La cultura organizzativa di Edgar e Joanne

Caro Diario, è da qualche anno che tengo chiusa in un cassetto l’idea di rimettere mano al mio Dizionario del Pensiero Organizzativo, la cui ultima edizione, la terza, è stata pubblicata da Ediesse giusto 10 anni fa.
Per la verità non è soltanto un’idea, perché alcune voci le ho anche già scritte o riscritte, ma comunque il lavoro che rimane da fare è tanto, e non a caso mi sono trovato un complice, molto giovane e molto bravo però anche molto impicciato, e mentre le due prime caratteristiche sono di quelle che aiutano, la terza invece no.
Detto questo, quando qualche giorno fa ti ho raccontato la giornata trascorsa a discutere con il mio amico Giancarlo Carniani e il suo staff di leadership, etica e brand promise avevo fatto un giro anche  dalle parti del mio Dizionario, e avevo citato Edgar H. Schein, ripromettendomi di ritornarci su.

Allora amico Diario, la prima cosa che è utile tu sappia è che secondo Schein per comprendere un’organizzazione bisogna comprendere la sua cultura, data dal sapere e dal saper fare che essa inventa, scopre, sviluppa, nel corso della propria storia, per rispondere ai bisogni sia di adattamento esterno che di integrazione interna.
Schein sottolinea che perché si formi una cultura all’interno di una organizzazione è indispensabile che ci sia un gruppo che sta insieme da tempo, che ha condiviso e affrontato problemi importanti, che ha monitorato gli effetti che le diverse soluzioni hanno determinato, che ha inventato o scoperto risposte valide che vengono trasmesse in quanto tali ai nuovi arrivati (le risposte vanno ritenute valide non solo quando risolvono i problemi ma anche quando riducono l’ansia del gruppo).

Più specificamente, Edgar H. Schein sostiene che lo studio di una cultura organizzativa può essere condotto a tre diversi livelli di analisi:
1. artefatti (architettura, tecnologia, gergo, simboli, rituali e più in generale tutti gli aspetti immediatamente rilevabili);
2. valori espliciti (idee guida, modelli di comportamento, indicazioni fatte circolare dal management per rinsaldare identità, senso di appartenenza, solidarietà tra i componenti dell’organizzazione);
3. assunti di base (convinzioni dotate di una propria coerenza interna tanto profonda che non vengono esplicitate, talvolta perché sono date per scontate, altre volte perché gli stessi componenti dell’organizzazione non ne sono consapevoli).

A suo giudizio sono in particolare gli assunti di base che, combinandosi tra loro in variegati modi, danno conto dell’identità dell’organizzazione e determinano i sistemi di convinzione che sono la base della sua cultura. Essi devono perciò possedere una coerenza interna sia nelle combinazioni degli assunti stessi che nel rapporto tra assunti, valori espliciti e artefatti, in maniera tale che l’organizzazione non sia messa in crisi da scetticismo, sfiducia e cinismo.

Gli assunti ritenuti validi, capaci cioè di reggere alla prova dei fatti, diventano per l’organizzazione un punto di riferimento e vengono trasmessi ai nuovi componenti come la maniera corretta di percepire, pensare, reagire rispetto ai problemi, tanto quelli relativi all’adattamento con l’ambiente esterno (obiettivi, strategie e mezzi necessari a conseguirli, valutazione delle prestazioni ecc.) quanto quelli relativi all’integrazione interna (capacità del gruppo di funzionare come tale, consenso intorno ai criteri di inclusione e di esclusione dei suoi componenti, distribuzione del potere, definizione di premi e sanzioni).

I problemi possono essere insomma affrontati solo se gli assunti dell’organizzazione, la sua cultura, funzionano bene e sono considerati validi. E nelle occasioni in cui esiste una oggettiva tensione tra la tendenza alla conservazione del patrimonio consolidato e la spinta all’innovazione, toccherà alla leadership gestire in maniera equilibrata questa tensione, definire percorsi di adattamento reciproco in grado di valorizzare tanto la cultura storicamente consolidata quanto le culture che nuovi componenti o leader portano con sé da esperienze diverse.

Secondo Schein è anche attraverso l’analisi dei processi di inclusione e di socializzazione dei nuovi componenti, le risposte date nelle fasi critiche della sua storia, la valutazione dei suoi caratteri anomali o sorprendenti che è possibile studiare e comprendere la cultura di un’organizzazione.
La capacità di gestire brillantemente situazioni non prevedibili o altamente incerte rappresenta in questo ambito un importante valore aggiunto, uno strumento di management molto più efficace di qualsiasi formula o regola organizzativa.

Prima di mettere la parola fine ti lascio con la citazione che avevo scelto per il Dizionario e con una riflessione di Joanne Martin, che sempre nell’ambito di un approccio culturalista, allarga per così dire il campo di osservazione mettendo in evidenza che la cultura di un’organizzazione può essere interpretata da prospettive diverse e non sempre compatibili tra loro e che è proprio questa incompatibilità che fa aumentare l’ambiguità delle organizzazioni e delle loro culture.

La citazione da Schein, che da sola vale la mia sintesi, è la seguente:
«La cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da poter essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi.»

È però proprio qui che diventa importante non perdere di vista la prospettiva proposta da Joanne Martin. La sua riflessione muove da 4 punti fermi che provo a sintetizzare così:
1. l’identità lavorativa ha una funzione rilevante nella definizione dell’identità sociale e dell’immagine di sé;
2. l’organizzazione per la quale si lavora incide sovente tanto e più del lavoro che si fa nella formazione di tale identità;
3. una solida identità organizzativa non è il risultato della scelta calcolata di un attore che accetta di assumerla né di un attore che pretende di attribuirla, ma costituisce l’esito di processi culturali nei quali si intrecciano componenti razionali ed emotive, logiche strumentali ed espressive, discorsi e pratiche sociali, meccanismi consapevoli e inconsapevoli, bisogni dell’individuo e aspettative dell’organizzazione, desiderio di assumere una identità e voglia di attribuirla;
4. è il combinato disposto di questi fattori a produrre le molteplici prospettive che consentono di leggere e di interpretare la cultura dell’organizzazione alla quale si appartiene.

A partire da qui la Martin individua tre prospettive principali che, poiché non si riferiscono a situazioni oggettivamente esistenti ma a interpretazioni della realtà, possono anche coesistere:
1. la prospettiva integrativa, che individua nella cultura una fonte di armonia e di consenso;
2. la prospettiva differenziante, che identifica nell’ambito di una stessa cultura diverse subculture talvolta in conflitto tra loro;
3. la prospettiva frammentaria, che ritiene che la cultura organizzativa nella realtà non sia altro che un insieme di punti di vista cangianti e ambigui.

Secondo la Martin, il dilemma «amare l’azienda e temere che ti butti fuori» fa parte dell’inconscio collettivo di qualunque organizzazione e ad esso ogni collettività aziendale risponde istituzionalizzando una storia che la esemplifica, cercando per questa via di convivere con il dilemma e di ridurre l’ansia da esso determinata.

Le storie organizzative diventano in questo contesto veri e propri miti di riconciliazione che consentono di gestire le contraddizioni sulla base di processi e percorsi che inducono ad accettarle emotivamente piuttosto che a risolverle razionalmente, ad esempio definendo una gerarchia molto netta tra i diversi valori in campo (es.: al primo posto c’è l’organizzazione, poi vengono i bisogni delle persone che la compongono) o impedendo che le conseguenze di un conflitto da potenziali diventino reali (es.: il management farà l’impossibile perché tutto si risolva per il meglio).

Una possibile morale della storia è che una risposta al dilemma appartenenza – insicurezza si può dare solo caso per caso, interpretando le situazioni specifiche nel loro contesto storico e culturale e tenendo conto del significato che gli attori attribuiscono alla loro condizione. Fine.
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