Caro Diario, quando ho chiesto a Viviana Ruggieri di scegliere tre parole, o concetti, per raccontare Sopravvivere al XXI Secolo di Chomsky, Mujica e Alvídrez e lei ha risposto “punto e virgola, valorizzazione e libertà”, punto e virgola mi ha mandato al manicomio, e la sua spiegazione ancora di più, ma qui mi fermo perché questa storia la devi leggere raccontata da lei. Io aggiungo soltanto che anche lei come Celeste Pinto, che ti ho già raccontato, ha lavorato con la prof. Maria D’Ambrosio e me in Bottega O ed è molto brava, anche se rispetto alla sua amica e collega si nasconde un po’ di più, questioni di carattere; che ha compiuto 23 anni lo scorso 26 luglio; che il papà, Tommaso, laureato in biotecnologie mediche, ha lavorato per una vita in ospedale e attualmente è pensionato mentre la mamma, Antonietta, lavora ancora e fa l’infermiera; che ha anche un fratello di 10 anni più grande, Carmine, che è ingegnere informatico e vive a Torino.
“Caro prof., il mio racconto parte dal bisogno di vivere in armonia con la natura che porto con me da quando ero piccolina e da una capacità di osservazione che in qualche modo e per varie ragoni mi faceva sentire diversa.
Ho sempre notato molto i dettagli e questa cosa mi è rimasta impressa. Per esempio quando andavo a giocare al fiume, un torrente vicino casa nostra, buttavo i sassolini nell’acqua, che era una cosa che mi piaceva tanto fare, e notavo la natura circolare delle onde e pensavo mamma mia, uà, che cosa bella. Immagino che possa sembrare banale ma tenga presente che avevo 4 – 5 anni.
Anche con le persone ho avuto già da piccolina molta empatia, una sorta di capacità di osservare e capire che cosa pensassero in quel momento. È una cosa che ho sperimentato anche da più grande, quando mi sono resa conto che in realtà questa capacità di osservare è positiva da una parte e negativa dall’altra perché con il tempo può diventare pesante, rischia di sfociare nel perfezionismo. Come in tutte le cose ci vogliono le giuste dosi, anche se crescendo mi sono resa conto sempre di più che si tratta di una qualità, nel senso che è importante osservare e capire le persone, e a dire il vero mi piace anche. Diciamo che fino a quando non ho avuto un mio equilibrio ho ritenuto che non fosse una qualità, perché mi metteva a disagio, poi ho capito che questo disagio derivava dalla necessità di guardare, prima che all’esterno, dentro di me. È una cosa che ho scoperto soprattutto quando sono stata in Canada.
È successo quando avevo 15 anni, era d’estate, non avevo niente di particolare da fare, e così ho risposto a un test d’inglese in rete senza accorgermi che era una pagina di un’agenzia che organizzava viaggi all’estero.
Con il responso mi viene chiesto se voglio partecipare a un programma all’estero. In pratica mi si apre un mondo, scopro che una mia vicina di casa, grazie proprio a una borsa di studio, stava facendo un’esperienza di questo tipo, così mi sono documentata, sono andata a casa sua mentre lei era all’estero, sua mamma mi ha aiutato a capire di cosa si trattava e così alla fine ho fatto le selezioni e sono partita con il progetto Intercultura, ho vinto una borsa di studio dell’Inps nell’ambito del programma Itaca.
Sono andata in Canada ed è stata un’esperienza bellissima, ho la bandiera di quel paese appesa in camera mia, sono stata strafelice di essere in Quebec, trascorro lì l’anno dai 16 ai 17 anni, la famiglia che mi ospita diventa la mia seconda famiglia, scopro che sono veramente delle persone speciali.
Stando all’estero, in una realtà e una cultura nuova, nella quale non sai come muoverti, la capacità di osservazione si è dimostrata una qualità cruciale, perché osservi, cerchi di capire le persone, capisci meglio come comportarti. In quel contesto ho capito anche un’altra mia qualità, quella di apprendere le lingue molto velocemente: nell’anno che sono stata lì ho imparato il francese e ho migliorato anche l’inglese perché è stata un’esperienza bilingue dato che vivevo al confine con l’Ontario.
Nell’anno vissuto in Canada è iniziata quella che chiamo la mia rinascita. Quando sono tornata mi sono accorta, ho capito, che in qualche modo avevo lavorato bene su me stessa; in pratica, trovandomi in un contesto nuovo, non avendo più le certezze del nido di casa ho cominciato a conoscere la parte più profonda di me, ho cominciato a capire tante cose, a partire da che cosa piace veramente a Viviana, a cominciare come le ho detto dalla natura, con la quale amo vivere in sinergia.
Mi piace moltissimo anche viaggiare. Senza viaggiare non vivo abbastanza, mi piace scoprire nuove cose, con il tempo ho capito che non solo mi piace ma è essenziale ritrovare sempre un nuovo equilibrio, anche con il mio fidanzato ogni tanto partiamo per visitare posti e cose nuove.
Insieme alla natura e ai viaggi amo la musica, che da quando ero piccola è la mia compagna di vita. Ascolto un po’ di tutto, non mi metto limiti, però i miei generi preferiti sono la techno e l’EDM, anche se preferisco il genere un po’ più soft, il Deep House. Il mio gruppo preferito si chiama Rüfüs Du Sol, è australiano e ovviamente fa musica elettronica.
Il cinema è un’altra cosa che mi piace, adesso che studiando comunicazione mi sto appassionando di più, sto capendo di più le cose. Uno dei miei film preferiti è Interstellar.
Ah, mi piace anche mangiare, però non ho piatto particolare che mi fa impazzire, mangio tutto, proteine, carboidrati e vitamine, diciamo che anche nel cibo ho trovato un equilibrio, cerco di avere uno stile di vita salutare, anche questo ho scoperto insomma che mi piace farlo, anche questo è un modo in cui mi prendo cura di me stessa.
Una cosa che proprio non mi piace, non mi piace tanto tanto tanto, non mi piace per niente, è la superficialità. Quando noto negli atteggiamenti delle persone superficialità mi incavolo, ancora di più persone che si comportano in modo superficiale con me.
Mi dico cavolo, ma come è possibile, io ci metto tutta la cura di questo mondo e dall’altro lato mi arriva questo? Non dico che nei rapporti sociali lo scambio debba essere per forza alla pari, ma perlomeno equilibrato.
Glielo confesso, prof., tendo ad allontanare le persone superficiali, ipocrite, bugiarde, quelle che in faccia ti dicono una cosa ma in realtà ne pensano un’altra. Su questo aspetto non sono disposta a fare sconti, da piccolina ho subito anche qualche episodio di bullismo, anche questo diciamo mi ha portato a lavorare su di me in maniera tale da raggiungere una mia consapevolezza, perché dal momento in cui la raggiungi effettivamente non lasci scampo a nessuno.
Un’altra cosa che non mi piace sono i rapporti basati sull’interesse, capisco l’utilitas, lo scopo, il senso, ma il rapporto interessato, basato sul guadagno, è un’altra cosa e per me è inammissibile.
Una cosa meno importante che pure non mi piace è l’aceto, il limone si ma l’aceto non mi piace.
Tornando alla consapevolezza, ho iniziato a lavorarci a 15 – 16 anni e penso di averla più o meno raggiunta lo scorso anno. Mi sono affidata una professionista con la P maiuscola, al di fuori della famiglia è stato il primo esempio di lavoro ben fatto che ho toccato con mano, nel senso che è effettivamente una psicoterapeuta coi fiocchi.
Con lei ho iniziato dopo un episodio cruciale della mia vita, la morte di mio nonno Pasquale, camionista da una vita, a cui ero molto legata.
Avevo 18 anni quandi mi sono affidata a questa psicoterapeuta e con lei ho continuato a fare il lavoro che avevo iniziato in Canada, ho continuato a scavare e mi sono resa conto che effettivamente c’era tanto da scoprire. Diciamo che man mano ho scoperto tantissimi tasselli di me, mi sono un attimo riscoperta, ho osservato senza avere paletti, che è difficilissimo, tutto ciò che mi piaceva. Ero arrivata a un punto in cui effettivamente non sapevo cosa mi piacesse, ero come apatica, non sapevo riconoscere le emozioni, che invece sono una cosa molto importante.
È stato un passaggio cruciale. Con la guida della mia psicoterapeuta ho iniziato a lavorare tassello dopo tassello e sono arrivata a vari livelli di consapevolezza, l’ultimo che mi mancava era quello dell’università, che naturalmente ha a che fare con il mio rapporto con lo studio.
Allora, alla voce studio direi di cominciare dal fatto che ho sempre amato studiare.
Ho sempre pensato che il sapere, la conoscenza, rende liberi, sempre nel senso di mano a mano che crescevo. In particolare è stato il mio professore di storia e filosofia al quarto liceo scientifico opzione scienze applicate che mi ha fatto comprendere cosa significa studiare veramente, studiare per se stessi non per l’interrogazione o il compito.
È a partire da lì che ho sviluppato un bellissimo rapporto con lo studio, quello più profondo e cruciale, quello che in qualche modo mi ha fatto scoprire la vera natura dello studio utile all’uomo, utile a creare un’identità.
Un esempio per tutti Nietzsche, il prof. ci fece leggere La Gaia Scienza e lì è scoppiato l’amore, mi sono detta Oddio, e ho iniziato a leggere sul serio, e anche questo mi ha aiutato a scoprire effettivamente che cosa mi piacesse e cosa invece no.
Anche nell’ambito del percorso psicologico di cui ho parlato precedentemente mi ha aiutato molto, ho trovato effettivamente delle connessioni con la mia vita, ho scoperto che effettivamente tutto è collegato.
E niente, diciamo quindi che il mio voler conoscere, soprattutto a livello profondo, è iniziato al liceo.
Dopo il liceo mi sono iscritta a ingegneria aerospaziale, forse perché, non lo so, nelle stelle vedevo il massimo a cui aspirare. Diversamente dalle mie aspettative l’impatto con questa facoltà è stato traumatico. Non saprei dire bene, forse il contesto, il fatto che eravamo una massa di gente, i professori che sembravano matti con la loro idea che ogni 100 ne sarebbero rimasti 10, insomma c’era un ambiente molto poco umano, almeno io mi sono trovata così, la mia percezione è stata questa, così mi sono detta qui è tutto troppo pratico e non fa per me. L’anno successivo mi sono iscritta a fisica.
Ho fatto due anni di fisica, ho tentato fino all’ultimo di andare avanti, mi piaceva anche, però studiavo, studiavo e studiavo ma non trovavo soddisfazione in quello che facevo, diciamo che i miei sforzi non venivano premiati, i risultati erano sempre al di sotto delle mie aspettative.
Ora è vero che non si studia per il risultato, però il risultato deve pure venire, non so se mi spiego, altrimenti si entra un circolo dal quale poi diventa difficile uscire, proprio come è accaduto a me.
Sembrava che andasse tutto bene, che con la guida della psicologa avessi risolto i problemi, messo a posto i tasselli, era da un po’ che non facevo più terapia, che è stata un’attività a blocchi, diciamo così. E invece è successo che una mattina, mentre stavo studiando, ho guardato i libri, ho chiuso tutto e sono scoppiata in lacrime perché non capivo cosa stava succedendo, perché provavo di nuovo questo rifiuto per quello che stavo studiando.
Quando sono scesa giù ho trovato mio padre vicino al camino, mi ha guardato, mi ha chiesto perché piangessi e quando gli ho risposto “papà, non ce la faccio” mi ha detto “io non so da quanto tempo l’avevo capito”.
In realtà i miei genitori mi capiscono, tra l’altro anche lui studiava ingegneria spaziale, forse c’è un collegamento, non so, perché anche lui non è riuscito a laurearsi però per ragioni diverse dalle mie, lui voleva, era appassionato, poi suo padre si è ammalato e ha avuto un periodo complicato. Più avanti, con l’influenza, diciamo così, di mamma, ha scoperto il mondo della sanità, si è appassionato e si è laureato. Io ero piccolina quando è successo, ma lo ricordo.
Tornando a me, studiare da una passione era diventato un rifiuto, l’esatto contrario della mia etica, del mio approccio.
È stato molto difficile superare questo scoglio, il fatto che già avessi cambiato facoltà una volta era un peso, ero molto insoddisfatta di me e la mia insoddisfazione la vedevo anche negli altri. Persino nei miei genitori avvertivo un pensiero negativo nei miei confronti, che oggi so che non c’era ma se ci fosse stato sarebbe stato anche legittimo.
Alla fine sia con mio fratello che con me erano abituati che adavamo sempre bene a scuola. Io poi avevo fatto l’esperienza in Canada, di cui i miei genitori erano stati fieri. Insomma nel momento in cui c’è stato l’intoppo mi sono fatta condizionare dalla visione perfezionista di me stessa. Oggi direi che pretendevo molto da me e, invece di capirlo fino in fondo, riversavo un po’ sugli altri la mia insoddisfazione.
Ricordo che li guardavo e dicevo Dio ora sono arrabbiati, sono delusi e altre cose così. Che poi un poco di tristezza, di delusione, ci stava, perché alla fine anche per loro era una cosa nuova; però con il tempo ho capito che non volevano affatto colpevolizzarmi quanto aiutarmi a non perdere la via. Devo dire che oggi penso che quella fase mi è servita per ritrovarmi. A un certo punto ho pensato “vabbè, mi serve uno stacco, mi metto a lavorare”.
Avevo fatto domanda per il servizio civile nel mio paese di nascita, San Lorenzello, in provincia di Benevento, mentre adesso viviamo in un paese vicino, San Salvatore Telesino.
Contemporaneamente ho ripreso a lavorare su me stessa insiema alla mia psicoterapeuta, l’avevo chiamata e le avevo detto “senti, io sto in crisi, non sto capendo niente”.
Nella mia testa riprendere a studiare era l’ultima cosa che mi rimaneva, sentivo un potenziale dentro di me, mi dicevo “io non posso lasciare così, ti sei fermata un attimo, riprenditi la connessione, a te studiare piace, non ti puoi mettere a lavorare così.”
Non mi sentivo realizzata e così mi sono detta che dovevo esplorare tra i corsi di studio. Ricordo che come compito la mia psicologa mi diede quello di analizzare tutte le facoltà e di selezionare le più affini a me.
Ovviamente ero parecchio influenzata dalle mie difficoltà precedenti, e così mi sono indirizzata verso le facoltà umanistiche, mi sono detta che magari così sarebbe andata meglio.
È stato in questo modo che ho scoperto scienza della comunicazione. All’inizio la mia psicoterapeuta mi aveva chiesto quali fossere le cose in cui ero più brava, quelle che mi piacevano di più. E io pensavo “mi piacciono le persone, mi piace scrivere, mi piace cercare, trovare, scoprire nelle parole quella cura, quel pensare, quel riflettere, che viene prima di scrivere qualcosa, quel tempo che c’è tra il riflettere e lo scrivere.”
Sì, quella fase lì mi piaceva molto, nel senso che dava più senso alle cose, e così ho esplorato il corso di studio, mi sono andata a vedere tutti quanti gli esami, tutti i programmi e ho ricominciato daccapo, perché naturalmente non mi è stato convalidato nessun esame precedente.
All’inizio ho valutato la possibilità di iscrivermi anche alla Sapienza o alla Federico II però poi alla fine il corso e i programmi del Suor Orsola mi convincevano di più e ho fatto la mia scelta.
Prof., nonostante tutto non è stato facile instaurare di nuovo un rapporto sano con lo studio, però ci sono riuscita, sto al secondo anno, ho fatto tutti gli esami, non penso al risultato ma il risultato sta venendo e sono contenta, anche perché consigliata da mio padre, ho fatto anche il servizio civile, studio e lavoro insieme.
All’inizio la cosa mi spaventava un poco, poi invece ho capito che quel meccanismo mi ha aiutato a mettermi in moto, ad agire.
Nella graduatoria del test di ingresso sono stata undicesima, niente male no?, e questo mi ha dato fiducia, ho verificato che non ero così pessima come a volte mi immaginavo, e meno che mai fallita.
Sì, sono contenta, sto procedendo bene, sono in ordine con gli esami e sono convinta che riuscirò a fare buone cose.
La differenza tra il punto e il punto e il punto e virgola
La questione dell’equilibrio è sempre stata cruciale per me, l’ho capito sulla mia pelle. Il creare un equilibrio mette sui lati della bilancia il passato e il futuro. È vero che il tempo che permette di agire è il presente, però nel momento in cui tu prendi il presente senza dare uno sguardo al passato, senza imparare dal passato, non puoi costruire un futuro, tra virgolette, eccellente, nel senso che non puoi risolvere le questioni passate, l’ho sperimentato anche su me stessa.
Se non avessi capito quali erano i tasselli mancanti non sarei come sono adesso, e dunque sarei meno libera, perché la consapevolezza che costruisci nel momento in cui lavori nel presente e capisci dal passato per costruire un futuro migliore ti fa essere più libera. Può sembrare un concetto astratto, perché uno si domanda che cos’è in fondo la libertà. Per me libertà la si vede a partire dalle piccole cose, non sta per forza nelle grandi aspirazioni o nelle rivoluzioni talmente importanti che se le ricordano tutti, per me la libertà te la crei ogni giorno.
Questa idea di libertà è cruciale anche nella relazione con Nicola, il mio compagno di avventura e di momenti di condivisione, è da un anno che siamo fidanzati e io spero che sia un rapporto che duri nel tempo. È un rapporto nel quale da entrambe le parti c’è sempre stata libertà, la libertà che ti porta a vivere le cose nel modo giusto, a non soffocare, a saper dare luce a una e all’altro. Per fare un esempio questa estate sono tornata da sola in Canada dalla mia seconda famiglia e non c’è stato problema, anche in questo senso parlo di libertà e sono molto contenta, perché anche l’amore ha a che fare con la libertà e anche l’amore si definisce ogni giorno.
Perché dunque il punto e virgola e non il punto. Perché in geometria il punto è adimensionale, nella vita concreta è drastico, non ti dà ulteriori possibilità, non puoi intervenire su quello che c’era prima, sul passato, il punto ferma tutto, dopo non ci può essere rinascita ma solo nascita, nel senso che devi ricominciare dall’inizio.
Il punto e virgola invece è come se fosse una pausa, una riflessione dalla quale puoi capire e ripartire, avviare la rinascita. Dopo il punto e virgola c’è la rinascita, stai sempre nel presente ma puoi far tesoro del passato e costruire meglio il futuro.
Per quanto riguarda il lavoro, più che un’idea precisa della professione in sé ho in mente quello che mi piacerebbe fare, che poi alla fine sono una serie di cose.
Per cominciare mi piacerebbe stare a contatto con le persone, mi piacerebbe ascoltarle e raccontarle. Per la verità un po’ mi piacerebbe anche raccontare me stessa, prima mi metteva in crisi, ma ora mi piace, che poi diciamo la verità, a chi non piace?
Poi mi piacerebbe che il mio fosse un lavoro creativo, che non avesse paletti troppo stretti, i paletti che impediscono alla creatività e alla libertà di esprimersi.
Mi piacerebbe anche che fosse un lavoro equilibrato, che non finisca con le sei ore ma sia più profondo, che mi permetta insomma di fare un lavoro ben fatto.
Per me il lavoro vuol dire prima di tutto essere valorizzata come persona. Trovo che nel mercato del lavoro attuale non siamo valorizzate, siamo simili a dei numeri, tipo burrattini.
E poi immagino il lavoro come un continuo mutamento, mi piacerebbe lavorare in contesti e con persone che considerano il cambiamento una chiave importante del nostro agire. Anche perché nella vita ci sono anche tempi scuri, quelli in cui è particolarmente importante sapersi adattare, reinventarsi. Il lavoro basato sulla creatività e sull’inventiva mi piace.
E poi per me il lavoro è rispetto, cura e passione. Se un lavoro ti piace è più facile farlo bene, viene più naturale, se ti senti costretto invece è più difficile, perché non sei centrato, non sei sintonizzato con la tua dimensione interiore.
L’AFFETTUOSA TORTA DEI DIFETTI DI VIVIANA
UN PO’ DI VIVIANA IN BOTTEGA O
Vita
Introduzione al mondo dell’embodied education
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La vandera del lavoro ben fatto e dell’embodied education
Euploia
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Una parola, un percorso: Pertubazione