Cara Irene, qualche giorno fa mi sono venuti a trovare Vito Verrastro e Giuliana Provenzale ed è stata una giornata piena di bellezza: è stata bella la passeggiata fino alla Pineta, è stato bello il pranzo da Mario al Ristorante Zi Filomena, sono state belle le chiacchiere, quelle con il vuoto a perdere, quelle dedicate alle cose della vita e quelle che abbiamo registrato nel pomeriggio a Casa con l’idea di condividerle qui.
Il percorso che abbiamo fatto è organizzato in 3 passi.
Il primo porta agli Appunti per una Didattica Artigiana, che puoi leggere qui.
Il secondo all’intervista realizzata da Vito:
Il terzo alla conversazione che puoi leggere di seguito.
Giuliana, Vito e io siamo partiti dagli appunti e dal podcast e abbiamo messo insieme qualche idea e qualche esperienza che pensiamo possano aiutarci a ragionarci su. Siamo finiti così a discutere di Classe Capovolta (CC), Giornalismo Costruttivo (GC), Didattica Artigiana (DA) però con l’obiettivo di aprire “scarti” e di produrre “tra” in grado di far emergere ciò che condividiamo senza partire necessariamente da ciò che è simile.
Il potere di formare e di informare ci chiede di farci carico di questa responsabilità, di renderci disponibili a questo ascolto, di valorizzare le differenze che questo percorso implica allo scopo di definire un background partecipato e condiviso che ci aiuti a contrastare i processi di omologazione e l’assimilazione a cui sembriamo condannati dai processi di globalizzazione.
Come puoi immaginare, Giuliana, Vito e io speriamo che ai nostri passi si aggiungano quelli delle lettrici e dei lettori che hanno voglia di contribuire con le loro idee e le loro esperienze. Buona lettura e buona partecipazione.
Caselle in Pittari, Casa del Lavoro Ben Fatto, 4 Marzo 2023
Giuliana Provenzale, Vito Verrastro, Vincenzo Moretti
Vincenzo
Giuliana, se sei d’accordo chiederei a te di buttare la prima pietra nello stagno.
Giuliana
Il mio punto di partenza è l’esperienza sul campo che ho alle spalle. Comincio perciò ricordando che non mi è mai piaciuto il metodo istituzionale, classico, della scuola. Non mi piaceva già da studentessa, ancor di più non mi è piaciuto da insegnante, quando mi sono trovata dall’altra parte.
Già nel corso delle prime esperienze, pur non sapendo ancora bene quello che stessi facendo, pensavo ad una didattica non formale inserita in quella formale, più avanti ho adottato la metodologia della Classe Capovolta; detto in altro modo non mi ponevo nella logica di chi deve trasferire alla classe la propria conoscenza ma di chi, insieme a essa, costruiva, intorno al contenuto su cui si stava lavorando, un percorso di condivisione e di valorizzazione delle idee e della conoscenza.
Mettere insieme quello che si sa e lavorarci insieme per arrivare all’obiettivo, al risultato: questo è da sempre il mio approccio, a partire naturalmente dagli imput, dagli spunti, dalle idee, dalle cose che io come docente porto in questa discussione a più teste.
Può sembrare scontato e invece è sempre utile ricordarlo: tutto questo ha alle spalle un lavoro importante di preparazione, di definizione attenta delle diverse fasi del percorso, di individuazione degli strumenti che ti possono aiutare a far venire fuori non solo la conoscenza esplicita ma anche quella implicita della classe.
Il punto è fare in modo che i ragazzi ci arrivino da soli, attraverso il ragionamento e il confronto, sapendo che arrivare alla meta è importante, ma ancora più importante è il processo che ti permette di arrivare alla meta.
È così che, nelle diverse situazioni, ogni componente della classe saprà come fare per raggiungere l’obiettivo che si è dato e chi gli è stato dato.
In questo modo la classe ti ascolta, e non soltanto perché sei l’insegnante, meno che mai perché sei la detentrice del sapere. Lo fa per due motivi principali: perché è fatta di soggetti attivi, partecipanti, che condividono il percorso che essi stesso contribuiscono a costruire; perché tu per prima hai saputo ascoltare loro.
Non è questione di ruoli, non serve la cattedra come barriera tra te e la classe. Il setting è organizzato congiuntamente in maniera da rompere gli schemi: spazio di condivisione, ambiente flessibile e modulabile. Utilizziamo gli elementi, i materiali e gli strumenti all’interno della classe per una gestione efficace di spazi, tempi e attività. Secondo me, costruire lo spazio insieme è utile, è utile creare insieme il luogo in cui condividere quello che sappiamo e sappiamo fare.
Con l’esperienza e l’approccio giusto si fa in modo che ogni componente della classe tiri fuori le proprie conoscenze e competenze e le usi nell’ambito del processo di apprendimento.
È per questa via che diventano costruttori del loro sapere, e anche questo mi sembra un aspetto interessante.
Vincenzo
Giuliana, mi fai venire in mente due cose.
La prima mi porta a Weick a al suo meraviglioso libro sul sensemaking, quando cita Wallas e fa l’esempio della bambina a cui viene detto che prima di parlare deve essere sicura di quello che vuole dire e risponde, più o meno, ‘Come faccio a sapere quello che penso finché non vedo quello che dico’.
Questo per sottolineare che, proprio come hai detto tu, in questo processo condiviso di costruzione del sapere spesso scopriamo quello che stiamo dicendo e facendo, quello che stiamo imparando, mentre lo diciamo, lo facciamo e lo impariamo.
La seconda mi porta a Siemens, l’ideatore del Connettivismo nei processi di apprendimento, e alla sua idea che i tali processi sono riferibili all’ambito della socialità più che a quello dell’informazione.
A suo avviso, nella fase attuale di sviluppo tecnologico e sociale, il fattore chiave dei processi di apprendimento è la capacità di connettersi alle reti del sapere. Dopo di che indica un possibile percorso articolato in 3 punti: ciascun componente della rete mette a disposizione ciò che sa; il sapere di ciascuno è costituito dall’insieme delle conoscenze di tutti i componenti della rete; più che conoscere ogni singolo contenuto è utile conoscere il percorso per acquisirlo.
Anche qui, basta pensare alla classe per quella che è, una piccola rete di donne e uomini impegnate/i a conoscere se stesse/i e il mondo, ed ecco che le connessioni con ciò che hai appena raccontato diventano evidenti.
A proposito di connettivismo, Vito, tu come connetteresti tutto questo con il Giornalismo Costruttivo?
Vito
Ci provo, ma non è semplice, perché il GC ha una propria metodologia: partire dai problemi e analizzarli nel loro contesto più ampio; individuare i processi in corso, nel mondo o nelle piccole realtà, per risolverli; prendere alcune buone prassi come potenziali proposte (anche delle micro sperimentazioni in atto); raccontare questi processi e indicare sempre delle soluzioni.
Detto questo, ovviamente anche il GC ha a che fare con i processi formativi e di apprendimento e questo mi porta a fare alcune riflessioni ulteriori.
La prima riguarda il bisogno di cambiare l’approccio, attraverso uno scambio non gerarchico e in vario modo intergenerazionale, che si attiva tra docente e classe, ed è un processo di orizzontalità che ritrovo anche nella DA.
Insegnare a pensare, ad essere autonomi, a utilizzare in maniera appropriata gli arnesi analogici e digitali che portiamo nella nostra cassetta degli attrezzi.
Saper pensare e fare in maniera autonoma e in relazione con gli altri; come ti ho sentito dire diverse volte non bisogna accontentarsi di portare pesci, di trasferire le cose che sappiamo, il lato hard delle conoscenze e delle competenze che abbiamo, diciamo così, ma bisogna insegnare a pescare, il lato soft delle skills, sempre per intenderci.
Per me DA è pensiero critico, è creatività, è racconto, è team working ed è anche capacità di analizzare e risolvere i problemi, di trovare le soluzioni, e direi che qui i punti di contatto tra DA e GC si cominciano a intravvedere in maniera più chiara.
DA è dunque una via per acquisire tante competenze soft che secondo me sono i veri superpoteri, in questo nostro tempo così incerto e complicato.
E poi ci sono le competenze manageriali, la capacità di organizzare il processo, di progettare quello che vuoi fare e di farlo utilizzando al meglio le risorse (umane, tecnologiche, organizzative, finanziarie) che hai a disposizione.
Il tutto è finalizzato a progettare e realizzare il proprio futuro, perché è di questo che stiamo parlando.
Vincenzo
Mi piace. E aggiungo che non è una questione di nomi e neanche di primati, o di supremazie. È a partire da qui che mi pare utile scavare per portare alla luce possibili punti di contatto tra DA, GC e CC, nonostante le loro differenze. Per spiegarmi meglio prendo in prestito due concetti cari a Jullien, lo “scarto” e il “tra”, che lui non a caso definisce due concetti “mediatori”, perché non si limitano a registrare la differenza, ma inducono ad esplorare, ad avventurarsi, a mettere in tensione quello che è separato.
Detto che la mia è per molti versi un’appropriazione indebita dell’idea del grande sinologo francese (lui in realtà lavora sullo scarto, sul tra, tra la Grecia e la Cina, tra il pensiero occidentale e quello cinese), provo a spiegare il perché di questo azzardo. Perché penso che anche a livello del piccolo, fino a un certo punto piccolo dato che parliamo di educazione, impresa e informazione, abbiamo la necessità di aprire “scarti” e di produrre “tra” in grado di far emergere ciò che condividiamo senza partire necessariamente da ciò che è simile.
Il potere di formare e di informare ci chiede di farci carico di questa responsabilità, di renderci disponibili a questo ascolto e di valorizzare le differenze che tutto questo implica. È da qui che può nascere il background partecipato e condiviso, è su questa via che possiamo evitare l’omologazione e l’assimilazione a cui sembriamo condannati dai processi di globalizzazione e dal potere degli algoritmi.
Voglio fare un esempio ancora più piccolo per spiegare cosa intendo quando parlo di ascolto, di differenze, di conoscenza e di consapevolezza condivisa.
Immaginiamo di avere a disposizione la classica lavagna suddivisa in due parti, le hardskills e le softskills. È evidente che se devi lavorare in un laboratorio chimico devi conoscere le parole, i concetti, i processi e gli attrezzi di lavoro della chimica e dei laboratori e se invece devi lavorare in un giornale devi conoscere le parole, i concetti, i processi e gli attrezzi di lavoro delle redazioni. Dove sta allora il terreno comune, il “tra” provocato dallo scarto?
Nell’autonomia di quello che si pensa e di quello che si fa; nell’accuratezza.
Vito
Nell’approfondimento.
Vincenzo
Certamente, anche nell’approfondimento, che ci riporta alle fonti, alla necessità di attenersi ai fatti, alla capacità di fare proposte..
Vito
Nelle buone pratiche che sono state già realizzate e che possono aiutarci nel nostro racconto.
Vincenzo
Sono d’accordo anche su questo.
Non basta più dire, naturalmente è anche questo solo un esempio, “come è bello questo centro storico”, non basta più spiegare perché ha senso l’attività di recupero, bisogna fare anche delle proposte concrete, indicare dove e come vuoi specificatamente intervenire per abbellire, per qualificare e ampliare lo spazio pubblico, per recuperare o impiantare un giardino, sempre per fare qualche esempio semplice ai limiti del banale.
Ecco caro Vito, tutto questo a me sembra molto vicino a ciò che dici tu quando affermi che il giornalismo costruttivo è tale perché è capace non solo di denunciare ma anche di fare proposte.
Quello che intendo dire è che alla fine la DA la possiamo chiamare anche Didattica Costruttiva (DC), non è che cambia; stiamo parlando dello stesso processo, che mira a raggiungere gli stessi risultati: fare in modo che le persone acquisiscano gli strumenti (hardskills e softskills) per essere autonome, prendere decisioni, risolvere problemi, cogliere le occasioni e moltiplicarle, essere propositivi.
Il fatto che poi queste persone diventino insegnanti, giornalisti, ingegneri, falegnami, idraulici o podcaster è importante, ma viene dopo.
Provo a dirlo anche in un altro modo: nella complessa e connessa realtà del tempo presente le hard skills, per quanto siano fondamentali (non puoi fare né il chirurgo e né l’idraulico se non hai le competenze specifiche), nella definizione di un ordine di priorità vengono comunque dopo le soft skills, perché queste ultime intervengono sulla capacità di gestire il processo, sulla padronanza e la maestria con cui facciamo quello che dobbiamo fare, sulla qualità delle relazioni che riusciamo a costruire con le persone con le quali interagiamo nello studio, nel lavoro, nella vita.
Quando parliamo di capacità di ascolto, di leadership, di team building parliamo di queste cose qui. La proposta, la promessa, alla fine è questa sia quando parliamo di DA, che quando parliamo di GC o di CC. O no?
Giuliana
Per me le differenze sono date dai contesti nei quali ci muoviamo, e dai destinatari delle nostre attività.
A me per certi versi la DA mi fa pensare anche al metodo Montessori (MM) e ad altre metodologie.
Vincenzo
Certo, nessuno inventa nulla da zero, siamo tutti nani sulle spalle dei giganti. E anche qui ci vengono in soccorso Jullien e uno dei suoi meravigliosi lavori, Le trasformazioni silenziose, quando ci ricorda che “la modificazione biforca e la continuazione prosegue”, che “una innova e l’altra eredita”.
Secondo me questo lavoro di scavo tra ciò che innova e ciò che eredita, ciò che permane e ciò che cambia è fondamentale in ogni campo, la DA, il GC e la CC.
Una domanda è: che mi porto nel prossimo articolo, che mi porto nella prossima lezione?; e che cosa invece modifico, innovo, cambio?
Ancora una volta abbiamo a che fare con il “tra”, con quello che sta in mezzo tra ciò che permane e ciò che cambia. E questo mi porta a nuove domande: in che maniera i giornalisti, gli educatori, le imprese, la scuola possono condividere un metodo che connette la scuola con l’impresa, con l’informazione, con la famiglia, e viceversa, senza che si confondino l’autonomia e gli ambiti di ciascuno?; in che maniera mondi diversi possono competere e collaborare per definire un background condiviso tra DA, GC, CC, tra famiglia, scuola, informazione, impresa?
Forse abbiamo bisogno di un pensiero soft capace di individuare il “tra”, le interazioni, le intersezioni, gli intrecci che ci consentono di mettere in campo le azioni soft che sono indispensabili per evitare che l’informazione, la scuola, l’impresa, rimangano ciascuna prigioniera del proprio mondo e non si parlino.
Giuliana
Se guardo alla mia esperienza, come vedete torno sempre lì, mi vedo mentre spingo senza sosta la classe, che siano ragazzi o adulti non fa differenza, a mettersi nelle scarpe degli altri. E mentre racconto che anche quando non si hanno tutte le competenze è importante cercare di superare il proprio limite.
Dalla relazione, dall’interscambio dei ruoli vengono spesso indicazioni importanti per migliorarci e migliorare, persino quando una cosa pensiamo di non saperla o di non saperla fare.
Penso che questa tensione a metterci nelle scarpe degli altri possa aiutarci anche a trovare quello che tu definisci il terreno comune tra informazione, scuola, famiglia, impresa e tutto il resto.
Se ciascun soggetto si domanda che cosa faccio io per gli altri soggetti ecco che ci troviamo a lavorare su una strada con meno curve e meno ostacoli. Per questo, secondo me, è molto importante conoscere quello che pensano e che fanno gli altri.
Vito
E poi bisogna moltiplicare i soggetti, i luoghi e le occasioni dove si discute come stiamo facendo oggi qui da te Vincenzo. Più i numeri sono ampi, più idee vengono fuori e più si allargano gli spazi per decidere quello che vogliamo mantenere e quello che vogliamo innovare.
Secondo me deve funzionare un poco come nell’ambito della moda quando è necessario studiare, capire, anticipare una nuova tendenza: insieme agli specialisti della moda vengano chiamati a ragionarci su creativi, sociologi, giornalisti, filosofi e altri ancora.
Guardare a un tema da tante prospettive diverse permette di vedere possibilità e cogliere opportunità che qualunque specialista di qualunque settore, da solo, non sarebbe in grado di vedere e di cogliere.
È un processo che crea valore non solo grazie alle specifiche conoscenze e competenze ma anche, per certi versi soprattutto, grazie al confronto di tante conoscenze e competenze diverse.
Se ci allontaniamo per un attimo dalla metafora del muro maestro mi viene in mente quella della pianta che si conserva e si rinnova grazie agli innesti.
Giuliana
La parola chiave è connesssione. La connessione tra le diverse figure che sono parte – con ruoli, saperi, obiettivi in parte condivisi e in parte differenti – del processo produttivo, informativo, educativo che intendiamo innescare e sviluppare. Se non ci si connette diventa tutto molto più difficile, limitato, limitante.
Vincenzo
Un altro hashtag potrebbe essere generosità, il piacere di essere una parte del processo, talvolta anche una parte importante, ma comunque una parte.
Vito
Sapendo però che tutto questo non è semplice, richiede una consapevolezza nel pensare e nell’agire che non è di tutti, o che comunque non è di massa.
È un percorso in vario modo caratterizzante, distintivo, che richiede rigore, fatica, impegno, che non viene da sé, non è spontaneo, in questo senso non è di tutti.
Vincenzo
Sì, è un processo mediato da una cultura, da un approccio, che va costruito.
Giuliana
Direi che la cosa più utile che possiamo fare è piantare semi. Alcuni andranno perduti, alcuni diventeranno pianticelle, ma alla fine possiamo fare solo questo, seminare.
Post Scriptum
Cara Irene, lo so che il riferimento alla Casa del Lavoro Ben Fatto non ti è sfuggito, ma intanto è nato il primo contenuto a più teste, a più mani e più cuori prodotto qui, e mi fa piacere condividere questa mia gioia con te.