Cara Irene, questa storia comincia con il viaggio a Potenza per la presentazione di Il lavoro ben fatto all’Associazione Insieme. È stata una serata di straordinaria umanità, finisco di mettere insieme le cose e tra qualche giorno ti racconto tutto. L’artefice magico è stato il mio amico Vito Verrastro, lui è una persona veramente speciale, lo capisci dalle amiche e dagli amici che ha, dalla cura che mette in quello che fa, dalla sua gentilezza. Per esempio quando gli ho ricordato che non avendo l’automobile avrei avuto difficoltà ad arrivare a Potenza da Caselle in Pittari, mi ha detto senza battere ciglio che non c’era nessun problema, che sarebbe venuto lui a prendermi e a riaccompagnarmi a casa il giorno dopo, e così ha fatto. Il resto lo ha fatto la spruzzata di serendipity che ha fatto in modo che insieme a lui venisse a Caselle anche Giuliana Provenzale, sua moglie. Ora, come puoi immaginare, anche Giuliana è una mia cara amica, una persona che pensavo di conoscere dato che avevo toccato con mano la passione che mette nel suo lavoro di formatrice, il suo amore per i viaggi e la fotografia e molte altre cose ancora. E invece no. Nel viaggio da Caselle e Potenza, e viceversa, ho scoperto una donna che non conoscevo. Fantastica, incredibile, mi lasciato letteralmente senza parole, fino a quando ha raccontato di questa sua idea di passare agli altri le cose belle che si ricevono e mi sono commosso.
È stato così che le ho chiesto di raccontarsi, e lei che mi vuole bene mi ha detto di sì e allora io ne ho approfittato e le ho detto che mentre lei scriveva io almeno la storia del suo amico Gustav la dovevo raccontare.
“Giuliana non ce la faccio ad aspettare che tu scriva tutta la tua storia”, ho aggiunto, “intanto pubblichiamo questa parte, usciamo con una specie di anteprima, credo sia la prima volta che lo faccio, che dici?”
E che doveva dire, amica mia. Lei mi vuole bene, perciò eccola qui. Buona lettura.
Il mio amico Gustav
Lo incontravo lì al solito posto, ormai il “nostro” posto: una panchina, in un angolo, appena fuori l’aeroporto che frequento spesso per viaggi di lavoro. Di solito parto di mattina presto o torno di sera, quando non ci sono collegamenti per rientrare nella mia città, per cui ceno vicino all’aeroporto e, prima di andare a dormire, fumo una sigaretta su quella panchina. Mi piace stare lì, mi rilassa e soprattutto mi offre la possibilità di fermarmi ad osservare il mondo, sotto forma di viaggiatori che arrivano da ovunque e partono per le mete più disparate: mondo che passa davanti ai miei occhi e che il giorno prima o qualche ora dopo sarà in un altrove: che bella sensazione!
Mia figlia dice che tendo spesso a guardare le persone, le quali in automatico mi danno da parlare: da quando me l’ha fatto notare, provo a non guardare negli occhi chi ho davanti, almeno inizialmente; ma la mia curiosità mi porta comunque a scannerizzare il territorio intorno a me, e così comincio ad osservare le scarpe delle persone. Dicono che raccontino tanto.
Quel giorno i miei occhi hanno incrociato le stesse scarpe che avevo notato in un precedente viaggio, sulla panchina di fronte: calzature di buona fattura, ma che portavano il segno del tempo e dei tanti passi. Sono abbinate a un cappotto sfilacciato e sbiadito dal sole. Non mi sbaglio, proprio come l’altra volta, lì c’è un signore con la barba curata alla meglio, le gambe accavallate e un’aria da gentleman inglese.
Il venticello porta verso di lui il fumo della mia sigaretta; la spengo, per non dare fastidio, e mi risiedo. Non un cenno. Lui se ne sta con i suoi pensieri, ed io con i miei.
Vado a prendere la solita pizza, da asporto: mi piace mangiarla all’aperto, sulla panchina, vedere il fumo che sale verso l’alto mi dà un senso di libertà. Il signore con il cappotto sfilacciato è ancora lì. Chiedo il permesso di sedermi accanto a lui, dal suo sguardo capisco che posso.
La mia famiglia mi ha insegnato a condividere ciò che si ha, e così gli chiedo di mangiare la pizza insieme. Accetta, ma attende che sia io a porgergliene un pezzo, mentre le sue mani, pulite ma indurite dal freddo e dal tempo, passano sul suo cappotto datato, con un gesto che profuma di dignità.
Mangiamo la nostra pizza, in silenzio. All’inizio ci sono solo sguardi muti, ma poi arrivano anche le parole. Piccoli dialoghi, che pian piano diventano frammenti di vita, racconti. Scopro che Gustav, si chiama così, parla bene l’inglese, il francese, lo spagnolo e anche l’italiano. Proviene da una famiglia benestante, è stato a capo di un’azienda, forse di famiglia, ma si è ribellato al sistema e ha scelto di cambiare vita, di vivere ai margini, portandosi però appresso la sua nobiltà d’animo e la sua enorme cultura. La riconosco nei suoi discorsi, che rallentano di tanto in tanto per trovare il termine giusto. Tante parole, ma anche tanti silenzi, dentro cui non mi permetto di scavare.
Un giorno, dopo aver riflettuto molto se farlo o meno, gli chiedo se gli serve qualcosa. “Libri”, è la sua sorprendente risposta. Ne ho uno, comprato di seconda mano ai mercatini: è letto e sottolineato in parte, glielo dono. Lui lo stringe tra i palmi delle mani, come una preghiera, e mi ringrazia con un cenno del capo.
La volta successiva, in una libreria, compro un libro nuovo lasciandomi ispirare dalla copertina e dalla sinossi. Glielo porto. Lui lo osserva, lo tiene tra le mani in maniera convenzionale ma non dice nulla. Lì per lì non capisco il perché.
Dopo la nostra pizza, accompagnata questa volta da una birra, anch’essa condivisa, Gustav tira fuori dalla tasca del cappotto il primo libro e me lo restituisce, avendo capito che non l’avevo finito di leggere. Nella mia notte insonne prima del viaggio, prendo il volume e noto che, in verde, sono ri-sottolineate delle parti che io avevo già marcato in rosso.
“… mi sono accorto che avrei potuto vivere ovunque…”, “… lasciando che tutto il passato continui a vivere nel presente, senza dolore…”, “…la volontà di non arrendersi e difendere la storia della propria vita…”.
Leggendole e mettendole in fila, ricostruisco qualche altro pezzo di vissuto di Gustav, curiosamente raccolto attraverso le parole di pagine che anche io avevo sottolineato in quei punti.
Trovare sottolineature comuni con uno sconosciuto diventato amico è fantastico: due mondi lontani che si incrociano quasi per caso e convergono regalano empatia, potenza, conoscenza, energia.
A quel punto capisco anche perché il libro nuovo non lo aveva colpito come quello usato: voleva condividere qualcosa che gli parlasse di me e non voleva farmi spendere soldi. Forse, chissà, voleva anche condividere pezzi di un sé difficile da raccontare a parole.
Era così ogni volta: Gustav mi chiedeva solo libri, che puntualmente mi riportava, e io li sfogliavo con attenzione durante i viaggi e poi gli chiedevo di condividerli con chi voleva lui, assecondando la mia filosofia di vita: condividere con gli altri, “passare il favore”: se ricevi qualcosa di bello, può essere anche solo un sorriso, passalo a un altro che non conosci, e si innescherà un contagio positivo!
Da lì, decido di lasciargli un bigliettino con le date dei successivi viaggi. Quando arrivo, con bus o taxi, è puntualmente lì, sulla panchina, e si alza in piedi non appena mi scorge tra la folla.
È bellissimo trovare qualcuno che ti saluta alla porta dell’aeroporto e ti aspetta all’arrivo del volo come se fosse un parente: nella mia famiglia c’è da sempre questa abitudine di aspettare fino all’ultimo la partenza dell’autobus o del treno o del transfer per salutare chi va via; occhi negli occhi, fino a vedere il mezzo allontanarsi.
Gustav in poco tempo era diventato uno di famiglia, con i suoi modi gentili e il suo cappotto vecchio ma dignitoso anche quando faceva caldo.
È il Covid ad interrompere questo filo magico. Dopo la pandemia, quando riprendono i viaggi di lavoro e arrivo in aeroporto, allungo come sempre lo sguardo sulla panchina, ma è vuota. Chiedo in giro di Gustav ma nessuno sa darmi risposte. Non ho una sua foto, ma poi a cosa sarebbe servito? Sapevo come si chiama, che aveva girato il mondo, che aveva una grande cultura e aveva scelto di vivere così, ed in cuor mio lo immagino in un’altra città, in un altrove, su un’altra panchina pronto ad accoglierlo e a dargli l’occasione di nuovi incontri.
Se sfoglio il primo libro che ci siamo scambiati, trovo un’altra sottolineatura su “..Il sognatore è chi può trovare la sua strada solo alla luce della luna…”.
Ecco, lo immagino così, con il suo cappotto liso, con le sue scarpe che a me dal primo momento hanno raccontato l’idea profonda del viaggio, mentre vaga camminando incontro al mondo.