioresistenza.
Altri studi sono in corso adesso per comprendere il meccanismo a livello molecolare.
Capire questo meccanismo ci potrebbe permettere, speriamo, di riprodurlo negli esseri umani per facilitare le future missioni spaziali su altri pianeti lontani, ma potrebbe aiutare tanto anche tutte le persone che subiscono ictus, infarti e forse anche coloro trattati con radio o adroterapia.

Pirma di salutarti Vincenzo, e con te le nostre lettrici e lettori, ti voglio dire che il mio tanto girovagare mi ha portato anche a lanciarmi in nuove avventure che si discostano dalla scienza.
Durante il mio soggiorno in Trentino, ho rivisto un mio carissimo amico, collega un tempo, in Accademia Aeronautica, Marcello Favalli, bresciano.
Un giorno che si trovava a Trento per una conferenza mi chiama e mi dice: “So che da un po’ vivi a Trento. Io sarò a sociologia per parlare di una mia idea, una nuova app. Ti va di venire a sentirmi? Magari dopo ci prendiamo un buon caffè”. Decido di andare.
Tanti giornalisti sono lì ad ascoltare il mio amico.
Mentre ascolto, penso che l’idea sia geniale. Parla di un’applicazione che vorrebbe fare, una app della logistica, un nuovo modo di mettere in contatto chi ha necessità di spedire qualcosa con chi quel qualcosa può trasportarlo magari guadagnando una piccola somma di denaro, dice.
Fa un esempio: “Oggi devo fare un viaggio da Trento a Brescia per tornare a casa. Quando la app sarà pronta, potrò, dopo essermi registrato, offrirmi per il trasporto di un pacco, un oggetto, una qualsiasi cosa, anche un cavallo”, dice ancora, ridendo.
“Chiunque avrà l’app, potrà vedere che io sto per fare quel determinato percorso e potrà contattarmi. Una volta in contatto avremo la possibilità di una chat privata in cui, io e lui, concorderemo il prezzo del trasporto”.
Grande idea, penso, è una sorta di Blablacar delle merci, mentre lui, continuando dal palco, dice “è come una Blablacar delle merci. Anche se, in questa app io vorrò utilizzare anche la competenza di trasportatori professionisti”.
E continua: “C’è un professionista dei trasporti, ce ne sono in sala?” Si alzano diverse mani. “Ecco, con questa nostra app anche voi potrete utilizzare la nostra piattaforma, sfruttando a pieno la tecnologia e la forza della community per viaggiare sempre a pieno carico, addio corse a vuoto”.
Coloro che avevano alzano la mano fanno cenno di si con la testa, mentra un giornalista chiede: “ma un professionista non viaggia sempre a pieno carico?”
“No” risponde il mio amico. Dopo un’attenta ricerca ho trovato un valore incredibile. Il 25% dei mezzi di trasporto viaggia a vuoto. I piccoli trasportatori soprattutto non sono in grado di viaggiare sempre a pieno carico. Con questa app quindi, non solo puoi far guadagnare qualcosa a chi ha bisogno, non solo velocizzi le spedizioni e rendi il tutto molto più facile, ma riduci anche l’inquinamento e il traffico evitando che ci siano dei mezzi che girano a vuoto”. Il pubblico in sala applaude, io sono eccitato all’idea di far parte di questo progetto.

Andiamo dunque a bere un caffè ad un bar vicino l’Università, ed è li, che decidiamo di diventare soci e di fondare la nostra app.
Grazie all’aiuto di altri fidati amici e delle nostre famiglie, poco tempo dopo nasce SiWeGO, una app che oggi si può scaricare su tutti i telefonini in Italia e in quasi tutto il mondo.

Ulisse quindi è ancora in viaggio caro Vincenzo. È ancora al timone della sua nave. Sa che altre volte si troverà di nuovo in prossimità di quel golfo e che ancora e poi ancora, dovrà legarsi all’albero della sua nave per resistere ancora. Sa che porterà nuovi segni sulla sua pelle e che mai riuscirà a vivere libero dall’insopportabile peso della mancanza della famiglia e del canto di quella sirena.
Ma Ulisse sa anche che, il viaggio, è l’unica possibilità per aumentare le opportunità, Ulisse sa che il viaggio è qualcosa che non ti porta da un punto ad un altro solamente, è qualcosa che nel mentre ti porta ti trasforma lentamente. Ulisse sa che “le radici sono importanti, ma sa anche che gli uomini hanno le gambe, e le gambe sono fatte per andare altrove”, come ha scritto Pino Cacucci.
Ed è per questo che nonostante il canto della sirena sia il più bello e magico mai ascoltato in tanto girovagare, il mio posto è il mare aperto, lontano da porti sicuri, legato all’albero della mia nave!
Alla prossima amico mio.

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Caro Diario, Walter Tinganelli, 37 anni, attualmente è post doc al Trento institute for fundamental physics and applications (TIFPA), che fa parte dell’istituto nazionale di fisica nucleare INFN. Precedentemente è stato assegnista di ricerca presso Gesellschaft für Schwerionenforschung e Appointed Scientist presso il National Institute Radiological Science (NIRS), ha studiato all’Università DI Napoli “Federico II” e poi alla Technische Universität di Darmstadt, Francoforte, Germania, città nella quale ha vissuto per alcuni anni dopo essere stato nei due anni precedenti a Chiba-shi, Chiba, in Giappone. A Walter un po’ di tempo fa avevo chiesto di raccontare un pezzo della sua storia di cervello in giro, o in fuga, che a volte il confine tra l’una e l’altra condizione è davvero assai labile. Questa volta qui invece no, questa volta la sua storia mi è parsa così significativa della condizione di più generazioni che ho pensato di riproporla qui.
Buona lettura.
wt1Darmstadt, 13 Giugno 2014
Oggi, passeggiando di ritorno dal lavoro, mi è capitato di ascoltare due signori di età sulla 60ina. Parlavano dei giovani di oggi, ci definivano la gioventù bruciata.
Giuro, avrei voluto sedermi, prendere un caffè e parlare con loro per dire semplicemente di non definirci così, la gioventù bruciata, ma non perché sia un’offesa, anzi, rispetto alla nostra condizione reale sarebbe bellissimo essere una gioventù bruciata.
Ma si, bruciato è qualcosa di già compiuto, già finito, ma significa anche ardere, correre veloce nelle tappe della vita. No, noi non siamo la gioventù bruciata, noi siamo i giovani che salutano di continuo gli amici, quelli che si spostano in continuazione di città in città, di Stato in Stato, da un continente all’altro.
Mi ricordo che da piccolo, quando si viaggiava, i miei genitori prendevano le valige da qualche posto nascosto, sotto metri di lenzuola piegate. Si prendevano le valige per un breve viaggio, un viaggio che sarebbe finito presto e che si sarebbe concluso con i regalini da fare a parenti e amici di una vita. La mia valigia invece è sempre li, ben visibile, sull’armadio, dietro un divano, sempre pronta ad essere usata.
La mia casa? Non è mai davvero la mia, ha sempre una foto pronta ad essere rimessa in borsa, ha i messaggi degli “amici di quel posto o di quell’altro posto”, amici che fra di loro non si conoscono neanche.
Non ho la “comitiva” come ce l’avevo una volta, non ci vediamo al bar sotto casa, il posto dove vivo non ha il mio odore e spesso le pareti non sono del colore che vorrei.
Si è vero, viaggiamo molto di più, e questo è bellissimo, ma non scegliamo sempre i nostri viaggi e le nostre amicizie, non scegliamo sempre le nostre mete, siamo quelli abituati a vedere i nostri genitori e le nostre ragazze come i mezzi busti della televisione, ci vediamo su Skype, ci scriviamo su Facebook, ci mandiamo messaggi su whatsapp.
Sì, noi siamo quelli che per avere una moglie e dei figli aspettano di stabilirsi e stabilirsi sembra un sogno, siamo quelli che ci emozioniamo quando qualcuno di noi, la popolazione dei migranti, ce la fa, e siamo tristi quando dobbiamo partire o quando li vediamo partire, quando dobbiamo crearci di nuovo un ambiente che sia qualcosa da chiamare “casa”.
No, non siamo la gioventù bruciata, siamo al massimo la gioventù della carbonella, quella che per cuocere qualcosa ha bisogno di tanto tempo, di tanta aria, di molti tentativi, perché noi non bruciamo le tappe, le percorriamo lentamente, a volte facciamo dei giri immensi, qualcuno è ancora alla partenza aspettando di sentire un segnale di via che forse non arriverà mai. Alla fine è così, cuociamo lentamente il nostro pasto nella speranza che quando sarà cotto, se non se lo saranno già preso politicanti o burocrati annoiati, non saremo troppo vecchi e avremo ancora i denti e la forza per poterlo masticare e gustare.