Caro Diario, ci stanno ancora persone in questo mondo che quando dicono una cosa la fanno, e spero che non mi consideri troppo ottimista se aggiungo che a mio avviso sono parecchie, è solo che fanno fatica a fare rete, anche perché essendo impegnate a farle, le cose, hanno poco tempo per parlarne.
Il mio amico Giancarlo Carniani è senza dubbio una di queste persone. Lo aveva scritto nel suo diario dalla Cornell University che tornato a casa avrebbe cercato di condividere il più possibile con l’intera comunità di To Florence Hotels le cose che aveva imparato negli USA, lo aveva ribadito nel corso del Serendipity Lab che abbiamo tenuto a Napoli con lui, Mirko Lalli e tanta altra bella gente e l’ha fatto.
È accaduto il 5 Aprile, nella splendida cornice del Mulino di Firenze, un luogo dove tutto si muove e nulla sta fermo, non solo nel senso dell’acqua e della natura, anche nel senso di Platone ed Eraclito.
Perché ci siamo incontrati?
Sostanzialmente per ragionare di tre cose, anzi, come ha detto proprio Giancarlo, di tre semplici cose:
1. Leadership
2. Etica (Principi che condividiamo e rimangono stampati nella nostra testa)
3. Promessa (Brand Promise)
Prima di raccontarti come è andata, e anche un po’ di come andrà, ti voglio dire che nonostante io abbia la fortuna di godere dell’amicizia e di imparare da molte persone davvero straordinarie, Carniani mi colpisce ogni volta per la naturalezza con cui gestisce la sua cassetta degli attrezzi, per la sua voglia di fare più che dimostrare, di imparare più che di insegnare, di camminare insieme più che di correre da solo.
Come dici caro Diario? Se ti faccio qualche esempio capisci meglio?
Perfetto, lo faccio con tre delle sue sessantasei slide, credimi, quasi tutte molto interessanti.
La prima si riferisce alle domande dalle quali è partito lui alla voce leadership:
Ho preparato un percorso di carriera per tutti?
In questa azienda riconosciamo il talento?
Come possiamo crescere?
Ho la possibilità di sperimentare nuove idee?
Che tipo di compiti mi devo dare per il futuro?
La seconda ai campanelli d’allarme quando si tratta di decisione etiche:
Tratti gli altri come vorresti essere trattato tu?
Ti sentiresti a tuo agio se la decisione che stai per prendere fosse sulla prima pagina di tutti i giornali domattina?
Ti sentiresti a tuo agio se i tuoi figli ti stessero osservando mentre prendi quella decisione?
La terza è quella finale e ti dico solo che si intitola «Come il Jazz» e che racconta questo:
Sapere chi è il leader.
Sapere quando è il tuo momento.
Conoscere le regole e sapere quando romperle.
Ascoltare e seguire il lavoro degli altri membri della Band.
Aspettarsi casini, sistemarli e andare avanti.
Focalizzarsi sul presente.
Ti consiglio di tenerle a mente queste slide amico Diario, perché altrimenti è difficile capire bene perché Carniani ha cominciato dicendo che era dispiaciuto di non aver potuto coinvolgere tutto il personale e spiegando i criteri con cui aveva selezionato le presenze: tutti i capi servizio, almeno una persona per reparto, un mix di lavoratrici e lavoratori giovani e anziani. Con in più una promessa: dall’inverno 2018 – 2019 ci sarà una piccola accademia ToFlorence con sessioni fuori dall’orario di lavoro aperte a chiunque voglia partecipare.
Gli obiettivi? Diventare leader. Imparare a gestire un gruppo. Capire chi ha voglia di fare un salto in più.
Ecco, a partire da qui Carniani ha parlato della necessità e dell’importanza di far crescere le persone all’interno dell’organizzazione, di avere dentro le risorse per coprire qualunque posizione in azienda, compresa la sua, anzi no, a partire dalla sua.
Ha detto che lui lo sente quasi come un dovere fare in modo che l’azienda possa sostituirlo senza aver bisogno di guardare fuori. E di essere contento che in To Florence ci sia pochissimo turnover perché questo significa che chi ci lavora ci sta bene, e che però ciò non toglie che un manager è bravo se è capace di offrire a tutti delle opportunità di crescita. E che personalmente è convinto che i gruppi funzionano di più quando le personalità sono molto differenti e miste, proprio come nel caso To Florence.
Come dici amico Diario? A una giornata così ti sarebbe piaciuto molto partecipare? Ti capisco, lo dico a Carniani così magari la prossima volta invita anche te, intanto condivido un ulteriore tema, quello relativo alla necessità di avere una identità e una direzione di marcia il più possibile precisa e condivisa.
In questo caso Giancarlo è partito da quattro affermazioni:
1. Chi riesce a creare una identità perfettamente compresa all’interno e all’esterno dell’azienda ha più possibilità di successo.
2. Una identità precisa è una guida fondamentale per i manager che devono prendere decisioni.
3. Condividere le decisioni strategiche crea la consapevolezza che riesce a motivare l’intera organizzazione.
4. Una direzione chiara aiuta tutti i potenziali stakeholder (clienti, fornitori, collaboratori, azionisti, proprietà) a comprendere meglio gli sforzi per raggiungere gli obiettivi comuni.
A me come sai la parola identità suggerisce tante cose, non a caso secondo Weick è la prima delle sette caratteristiche dei processi di conferimento di senso e significato (sensemaking) che a loro volta hanno un sacco a che fare con i processi cognitivi e con l’attività di prendere decisioni.
Come dici amico Diario? Se ti riassumo il concetto sei contento?Lo faccio con molto piacere.
1. Per Weick la realtà non ha un senso in sé, ma ha sempre e soltanto il senso che a essa attribuiscono le persone, e dunque oggetto di studio non possono che essere i processi cognitivi, le mappe causali, attraverso cui i soggetti conferiscono senso ai loro flussi di esperienza. Ciò naturalmente non equivale a dire che la realtà non ha alcuna incidenza sui flussi di esperienza, dato che soggetti e ambiente attivato sono legati da un costante processo di retroazione e che in questo modo l’ambiente costringe i soggetti a prendere atto di vincoli e compatibilità e ad agire di conseguenza. Vuol dire più semplicemente che le mappe causali, in altre parole le costruzioni dotate di senso e di ordine logico prodotte dall’attività cognitiva, orientano il nostro comportamento e sono modificate dalle esperienze che di volta in volta accumuliamo.
2. Weick individua sette caratteristiche fondamentali del sensemaking, che definisce come un processo fondato sulla costruzione dell’identità, retrospettivo, istitutivo di ambienti sensati, sociale, continuo, centrato su (e da) informazioni selezionate, guidato dalla plausibilità più che dall’accuratezza.
3. Per Weick dare ordine logico, senso, a un flusso di esperienza e organizzare sono esattamente la stessa cosa. I processi attraverso i quali un manager definisce scelte strategiche, decide priorità e aree verso le quali dirigere gli investimenti, assegna compiti ai propri collaboratori, sono la stessa cosa dei processi con i quali egli conferisce senso ai rapporti che ha con collaboratori, rappresentanti di aziende concorrenti, fornitori, banche.
Come dici amico Diario? Secondo te un paio di giornate di approfondimento che coinvolgano l’intero staff fino intorno a questi due temi – come si costruisce senso e significato e come si prendono le decisioni – potrebbe dare una mano alla visione, alla missione e agli scopi che intende portare avanti Carniani? Sono d’accordo. Forse una volta glielo ho anche accennato, ma l’ho fatto male, mentre discutevamo di cento altre cose, invece il tema merita un’attenzione specifica, come diceva mio padre con calma si fa tutto, o comunque parecchio.
Tornando al 5 Aprile, ci tengo a dirti che come aveva promesso – vedi che il tema ritorna? – Giancarlo ha proposto un percorso molto partecipato, con un costante coinvolgimento di tutti i partecipanti, come singoli e come componenti di gruppi ogni volta diversi, un po’ come ha fatto esperienza alla Cornell University, con analisi e discussione di casi di studio che hanno riguardato tutti e tre i temi principali trattati, Leadership, Etica e Brand Promise.
Come dici? Anche qui ti piacerebbe saperne qualcosa di più?
Dovrei scrivere un libro amico mio, e non è detto che non ci pensi. Facciamo così, per ora ti metto in fila un po’ di cose.
I titoli di alcune delle esercitazioni
Strategia; Fattori di successo; Motivazioni; Valori; Dilemmi Etici; Analisi valori e cultura aziendale; Mini casi di leadership; Mini casi Etici; La Promessa (Brand Promise).
I 10 valori più votati su un totale di 82 (sono 12 perché gli ultimi 5 sono ex acqueo).
Onestà 17 voti; Famiglia 15; Salute 14; Crescita 11; Autonomia 10; Conoscenza 10; Affidabilità 9; Amicizia 8; Autostima 8; Indipendenza 8; Passione 8; Fedeltà 8.
Le 10 cose più importanti nel lavoro (1 più importante, 10 meno importante)
1. Lavoro interessante; 2. Ambiente sereno con i colleghi; 3. Sensazione di essere coinvolto; 4. Opportunità di carriera; 5. Apprezzamenti per il lavoro svolto; 6. Buone condizioni di lavoro; 7. Disciplina; 8. Buono stipendio; 9. Sicurezza; 10. Aiuto dell’azienda per problemi personali.
Ecco caro Diario, questo è davvero solo un po’ di quello che è accaduto il 5 Aprile.
Il finale l’ho lasciato per la domanda impossibile, una domanda che è tornata più volte nei ragionamenti dell’ultimo anno con Carniani e che potrebbe essere formulata più o meno così:
Come si fa a acquisire la continuità che ti permette di mettere in pratica in ogni occasione tutto quello che sai e sai fare, a fare in ogni momento un lavoro eccellente, a vedere i problemi prima che si creano e a risolverli quando ci sono, a rispettare la promessa che fai, a funzionare come il jazz insomma.
Come dici amico Diario? È davvero una domanda impossibile?
Questa volta non sono d’accordo, e modestia a parte – come sai tra i tantissimi difetti che ho la presunzione non c’è – penso di sapere come si fa, e lo sa di certo anche Carniani, anche se lui ci crede un pochino meno di me, ma non perché io sono più bravo, perché lui combatte al fronte mentre io me ne sto nelle retrovie protetto dalle pagine dei miei libri e dallo schermo del mio computer.
Secondo me per funzionare come il jazz e rispondere alla domanda impossibile bisogna abituarsi.
Sì, bisogna abituarsi a mettere in pratica in ogni occasione tutto quello che sai e sai fare, a fare in ogni momento un lavoro eccellente, a vedere i problemi prima che si creano e a risolverli quando ci sono, a rispettare la promessa che fai.
Abituarsi proprio come ci siamo abituati ad allacciarci ogni mattina i lacci delle scarpe nel modo giusto.
Naturalmente l’abitudine ad agire in questo modo non riguarda solo le persone che lavorano a ogni livello per una determinata organizzazione, riguarda anche e prima di tutto l’organizzazione stessa, la sua cultura organizzativa, i suoi artefatti (architettura, tecnologia, gergo, simboli, rituali e più in generale tutti gli aspetti immediatamente rilevabili), i suoi valori espliciti (idee guida, modelli di comportamento, indicazioni fatte circolare dal management per rinsaldare identità, senso di appartenenza, solidarietà tra i componenti dell’organizzazione), i suoi assunti di base (convinzioni dotate di una propria coerenza interna tanto profonda che non vengono esplicitate, talvolta perché sono date per scontate, altre volte perché gli stessi componenti dell’organizzazione non ne sono consapevoli).
Sì, per me se si lavora come si deve sulla cultura organizzativa è solo questione di tempo prima che le persone apprendano che fare bene le cose è possibile, è bello, ha senso, è giusto e, soprattutto, conviene. E una volta che lo hanno appreso ci si abituano, e fanno le cose nella maniera in cui vanno fatte, e le migliorano quando pensano che si possano migliorare, perché insomma a nessuno verrebbe in mente di allacciare il laccio destro della scarpa con il laccio sinistro una volta che sa come si fa e si è abituato a farlo nel modo giusto.
Come dici caro Diario? Detto così sembra possibile anche a te?
Sono contento, così adesso siamo in tre, Giancarlo, tu e io. Vedrai che prima o poi ce la facciamo, l’importante è che non ci scordiamo mai che siamo tutti essere umani, e che gli essere umani sbagliano, fanno errori.
Come dici amico mio? Così ti confondo di nuovo? Ti sembra di ricominciare daccapo?
Niente affatto. Ricordati cosa ha scritto il grande Ernst Mach: «conoscenza ed errore discendono dalle stesse fonti psichiche; solo il risultato permette di distinguerli. L’errore riconosciuto con chiarezza è, come correttivo, altrettanto utile cognitivamente della conoscenza positiva».
Alla prossima.
Caro Diario, Rodolfo Baggio, dopo aver letto questo post, mi ha inviato una bella lettera e come sempre mi fa piacere condividerla con te, che magari il suo resta un caso isolato o magari no, e anche altre/i amiche e amici scrivono qualcosa, sempre della serie che due «cape» sono meglio di 1, 4 sono meglio di 2, 8 meglio di 4 e così via, fino all’infinito e oltre. Buona lettura.
IMPRENDITORI
di Rodolfo Baggio
Caro Vincenzo,
ho letto con gran piacere il tuo ultimo post su quell’incredibile personaggio che è Giancarlo Carniani.
Giusto qualche giorno fa rilanciavo una citazione di Adriano Olivetti: «La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica.»
Ecco, Giancarlo mi fa tornare in mente una stagione “felice” dell’industria italiana, quella di uomini come Olivetti, e di altri come lui, che avevano posto al centro delle loro attività il riconoscimento che capitale umano e capitale sociale sono l’elemento fondamentale sul quale costruire una civiltà del lavoro. E che su queste basi hanno ottenuto risultati incredibili. Civiltà che però oggi, in moltissimi casi, pare dimenticata, dopo quella infelice stagione nella quale la “finanza creativa” prese il sopravvento con i risultati che sappiamo. O per quell’ossessivo ricorrere al “libero mercato” (de noantri) che vene invocato solo quando fa comodo, per poi lamentarsi e chiedere aiuti pubblici quando qualcosa va male.
Sento a conferenze e dibattiti numerose affermazioni sull’importanza delle persone, delle loro capacità e qualità, e su come queste siano importanti nel mondo del lavoro. Ma troppo spesso si vedono poi nella pratica comportamenti e atteggiamenti che contraddicono palesemente le affermazioni di principio. E questo soprattutto in alcuni ambiti come quello del turismo.
Come ben riassume Annamaria Testa parlando del manifesto del lavoro ben fatto: «l’idea di lavoro ben fatto implica che ogni lavoro sia importante e possa avere una dignità, una qualità e un valore. Che il valore vada retribuito. Che il buon risultato qualitativo vada apprezzato e che la dignità vada riconosciuta.»
Sarebbe assai bello che personaggi come Giancarlo, e con lui quei pochi altri dello stesso genere, si moltiplicassero, e ci si riappropriasse dell’idea che un’impresa, qualunque essa sia, deve sì essere capace di fare profitti, ma deve soprattutto incidere sul benessere, sulla crescita e sullo sviluppo di una comunità.
Caro Diario, è arrivata anche la risposta di Giancarlo a Rodolfo che, insieme all’affetto e all’amicizia, propone ulteriori elementi di riflessione che mi fa piacere condividere con te.
GIANCARLO CARNIANI
Rodolfo Baggio grazie. Noi nel nostro piccolo cerchiamo di fare un #lavorobenfatto. E penso che esista in Italia una classe imprenditoriale che pensa e lavora come cerchiamo di fare noi. Ma a volte in questo paese ci vuole un coraggio da eroi per fare le cose più semplici e di buon senso. L’etica in questo paese si è deciso che debba essere imposta attraverso le leggi e se mi giro e guardO intorno non mi pare che i risultati siano incoraggianti. Ma rimango sempre un inguaribile ottimista e non bisogna mai abbandonarsi al «lo fanno tutti che problema c’è».
Sono grato a questi anni in cui ho conosciuto persone straordinarie come te e Vincenzo che non si ‘adattano’ ma cercano di dare un contributo per cambiare le cose. E questo mi basta.
Caro Diario, il mio amico M. B., al quale avevo suggerito di leggere il post, mi ha mandato un messaggio con una riflessione sulla leadership che ha il grande pregio di essere allo stesso modo personale e generale, e insomma mi ha colpito molto e perciò te la passo.
Sono poche righe, però adesso che le leggi non mi fare il torto di pensare che mi ha colpito tanto perché anche io 25 anni fa ho fatto lo stesso errore del mio giovane amico, perché è vero il contrario, nel senso che solo i veri leader quando perdono pensano agli errori che hanno fatto loro e non alle cose che hanno o non hanno fatto gli altri.
M. B.
Caro Vincenzo, ho letto il tuo articolo e mi ha colpito soprattutto la metafora del jazz. È vero, uno può essere un fenomenale solista ma se la band non ti viene dietro, o decidi di suonare da solo, cosa pur legittima, non funziona. Devi trovare comunque il modo per far andare tutti a tempo, altrimenti gli altri non si sentono importanti, avvertono per l’appunto, sempre usando le tue parole, di non avere un “senso”.
In tutto ciò ci riconosco il mio errore, il mio spartito era forse troppo difficile da seguire e, come diresti sempre tu, non è che ciò significhi che non fosse giusto e che io non sapessi “suonare”, significa solamente che non è riuscito a tenere assieme e a far suonare come doveva il gruppo.
Scusami se mi sono permesso di calare i concetti espressi nel tuo articolo nel mio vissuto, ma ciò mi permette di condividerne meglio il senso e di poterci ragionare sopra insieme a te.