EMILIA SALATIELLO | LA VITA DI SARA | INDICE
PREFAZIONE | Un sogno messo alla prova, Vincenzo Moretti
CAP. 1 | Ep. 1 Il Nido; Ep. 2 Una madre e un non padre; Ep. 3 Il mostro; Ep. 4 Un corpo nudo; EP. 5 Mare d’inverno.
CAP. 2 | Ep. 1. Come una fotografia; Ep. 2 Un maglione sformato; Ep. 3 Perduta; Ep. 4 Un tuffo nel passato; Ep. 5 Napoli ancora.
CAP. 3 | Ep. 1 Una vita diversa; Ep. 2 Diego, l’amore che brucia; Ep. 3 Il vuoto pieno.
CAP. 4 | Ep. 1 Il viaggio; Ep. 2 Un corpo di vetro; Ep. 3 Figlia del mondo; Ep. 4. Terra arida; Ep. 5. La rinascita.
CAP. 5 | Ep. 1 Il lavoro di mamma; Ep. 2 Il lavoro come autonomia; Ep. 3 Il mestiere di scrivere.
PREFAZIONE | UN SOGNO MESSO ALLA PROVA
Torna all’Indice
Caro Diario, Emilia Salatiello è una giovane mamma che da grande vorrebbe fare la scrittrice. L’ho scoperto qualche giorno fa all’Urmo, appena dopo che Antonio, il suo compagno innamorato, mi aveva detto che lei è brava a scrivere. Beatrice, la loro bimba, contribuiva con il suo sorriso a rendere luminosa la bella giornata di sole e così mi è venuto facile dire a Emilia che se aveva qualcosa già scritto io l’avrei letto volentieri.
È stato a quel punto che lei prima si è fatta rossa e poi, con una voce che si sentiva appena, mi ha detto che stava scrivendo un racconto a cui aveva dato anche già un titolo. Incuriosito, le ho chiesto se era una storia vera o una fiction. “Di vero c’è soltanto una giovane mamma che ho incontrato una sera di qualche anno fa a casa di amici”, mi ha risposto. “Il suo racconto mi ha come rapito, sono rimasta per tutta la sera a parlare con lei. Poi lo sa come vanno queste cose, sono tornata a casa e il racconto se n’è rimasto lì, per i fatti suoi, fino a quando non è nata Beatrice. Non lo so perché ho fatto passare tutto questo tempo prima di mettermi a scrivere”, ha concluso. “Forse doveva passare, comunque è andata così e va bene. Sto scrivendo per me e un poco pure per mia figlia, e mi piace molto anche il fatto che Antonio mi sia vicino, mi ascolti, mi dia una mano. Diciamo che sto mettendo alla prova il mio sogno. Davvero le va di leggere quello che ho scritto fin qui? L’avverto che la storia è tosta, il che non vuol dire sia bella, ma per essere tosta è tosta.”
Sai una cosa amico Diario? A volte sembra strano anche a me che in una piccola comunità come Cip possano accadere così tante cose, eppure funziona proprio così. La verità è che tiene ragione Al Pacino, i centimetri stanno dappertutto, basta vederli.
Come è finita lo avrai capito già, non solo ho confermato a Emilia che avrei letto volentieri la sua storia, ma mi è piaciuta così tanto che ho deciso di condividerla con te. Ecco, per quanto mi riguarda è tutto, la parola passa a Emilia, buona lettura.
CAPITOLO UNO
Torna all’Indice
EPISODIO 1 | IL NIDO
Torna all’Indice
Sara era una bambina esile, dai tanti capelli. Amava gli animali, forse perché non si sentiva del tutto accettata dai bambini della sua età. Era come se cercasse riparo in quelle creature che mai l’avrebbero lasciata sola o l’avrebbero giudicata.
Dal fico impetuoso piantato da tanti anni nel giardino dei nonni, in estate cadevano degli uccellini senza futuro e senza penne, unti di nascita.
Nonno Gerardo l’aiutava ad avvolgerli nel cotone soffice, lei gli dava una carezza leggera come un tocco di farfalla e poi li seppellivano nella piccola buca che avevano scavato. Di sicuro il nonno, forse i cartoni della Disney, avevano arricchito la sensibilità della bambina verso quelle creature.
Sara trascorreva tanto tempo con suo nonno, lo osservava mentre piantava e annaffiava i pomodori, le piante di basilico, i tanti doni che la terra fertile donava. L’odore del terreno bagnato d’estate lo associava a lui, un uomo taciturno, che non era per niente facile fargli uscire una parola o un sorriso. Lei però ci riusciva spesso, in fondo era sua nipote, era cresciuta con lui, era la sua piccola bimba.
Nonna Concetta invece era casalinga, come quasi tutte le donne a quei tempi. Di giorno, se ne stava spesso nella verandina che affacciava sull’orto a cucinare piatti semplici e ricchi di verdure. Per rilassarsi, ogni tanto si affacciava alla finestra e fumava una sigaretta Winston Blue. Sara adorava la sua cucina, la sentiva delicata, semplice e ricca d’amore. E quando non andava all’asilo, aspettava con lei che il nonno e sua madre tornassero da lavoro.
I nonni erano il nido di Sara, ma certe sere neanche questo bastava. Accadeva quando dalla finestra della veranda vedeva il sole tramontare, era allora che sentiva un peso nel petto e diventava triste.
Anche se aveva solo sei anni aveva già paura della morte. Forse era la percezione di certe mancanze o forse era il pensiero delle malattie che potevano portarle via i suoi cari a renderla infelice, sta di fatto che quella dannata ombra appariva e le faceva venire l’affanno.
Di norma arrivava la sera, prima di cena, quel malessere che le faceva rifiutare il cibo; non riusciva a deglutire, voleva stare soltanto tra le braccia di sua nonna Concetta e sperare che quel macigno che sentiva sul petto si sgretolasse. Il calore di sua nonna, il suo seno abbondante, una mamma, una chioccia, era solo questo che cercava.
Ancora oggi, certe sere, Sara sente il profumo di mandarino e tabacco di sua nonna Concetta, le labbra carnose che le umidivano le guance, le carezze tra i capelli, il suo respiro preoccupato quando la vedeva persa.
EPISODIO 2 | UNA MADRE E UN NON PADRE
Torna all’Indice
Maria da ragazza era una donna decisa, sicura di sé, ci avrebbe pensato la vita a cambiare le cose. Aveva le mani affusolate, troppo presto screpolate dai prodotti chimici che usava per lavare le scale dei condomini. Le sue ciabatte bianche antiscivolo e le calze nere velate non stavano mai ferme, perché aveva le caviglie molto sottili.
La mattina usciva di casa quando la luce del sole ancora non aveva toccato le montagne, era l’ora in cui la brina inumidiva i ciuffi d’erba insieme all’asfalto del vicoletto dove abitava insieme ai genitori. Aveva poco più di vent’anni all’epoca, le sarebbe piaciuto essere ancora piccola ma era costretta a fare la grande, a essere adulta, quando sei sola e hai una figlia da crescere è così.
Era stato nell’estate del 1995 che aveva conosciuto il suo primo uomo, o per meglio dire ragazzo. Il sole dipingeva di rosso il cielo e lei passeggiava con sua cugina al porto gustando il suo gelato preferito, cioccolato e panna montata, mentre una leggera brezza si alzava dal mare e le accarezzava la nera chioma.
Lui prima la osservò da lontano, in piedi, di fianco alla sua Vespa bianca, poi le si avvicinò. I suoi occhi verde bottiglia fecero il resto. Proprio così, fu amore a prima vista, il mattino dopo di buon ora la sua Vespa bianca girovagava già sotto la casa di Maria. Cominciò così, venti anni anni lei, venti anni lui, che viveva con la madre e i sette fratelli in una casa popolare di Bagnoli.
Un anno ancora e la ragazza si scoprì impaurita e incinta. L’amore che sentiva per il suo uomo l’aiutò a gestire la paura, forse sarebbe meglio dire che se la fece passare, perché capiva che l’amore che stava vivendo, per quanto intenso, non era facile.
Nonno Gerardo non era per nulla contento della situazione in cui si era cacciata la figlia. Non provava simpatia e meno che mai stima nei confronti del ragazzo, e aveva le sue ragioni. Più volte per aiutarlo gli aveva offerto dei lavori, compreso quello nell’officina meccanica di famiglia, ma senza risultato. Lui invece del lavoro amava il gioco d’azzardo, era solito sgraffignare qualche soldo alla madre e ogni tanto non disdegnava di rubare.
Le cose procedettero così, più male che bene, fino a una mattina piovosa della primavera del 1997, quando, intorno alle 10:00, dal grembo immaturo di Maria venne fuori Sara, una bambina talmente piccola sembrava divorata dalla tutina rossa che indossava. Era viva nonostante le tante minacce d’aborto che aveva subito la madre, e adesso solo questo contava.
La bambina sembrò subito attaccata alla vita. Era solo un batuffolo, ma sembrava se la fosse presa con tutta la sua forza quella vita, di sicuro non aveva nessuna voglia di mollarla, se avesse potuto avrebbe pensato che voleva lasciare un segno nel mondo.
Trascorse ancora un anno prima che sua madre si rendesse conto che quella vita non faceva bene né a lei e né alla sua piccola. Eppure era evidente. Quando portava la bimba sul pontile doveva fare di tutto per non farle vedere la giostra a gettoni di fianco al bar. E anche quando faceva la spesa aveva bisogno dell’aiuto di nonna Concetta per comprare il pane e il latte. Per fortuna che nei fine settimana lavorava come lavapiatti nel ristorante di un vecchio amico di suo nonno, altrimenti nel frigo non avrebbe potuto mettere neppure le cose più essenziali.
In tutto questo il padre di Sara non solo non lavorava, ma non badava alla figlia, diceva che gli dava fastidio. Preferiva passare le notti con i suoi amici, se si può dire così. Uomini divorati dalla cocaina e con i denti marci per via del troppo fumo, gente senza dignità che non si curavano di figli e mogli e passavano il loro tempo nelle sale da gioco.
In una situazione così il matrimonio non poteva durare e non durò. La piccola Sara non aveva ancora un anno quando Maria, ormai allo stremo delle forze, trovò il coraggio di dirgli che era finita. Lui non fece storie, se ne andò quasi sollevato, senza alcuna resistenza.
Nonno Gerardo raggiunse la figlia e la nipote poche ore dopo. Entrò, fece un grosso sospiro, prese Sarà tra le braccia e mentre i suoi begli occhi neri incontravano quelli di Maria borbottò qualcosa come “Creaturelle mie finalmente è finita.” Tornò il giorno dopo con un furgoncino, caricò le poche cose di della figlia, chiuse la porta alle sue spalle e le riportò finalmente al nido.
Nel corso della sua infanzia, suo padre Sara lo avrebbe sentito praticamente solo il giorno del suo compleanno. Andava molto poco a trovarla eppure, ogni qualvolta le prometteva di farlo, la bimba lo aspettava, quasi sempre invano, sulle scale fuori al portone dei nonni, con le ginocchia sbucciate e un cerbiatto di pezza tra le braccia.
Il resto lo fece il tempo. Ogni giorno, ogni mese e ogni anno che passava, alla bambina faceva sempre meno male quell’assenza, fino a che non diventò indifferenza. Fa male crescere senza capire mai cosa vuol dire amare un padre, ma per lei era stato così. La lotteria della vita le aveva riservato un non padre, un uomo senza rispetto e senza qualità.
EPISODIO 3 | IL MOSTRO
Torna all’Indice
Come quasi tutti i bambini anche Sara amava i cartoni animati, in particolare quelli della Disney. Li collezionava sul vecchio mobiletto di fianco al suo letto e passava ore e ore a osservare le loro copertine. Sognava. Il suo cartone animato preferito era Mulan. L’amava. L’amava perché non era una principessa, l’amava perché aveva i capelli neri come la pece e gli occhi a mandorla. Amava la conversazione che aveva con suo padre, in particolare nella parte in cui lei non riusciva a stare all’interno dei canoni della società cinese di un tempo e lui con dolcezza, cogliendo un fiore di ciliegio, con una mano asciugava la lacrima che scendeva sul viso di sua figlia e con l’altra le metteva tra i capelli quel fiore e le sussurrava una frase. Una frase che sarebbe rimasta per sempre nella storia del cinema di animazione: “Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti”.
La bambina trovava il messaggio di quella frase meraviglioso. Una buona moglie e una buona donna di casa. Ma cosa voleva dire? Perché una donna deve fare queste cose per essere considerata tale? Perché una donna diversa dai canoni veniva sminuita? Tante domande affollavano la sua testa di bambina e qualcosa di indefinito le diceva che crescendo avrebbe cercato le risposte.
In quel periodo Maria portava spesso la bimba in un grande negozio di Pozzuoli dove si potevano guardare, affittare e comprare film. La piccola era contenta di andarci dopo aver fatto i compiti. Mentre lei si perdeva tra gli scaffali dove c’erano i cartoni animati la madre parlava con il commesso, un uomo alto, con gli occhi azzurri ghiaccio e i capelli biondi portati all’indietro con la gelatina. Una volta in un pomeriggio di pioggia l’uomo aveva permesso a Sara di guardare sullo schermo del computer un sacco dei suoi cartoni preferiti.
Ormai dal matrimonio fallito di Maria erano passati diversi anni, e lei desiderava con tutta se stessa un uomo che la stimasse per quello che era, che provasse tenerezza nei suoi confronti, un uomo che le massaggiasse la schiena indolenzita a furia di abbassarsi per prendere i pesanti secchi d’acqua e candeggina. Era una giovane madre che si sentiva sempre più sola, di una solitudine che la stava divorando.
Con il trascorrere dei mesi il rapporto tra Maria e il commesso si intensificò. L’uomo si mostrava amorevole anche nei confronti di Sara e così, una sera, mentre erano a cena, Maria disse ai genitori che si era innamorata. Nonno Gerardo disse solo: “contenta tu, contenti tutti”, mentre nonna Concetta guardava la bimba e sorseggiava rumorosamente il suo brodo di verdure. I suoi occhi raccontavano di una madre diffidente e preoccupata e una lacrima le scese sul viso, ma lei la scacciò subito con la mano mentre continuava a sorseggiare il suo brodo. L’unica entusiasta della scelta era Sara, che avvertiva un bisogno disperato di vedere sua madre finalmente felice.
Ci volle ancora qualche mese prima che Maria decidesse di trasferirsi insieme alla sua bimba nella casa dell’uomo, nella parte orientale della città. La casa aveva un profumo esotico mischiato con l’odore di tabacco bruciato; dalla soglia della porta si vedeva un divanetto con una fodera color ocra e dei disegni etnici. Di fianco al divano c’era una piccola lampada in legno e di fronte una porticina che portava al bagno, piccolo ma accogliente. Di fronte al divano, la cucina con un piccolo tavolo con quattro sedie. La cosa più bella per Sara era la scala, a chiocciola di legno scuro, con il passamano di ferro battuto che portava alla camera da letto, bella grande, con due letti, uno matrimoniale e uno per la bambina, l’armadio e tutto il resto, e anche una bella finestra che si vedeva il Vesuvio.
Sara non aveva mai avuto delle scale in casa, le aveva viste soltanto nei film di Natale americani abbellite da luci meravigliose. Aveva sempre desiderato una casa con delle scale.
Maria cucinava e puliva casa e il suo uomo sembrava innamorato perso. Quando tornava da lavoro le dava ogni volto un bacio sulle sue piccole labbra color ciliegia e ogni tanto portava a casa dei profitterol al cioccolato ripieni di panna montata e mentre li mangiavano guardavano dei film inediti, appena lanciati nelle sale cinematografiche.
Sara era felicissima, a scuola quando la maestra proponeva alla classe di parlare della loro famiglia lei disegnava loro tre e ne parlava, con l’ingenuità e la purezza che solo una bambina della sua età poteva avere. Si sentiva finalmente protetta, completa. La felicità di sua madre per lei era molto importante.
Quasi sempre nei fine settimana, quando la bambina non andava a scuola, nonno Gerardo la veniva a prendere e la riportava al nido, e nonna Concetta era felice di vedere la nipotina come rinata. Non aveva più quel malessere e quel peso sul petto. Era libera, si sentiva una bambina della sua età, finalmente.
Sembrava insomma che tutto procedesse per il meglio e invece d’un tratto, senza preavviso, il senso delle cose cambiò.
Era una fredda mattina di febbraio, Maria faceva la doccia e Sara se ne stava rannicchiata sul tappeto vicino al lavabo. A fare da sottofondo la canzone “White a flag” di Dido. Uscita dalla cabina doccia, Maria si accorse della figlia e si coprì velocemente con l’asciugamano di spugna, mentre un sorriso forzato si stampò sul suo viso olivastro. Fu una manovra svelta ma inutile, perché quando l’asciugamano cadde sul pavimento bianco Sara si accorse della macchia viola, scura, sulla schiena della madre.
Se fosse stata più grande avrebbe capito subito che era il sangue grumoso sotto la pelle di una donna che aveva subito violenza, ma lei era ancora solo una bambina, e perciò chiese “Mamma, cos’è quello?”.
Maria, imbarazzata e presa dall’ansia, le rispose che si era fatta male al lavoro, che aveva sbattuto la schiena vicino al portone di un condominio mentre portava su il secchio pieno d’acqua. Alle parole della madre la bambina, per quanto turbata, si rassicurò.
Nelle settimane successive Maria cominciò a dimagrire a vista d’occhio. Era spesso tesa, nervosa, costantemente in ansia. Il suo sorriso di colpo si era spento e le risate, in quella casa, erano state sostituite dalle grida.
“Cosa ci facevi l’altro giorno al bar?”
“Ero con un’amica, c’era con me anche Sara.”
“Ti avevo vietato di andare al bar, ci sono persone viscide in quei posti!”
Sara avrebbe voluto difendere sua madre, ma era piccola. In cambio aveva tanta rabbia dentro di sé, a un certo punto pensò anche di dire tutto ai nonni, ma non lo fece. Ogni sera la madre l’accarezzava e la tranquillizzava sussurrandole che sarebbe andato tutto bene, che in fondo il suo uomo si comportava così perché era innamorato.
La situazione precipitò una domenica durante la cena. Maria aveva ricevuto una telefonata da un collega che aveva bisogno delle chiavi di un condominio e, dopo essersi accordati per l’indomani, si salutarono come due amici di vecchia data.
Appena finita la telefonata l’uomo, preso dall’ira e dalla gelosia, sollevò il piccolo tavolo di legno dove c’erano i piatti di porcellana e la padella piena di spaghetti al pomodoro e lo lanciò con forza verso Maria. Sara rimase immobile, tremante, la forchetta tra le mani, la mamma le si avvicinò, l’abbracciò e le chiese se si fosse fatta male. Sara, con una vocina timorosa, le rispose di no aggiungendo che si era sporcato tutto il divano di pomodoro. Sollevata perché la sua bimba stava bene, Maria le sussurrò di non preoccuparsi, che adesso sarebbero tornate al nido e nonna Concetta avrebbe cucinato una pasta al pomodoro molto più saporita della sua. Dopo di che si alzò, si fece coraggio e disse all’uomo gridando che tra loro finiva qui, che se ne sarebbe tornata insieme a Sara dai genitori e così fece, nel senso che prese la sua borsa e lo zainetto di Sara, incappucciò la figlia, se la mise in braccio e si diresse verso la porta.
La bambina aveva l’impressione di stare con la madre all’interno di una galleria buia dove però, in lontananza, si intravvedeva la luce del sole. Sì, camminavano verso la luce, era sempre più vicina, luminosa e pronta ad avvolgerle nel suo calore. Poi, d’improvviso, la luce sparì.
L’uomo aveva chiuso la porta e messo via le chiavi. Tornata a terra, la bambina sentì la terra che le si sgretolava sotto i suoi piedi, se ne stava immobile e senza speranza, dominata dalla paura.
L’uomo intanto si era avvicinato alla madre e le aveva chiesto scusa con degli occhi rossi e dannati come quelli del diavolo, mentre la donna si era rannicchiata sul pavimento piangendo. Sapeva di essere in trappola, ma lo amava nonostante tutto. Aveva gli occhi di una tigre mentre gridava che non doveva succedere mai più una cosa simile davanti alla sua piccola Sara, ma era solo una tigre di carta, una tigre senza artigli e senza zanne.
Con il trascorrere dei mesi la tensione in casa aumentava sempre di più. E quel che era peggio, Sara percepiva una distanza dalla madre che le faceva molto male, era come se fosse diventata succube di quell’uomo possessivo, malato, infastidito da ogni attenzione della donna per la figlia. La voleva tutta per sé, ed era disposto a tutto per ottenerlo.
Sempre più spesso la notte Sara passava la notte a guardare il soffitto. La paura non la faceva dormire e quella casa un tempo così bella e accogliente era diventata nella sua mente una prigione senza finestre e senza uscita. Nelle storie a lieto fine le bambine della sua età non vivono vite così, ma la sua storia non era a lieto fine, non riusciva a immaginare che lo sarebbe diventata, e comunque non lo era ancora.
Ormai lo trovava disgustoso. Certi pomeriggi, quando tornava da scuola, tra le ringhiere della scala a chiocciola avvertiva l’eco degli atti di violenza che quell’uomo perpetuava sul corpo esausto di sua madre. Se solo avesse potuto, lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani, era una sanguisuga che si nutriva del sangue puro e soggiogato di sua madre, almeno così pensava lei allora.
Accadde una notte come tutte le altre, mentre la luce della luna accarezzava il suo letto. Anche il destino sembrava volersi prendere gioco della bambina, perché dormiva quando sentì la mano che le sfiorava le cosce. Nel dormiveglia, pensò per un istante che fosse la madre, ma l’illusione svanì non appena lui le prese la sua e se la portò sul suo corpo lurido guidandola nelle zone più oscure. Terrorizzata, la bambina, facendo finta di continuare a dormire, tirò via la mano e sa la nascose insieme all’altra sotto il corpo con tutta la forza che aveva. Sentì il mostro ridere con gusto e poi tornare nel letto grande di fianco alla madre.
Notti così possono segnare chiunque per tutta la vita, figuriamoci una bambina. Era come se fosse diventata di colpo adulta in un corpo di bambina. Fu abbandonata dai suoi sogni e dalla sua fantasia. Si vergognava, si sentiva in colpa, si faceva ribrezzo.
La mattina dopo scese mentre la mamma preparava il caffè e lui era seduto al suo fianco su una piccola sedia di legno. La guardò e la fulminò con gli occhi come a dire: “Mocciosa non ti azzardare a parlare di ciò che è successo”. E Sara così fece, non aprì bocca. Aveva paura, provava vergogna, si sentiva in colpa, una bambina sporca nei confronti di sua madre.
Sembrava di vivere in un fil di paura. Un giorno il mostro tagliò con le forbici la lunga chioma scura di Maria. Non voleva che la sua donna fosse bella per il mondo, voleva la bellezza di Maria tutta per sé. Il mostro non era un egoista, era per l’appunto un mostro, ma Maria continuava a esserne succube.
Quella bambina che non si sentiva più bambina tentò più volte di convincere la madre a tornare al nido, ma non ci fu verso. Fino al giorno in cui le disse che se voleva andare via poteva farlo ma da sola, senza di lei, e Sarà così fece.
Cambiò scuola, tornò al nido, riprese a guardare il nonno che lavorava l’orto e trascorreva spesso i pomeriggi disegnando con la nonna. Ogni tanto la madre veniva a trovarla, la stringeva, la baciava e le diceva che era bellissima. Lei invece non le parlava, da quella madre confusa, fuori di testa, sempre più sfiorita, voleva solo essere coccolata.
Ci volle ancora tempo prima che Maria decidesse di lasciare il mostro, le sue grida, le mani pesanti, senza dolcezza né pudore. Mani violente, mani che potevano uccidere.
Cercarono di cancellarlo dalle loro vite. Da quando Maria era tornata non si parlò più di lui. La madre voleva dimenticare tutto il male a cui si era sottoposta e che aveva subito, e pure la figlia non aprì bocca. Lei, Sara, le parole le aveva finite, il silenzio si era preso tutta la sua infanzia. Era ritornata una bambina solitaria; parlava con le bambole e i gatti che popolavano il giardino, raccontava a dei fogli bianchi le lotte che faceva ogni giorno con le sue angosce.
Parecchi anni dopo il mostro morì. Dannato, da solo, fulminato da un arresto cardiaco. I vicini lo trovarono con gli occhi spalancati e la puzza di feci sul piccolo divano bruciacchiato dai mozziconi di sigaretta.
EPISODIO 4 | UN CORPO NUDO
Torna all’Indice
“Foglio bianco, lo dico a te che mi ascolti, vedi che oggi a scuola non sono stata bene. Sono dovuta uscire di fretta dalla classe. Mi mancava l’aria e mi sentivo morire. Volevo la mia mamma e anche la nonna. Non volevo stare insieme ai miei compagni. Desideravo soltanto il mio lettino e la mia cameretta piena di bambole. Mamma domani mi porterà da un dottore perché mi vede strana, dice che non sono più come una volta. Sono silenziosa e ogni tanto ho attacchi d’ira e di panico. La donna oscura non mi lascia stare. Viene di notte a osservarmi da sopra il grande armadio di legno. Ora vado, caro foglio bianco. Ti piego per bene in modo che nessuno possa leggerti e ti nascondo tra i miei CD. La cena è pronta.”
Sara stava diventando una piccola donna. Il suo seno iniziava a spuntare da sotto la maglietta intima e pure le forme dei suoi fianchi. Aveva i capelli lunghi e li adorava. Un poco perché si sentiva protetta, un poco perché Nonna Concetta, con il tocco dolce che solo una nonna può avere, si divertiva a farle tante acconciature.
In genere era dolce, però non voleva assolutamente che qualcuno sorpassasse la linea sottile che portava al suo piccolo benessere, nella casa dei nonni, nel nido. E voleva la madre tutta per sé, era diventata possessiva, ansiosa se solo tornava più tardi da lavoro, ne sentiva il bisogno come le piante dell’acqua e della luce.
Sara era cambiata. Passava dalla pura felicità ai momenti di ira contro le porte, i mobili e ogni altro oggetto avesse in quel momento a portata di pugni e di calci.
Era il suo modo di sfogarsi, ma nessuno la capiva, anzi la rimproveravano e così senza saperlo peggioravano soltanto la situazione. La soluzione, credettero, era l’analista.
Lei aveva i capelli bianchi portati dietro le spalle, il rossetto sbavato e i denti poco curati. Puzzava di cose vecchie e Sara non si sentiva per niente rassicurata da quella donna, la trattava con molta indifferenza, si rifiutava di parlarle.
Poi, in una notte di luglio, si svegliò di colpo nel buio. Le mancava l’aria e urlò senza tregua, facendo precipitare la madre e i nonni. Necessitava della luce. Implorò di portarla in ospedale, e poi non riusciva a parlare. Sentiva la morte che le respirava addosso e le toglieva ogni forza vitale.
Arrivarono al pronto soccorso con la piccola 126 rossa di nonno Gerardo. I medici la visitarono e si resero conto che dal punto di vista clinico la ragazzina stava bene, il suo cuore funzionava e così i suoi polmoni.
Se i medici avessero saputo tutto quello che sapeva Sara forse avrebbero capito che quelle sensazioni che provava erano il frutto dell’accumularsi delle troppe esperienze traumatiche che aveva vissuto. Avrebbero capito che erano state la violenza, l’insofferenza, la mancanza, il gelo, la superficialità di cui era stata vittima a procurarle quella sensazione incombente di morte. Ma loro questo non lo sapevano, nessuno lo sapeva fino in fondo, soltanto lei.
Fu così che, di fronte alle sue condizioni, pensarono che l’unica strada fosse quella che portava ai farmaci per farla calmare e renderla meno aggressiva. Psicofarmaci, dissero che poteva essere quello l’inizio della soluzione, e invece furono l’inizio della dipendenza.
Un corpo nudo adagiato su un manto di candida neve. Cosi si sentiva Sara. E aveva solo 12 anni.
EPISODIO 5 | MARE D’INVERNO
Torna all’Indice
Nessuna vita è fatta soltanto di giorni dispari, e neanche quella di Sara faceva eccezione. Giornate come quella domenica di novembre in cui lei e la sua famiglia trascorsero il pomeriggio in spiaggia. Il mare era grigio, immenso e tempestoso e le nuvole che coprivano a tratti il sole donavano spiragli di luce alla scogliera dove se ne stavano sedute la mamma e la nonna. Lei e il nonno, scalzi nonostante la sabbia fredda sotto ai piedi, erano intenti a costruire una capanna di legno con l’aiuto di piccoli tronchi, rami e i resti di una vecchia barca. Il vento e la salsedine accarezzavano i capelli di Sara, che non si stancava di correre di qua e di là con le sue gambe sottili per raccogliere pezzi di legno e portarli verso il nonno. L’uomo, per proteggerla dalla forza del vento, l’avvolse a un certo punto in una piccola coperta.
Ancora qualche ramo e fu il momento chiamare la mamma e la nonna. Due donne che in più occasioni avrebbero voluto raccontarsi ma avevano preferito andare avanti così, cercando di lasciarsi alle spalle almeno un po’ dei demoni che le avevano allontanate l’una dall’altra.
“Mamma! Nonna! La capanna è pronta! Venite!”, urlò giocosa Sara dimenando le braccia per dare più forza alla sua voce. Per fortuna, nonostante tutto, riusciva a rubare attimi di tregua alle sue fobie. Erano gli unici momenti in cui si sentiva leggera.
“Nonno, resteremo uniti per sempre, non vero? Mi prometti che non ci lascerete mai sole a me e mamma?”, disse con la voce coperta dal vento mentre le due donne si avvicinavano di buon passo.
Gli occhi scuri del diventarono lucidi, lucenti; deglutì, poi dalle labbre possenti uscì soltanto un “sì”. Era un uomo di poche parole, Gerardo. Non mostrava facilmente il suo affetto, ma amava Sara all’infinito.
La sua piccola Sara che conviveva con la paura dell’abbandono e della solitudine. Che si sentiva morire se solo pensava che la sua famiglia potesse sgretolarsi.
Il mare le faceva paura, ma non quando stava con lui. Il suo abbraccio la proteggeva in ogni situazione e lei necessitava di quel calore paterno. Quando era con lui anche il pensiero costante che aveva della morte si placava.
Sara si sentiva rassicurata, come in quella bellissima scena de “Il signore degli anelli” che la ragazzina aveva visto qualche giorno prima. La scena era quella in cui Gandalf il Mago rassicura lo hobbit Pipino con le forze allo stremo dopo una feroce battaglia.
“Non credevo sarebbe finita così…”
, dice lo hobbit.
“Finita? No, il viaggio non finisce qui… La morte è soltanto un’altra via. Dovremo prenderla tutti. La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre, e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi lo vedi…”, gli risponde il Mago.
“Cosa, Gandalf? Vedi cosa?”
“Bianche sponde, e al di là di queste un verde paesaggio sotto una lesta aurora”.
“Beh, non è così male!”
“No. No, non lo è…”
Certe volte anche Sara, indifesa com’era, pensava proprio come Pipino che, dopo tutto, non fosse così male la fine.
L’arrivo della mamma e della nonna la distolse dai suoi pensieri. Per primi furono lei e il nonno a inginocchiarsi per entrare nella capanna che avevano costruito, poi la nonna e la mamma.
Riuscirono non si sa come a sistemarsi tutti e quattro all’interno, con le gambe incrociate e una coperta di flanella a quadri rossa appoggiata sulle cosce. Poi la nonna tirò fuori da una borsa di cuoio consumato una piccola torta di mele con lo zucchero a velo e la finirono tutta. Sorrisero e scherzarono per tutto il tempo, godendo di quella domenica pomeriggio al mare, riparandosi dal vento gelido in quella improbabile capanna di legno.
Avvolta nella sua famiglia, Sara si sentiva intoccabile, nonostante il mare infinito e rabbioso, nonostante le mancanze, nonostante la paura di morire.
La felicità nelle piccole cose. Al mare. D’inverno.
CAPITOLO DUE
Torna all’Indice
EPISODIO 1 | COME UNA FOTOGRAFIA
Torna all’Indice
Tanti capelli che incorniciavano il suo viso, un diario di pelle consumato tra le mani e il tramonto che le faceva socchiudere gli occhi. Così trascorreva i suoi pomeriggi Sara. Cercava di scrivere una canzone, una rima o semplicemente parole messe a caso su una pagina, come promemoria di qualcosa, che poi magari in futuro avrebbe scritto.
Dopo aver trascorso la giornata fuori casa, come faceva spesso – dopo scuola le piaceva fermarsi a studiare in biblioteca – verso l’ora di cena tornava a casa, dove trovava ad aspettarla sua madre e i nonni.
Negli ultimi due anni le cose erano migliorate nella loro famiglia. Maria lavorava di meno e così poteva dedicare più tempo alla figlia; nonna Concetta e nonno Gerardo, invece, vivevano finalmente una normale e più tranquilla vita di campagna.
Sara in quel periodo si sentiva abbastanza serena, le sue ansie si erano come placate, adesso era più che altro eccitata perché aveva iniziato il liceo. Aveva scelto con convinzione il liceo classico, si era lasciata guidare dall’amore incondizionato che aveva per i libri. Il resto della famiglia era molto orgogliosa di lei. Non avevano mai avuto, in casa, qualcuno interessato a quel mondo. Poi, proprio quando tutto sembrava andare meglio, le cose cambiarono ancora.
Quel giorno Sara tornava da scuola in autobus, scese e vide la madre che la aspettava. “Mamma, che sorpresa!”, disse mentre le andava incontro. Maria, visibilmente imbarazzata, la prese per il braccio con dolcezza e le propose di mangiare una pizza sulla spiaggia non lontano da casa.
Era una bellissima giornata di metà settembre. La pizza era buonissima, la mozzarella filava e le fette non si reggevano tra le mani tanto che erano piene zeppe di pomodoro. Madre e figlia mangiavano, parlavano e sorridevano, e ogni cattivo pensiero sembrava sparito dai loro cuori, fino a quando il viso di Maria si fece serio e la ragazza comprese che la madre voleva dirle qualcosa. Sara conosceva bene quello sguardo, così il suo cuore iniziò ad accellerare e le mani presero a sudare. Maria le raccontò che nelle settimane precedenti aveva conosciuto un uomo, Giuseppe. Pochi incontri nell’arco di alcune settimane e avevano capito di essere innamorati. Sara sentiva l’ansia crescere dentro di sé, ma fu quando la madre le disse che questa volta era sicura che potesse funzionare che sentì un brivido lungo la schiena e fece come se volesse allontanarsi da lei.
Era arrabbiata e delusa. Urlò alla madre di stare lontano da lei, Maria al contrario l’abbracciò e la strinse a sé, sussurrandole parole dolci per calmarla.
“Tu una volta mi avevi detto che eri felice se trovavo qualcuno che mi facesse sentire imbattibile. Ricordi?”, le disse a un certo punto.
“Sì, ma noi adesso stavamo bene, eravamo felici. Perché vuoi cambiare di nuovo tutto questo? Vedrai che che questa persona si prenderà da te le cose belle e per il resto resteranno solo macerie.” L’angoscia della ragazza diventava sempre più profonda. La mamma cercava di rassicurarla promettendole che per loro due non ci sarebbero più state cose brutte, soltanto amore e bellezza. Tenendola tra le braccia le ripeteva che Giuseppe era una persona semplice dolce, ma Sara era diffidente, con quello che aveva vissuto come poteva non esserlo.
“Io non ci credo fino a quando non lo conosco questo tipo, adesso sono cresciuta, non mi faccio fregare un’altra volta”, disse a un certo punto con tutta la voce che aveva.
Maria sorrise dentro di sè, commossa dall’atto di generosità di sua figlia che non aveva di certo la capacità di capire una persona a prima vista eppure le aveva voluto offrire una possibilità. Le sorrise e le disse che lo avrebbe conosciuto presto.
“E nonna Concetta e nonno Gerardo?”, chiese la ragazza.
“Lo sanno già”, rispose la donna. “Questo week end tornerà a Napoli e lo conoscerai. Verrà a cena da noi, che dici? Però adesso ti prego, fammelo un bel sorriso”, aggiunse mentre con le dita le stringeva affettuosamente le guance rosee.
Sara cercò di trattenerlo quel sorriso, ma per fortuna non ci riuscì, voleva troppo bene a sua madre, così a un certo punto si abbracciarono forte e scoppiarono in una fragorosa risata. Dopo, sistemarono per bene la pizza lasciata a metà nella busta di carta e si avviarono verso casa, ognuna con i suoi pensieri nella testa e con la sua lattina di Pepsi Cola nella mano. In fondo, Sara aveva bisogno soltanto di amore e di attenzioni. Non era tanto, non era poco, soltanto quello che bastava per farle tornare il sorriso.
E venne il sabato, il giorno in cui finalmente Sara avrebbe conosciuto l’uomo che aveva scelto sua madre. Mentre si metteva un filo di rossetto rosso ciliegia sulle labbra, le domandò di che cosa si occupasse l’uomo e dove abitasse. Maria le rispose che viveva vicino Firenze e che si occupava della sicurezza in un supermercato.
“Ah va bene…” disse a questo punto Sara con evidente perplessità. Poi aggiunse: “Ma scusami mamma, come fate? Cioè, lui mica può scendere sempre nei week end!”
Maria stava per risponderle nel momento esatto in cui il citofono suonò. Nonna Concetta chiamò la figlia dalla cucina. “Maria, mi sa che è arrivato il tuo principe azzurro! Apri tu la porta, io non mi posso muovere, sto friggendo le alici!”
Mentre la madre si avviava alla porta, Sara si sciolse i capelli, si guardò per l’ultima volta nel grande specchio della camera da pranzo e raggiunse nonno Gerardo sul divano. Dalla televisione arrivava la sigla di “Walker Texas Ranger”. Lei e il nonno lo adoravano, adoravano guardarlo insieme, era il loro rito serale, ma quella non era una sera come tutte le altre.
In lontananza si sentivano dei passi. Passi nuovi che salivano le scale, passi sempre più pesanti, passi di uomo. Sara sentì un tuffo al cuore; si scoprì ansiosa di conoscerlo.
Giuseppe entrò in casa e inquadrò subito Sara con le mani appoggiate sul divano verde di velluto. Lui aveva i capelli castani, gli occhi piccoli e sorridenti, il viso tondo e il corpo robusto. Sorrideva, ma si presentò con un certo imbarazzo. Le sue parole marcate dall’accento toscano con la “h” che si manngia quasi del tutto la “c” fece sorridere Sara, che gli disse come a volerlo mettere a suo agio che avrebbe voluto tanto visitare Firenze, un giorno.
Dopo cena, le lunghe chiacchierate a tavola e in compagnia di un buon vino, Maria e Giuseppe andarono a prendere un po’ d’aria sul balcone che affacciava sull’orto e nonna Concetta e Sara li raggiunsero.
Mentre gli altri parlavano e fumavano una sigaretta con tranquillità, Maria buttò lì a Sara l’idea che un giorno avrebbe potuto lasciare il suo nido per trasferirsi in un’altra città. La ragazza, sospettosa e perplessa, rispose in maniera vaga, dicendo che non sarebbe stato semplice e che le sarebbero mancati tanto i nonni. Subito dopo, come a volere scacciare quel pensiero da sé, si diresse verso nonna Concetta e le diede un bacio sulla guancia morbida, segnata dagli anni. “Comunque con questo non voglio dire che non mi potrebbe far piacere”, aggiunse quando colse l’amarezza negli occhi della madre.
Trascorsero altri mesi e Sara passava la maggior parte del tempo a studiare latino e a fare lezioni private di matematica. In quel periodo non era molto concentrata. La notte dormiva poco per via di sua madre che si svegliava spesso la notte per andare in bagno, visite spesso accompagnate da conati di vomito. La cosa durava già da un po’ quando decise di seguire la madre, si appoggiò nei pressi della porta del bagno e aspettò che la madre uscisse.
“Che cosa c’è, mamma”, le chiese allora preoccupata.
“Niente piccola, è solo un poco di nausea. Vieni, torniamo a dormire”.
Qualche giorno dopo la sorpresa. Era un pomeriggio piovoso, Sara stava studiando e nonna Concetta e la madre entrarono nella sua camera con il sorriso stampato sulle labbra e gli occhi lucidi. Cercarono per un po’ le parole e quando le trovarono le dissero con delicatezza che presto avrebbe avuto un fratellino.
Sara, dapprima incredula, non appena capì per bene quello che stva succedendo urlò a squarciagola: “Wow mamma, ma è bellissimo!”, dopo di che le si avvicinò, le toccò il ventre e l’abbracciò forte. Forse non l’aveva mai abbracciata così prima. Dopo di che le sussurrò all’orecchio: “Nonno? Lo sa?”
Nonna Concetta, che aveva sentito, rispose felice di sì e che era anche lui molto felice della notizia, che Giuseppe gli piaceva. Poi alzò lo sguardo e con con voce un po’ insicura aggiunse: “Be, si conoscono da poco, però che dobbiamo farci? Va bene così! Queste cose non si programmano.”
Sara amava la nonna perché dietro la sua fragilità nascondeva una forza straordinaria. Magari non la forza di saper affrontare nel modo migliore le cose negative, ma la forza di comprendere, che a volte è anche pià importante.
Quella stessa sera, mentre la madre era al telefono con Giuseppe sul balconcino fatto di mattoni della loro camera, Sara ci tornò su. Era come confusa, spaventata dalla reazione che aveva avuto quel pomeriggio, non aveva finto, questo no, la sua gioia era stata era naturale, però adesso quaalcosa le diceva che il fratellino che stava per nascere avrebbe messo la parola fine alla sua vita con i nonni, al suo nido, alle sue pochissime certezze. Pensò che doveva chiedere una cosa alla madre, anche se la risposta la sapeva già.
Quando la madre rientrò per mettersi a letto, la ragazza le chiese se questo bambino sarebbe cresciuto a Firenze, con suo padre.
La risposta che immaginava arrivò, e lei da un lato sapeva che doveva soltanto accettarla, dall’altro sentì il sangue che si faceva freddo nelle vene.
La mamma capì come soltanto le mamme possono capire, le accarezzò dolce il viso e le disse “Sara, ma tu sei pronta? Sei pronta a lasciare tutto e ricominciare? Una nuova vita piccola mia, dove nessuno ti giudica per il tuo passato. Pensi di essere pronta?”
Sara la guardò senza sapere cosa rispondere. In cuor suo voleva essere felice, capiva che Maria aveva una disperata voglia di fuggire e anche a lei Giuseppe sembrava un brav’uomo, ma al solo pensiero di dover lasciare i nonni si sentiva letteralmente morire.
“Il treno Freccia Rossa 34527, diretto a Milano Centrale è in partenza al binario 14. Il treno ferma a Roma Termini, Firenze Santa Maria Novella e Bologna.”
Tra la folla che si affrettava a raggiungere il binario, quattro persone e due valigie rosse. Una donna con un ventre ormai pronunciato che ospitava una nuova vita, una ragazza esile dai lunghi capelli dorati e due persone anziane che le aiutavano a salire e a sistemarsi ai loro posti.
Sara si sentiva sopraffata da una sensazione di malinconia e dolcezza, di tristezza e ansia. Mancanza.
Seduta, Sara guardò dal finestrino e con le mani formò un quadrato, incorniciando i nonni in lontananza, come se avesse voluto scattare una foto. Forse una foto nel suo cuore l’aveva scattata. Una foto che avrebbe tenuto per sempre con sé. Le lacrime le attraversarono lentamente il viso e il treno partì.
EPISODIO 2 | UN MAGLIONE SFORMATO
Torna all’Indice
Sara e la madre si erano trasferite da qualche mese a Bagni in Rivoli, una bella cittadina attaccata a Firenze, quando nacque Enea, un bambino dal viso paffuto e gli occhi scuri, furbi e vispi. Era stata Sara a scegliere il nome, e ne era entusiasta. Era originale, o comunque non comune e le piaceva per questo. Poche settimane e aveva scoperto di amare tantissimo il suo fratellino, come se in cuor suo l’avesse sempre desiderato.
Avevano 15 anni di differenza, ma a lei non importava, anzi si dedicava a lui con gioia nei pomeriggi in cui la madre andava in giro in cerca di lavoro.
Con un solo stipendio non ce la facevano. La loro casa era un ampio monolocale mansardato, gli affitti erano alti e non potevano permettersi una stanza in più. In quattro in una stanza non era facile; una piccola televisione, un computer fisso, un divano letto matrimoniale per Maria e Giuseppe, un lettino per Sara e di fianco la culla del piccolo Enea.
Nel frigo solo cose essenziali, sulla tavola troppo spesso solo brodo o zuppe di legumi. Raramente a tavola c’era una fettina di carne
Sara dormiva nella stanza con sua madre e Giuseppe. All’inizio non fu semplice, dopo tutto quello che aveva passato si sentiva a disagio e non riusciva a vivere tranquilla, nonostante la dolcezza e il rispetto che quell’uomo mostrava nei suoi confronti. Sara aveva ugualmente timore. Ogni volta, anche quando, davanti allo specchio del bagno, doveva spazzolare i suoi lunghi capelli, non riusciva a farlo se prima non chiudeva la porta di carton gesso a chiave. Il passato se lo sentiva tatuato sulla pelle, ma era brava a deglutire il suo terrore e ad andare avanti, nascondendo per quanto era possibile le sue fobie.
Non aveva più crisi abituali, anche grazie agli psicofarmaci che prendeva ormai da anni. Aveva cambiato tipo di scuola, adesso frequentava la seconda superiore di un istituto professionale vicino casa. Ad essere onesti, il liceo per lei era molto impegnativo, ma i suoi professori di certo non le furono d’aiuto.
“Signora”, ripetevano a sua madre, “questo tipo di scuola non fa per sua figlia. Le consiglierei un istituto tecnico o professionale.” Sopraffatta dalla sfiducia e senza la forza di lottare Sara cominciò questa nuova esperienza, cercando di dare il meglio di sé, nonostante quell’indirizzo scolastico non le piacesse affato, a parte la letteratura. In più, in quell’unica stanza, con il neonato che piangeva, le risultava assai complicato concentarrsi e studiare. Non ne parliamo dei pomeriggi in cui Maria e Giuseppe non erano a casa e quindi doveva essere lei ad avere cura del fratellino. Cosa poteva fare se non mettere lo studio al secondo posto?Di fatto era costretta a studiare di notte per avere almeno la sufficienza in tutte le materie.
A scuola anche i rapporti con i compagni di classe non andavano a gonfie vele. Lei, con i muri che si costruiva intorno non facilitava di certo la situazione, cosicché molti la ignoravano e c’era una ragazza che la infastidiva.
A pensarci dopo, anche lei doveva avere una situazione complicata alle spalle: sembrava molto più grande dell’età che aveva, indossava tute ampie e probabilmente faceva uso di droga.Una mattina, durante la ricreazione, questa ragazza buttò sul pavimento a scacchi polveroso l’astuccio di Sara e l’aggredì dicendole che era una ritardata mentale mentre ridacchiava con lo sguardo soddisfatto.
Era da molti giorni che Sara viveva situazioni di disagio senza reagire, ma non quella mattina, così si alzò di scatto dalla sedia e urlando parole sconnesse sollevò il banco della ragazza e lo lanciò dall’altra parte dell’aula.
Il silenzio sembrò inteminabile fino a quando la preside non arrivò in aula. Era una donna bassa, occhialuta, dalle labbra carnose pitturate di rosso, capelli tinti biondo platino e la carnagione di uno scuro innaturale.
“Dunque, cosa è successo? È vero che hai lanciato il banco della tua compagna dall’altra parte dell’aula?” La ragazza, timorosa annuì.
”Voglio parlare con i tuoi genitori?”, aggiunse a questo punto la donna sempre più rossa in viso. Li aspetto domani mattina!”
Sara in cuor suo sapeva che la madre poteva venire, ma non voleva assolutamente coinvolgerla e perciò cercò mille scuse e una spiegazione valida per non subire ancora un’altra umiliazione.
“Signora preside, senta, cominciò a farfugliare “io soffro di crisi di crisi nervose da quando ero piccolina, sono giorni che vengo provocata ma mi dispiace molto per ciò che è accaduto. Non capiterà più!” Aggiunse agitandosi “mia madre è in cerca di un lavoro e ha già tanti problemi. La prego…per questa volta accetti le mie scuse e le prometto che non capiterà più!”
Gli occhi della donna furono attraversati da un filo di tenerezza, aveva capito che Sara viveva una situazione particolare e come una mamma, per sdrammatizzare, cambiò discorso.
“Sei di Napoli? L’ho capito dal tuo accento.”
Sara annuì timidamente e la preside continuò dicendole che con suo marito erano stati non molto tempo prima a Napoli e avevano mangiato una pizza buonissima.
Quel giorno Sara tornò a casa pensierosa. Dopo aver sistemato i libri accanto al computer, riempì d’acqua una pentola e la mise sul fornello. Nell’attesa che l’acqua bollisse, telefonò a sua madre per sapere dove si trovava. La donna era nei pressi di casa, un paio di minuti e se la ritrovò in cucina con il piccolo Enea. Eccitata, le disse che aveva trovato un lavoro. “Farò la mattina, esclusi i giorni di festa, le pulizie in casa di un’anziana signora”, aggiunse.
Sara era felice per lei, ma i suoi grandi occhi parlavano. La madre, dopo aver sistemato nella culla il piccolo Enea, si accomodò sulla scricchiolante sedia di legno e le chiese cosa stesse succedendo. Sì, gli occhi di sua figlia le avevano detto che c’era qualcosa che non andava.
La ragazza le raccontò tutto e con voce strozzata le chiese: “Mamma, ma io che cosa ho che non va? Perché non vengo accettata dai miei compagni?”
“Non hai niente che non va piccola mia, sono loro che non ti conoscono e non ti capiscono! Fidati, che piano piano ti accetteranno e avrai tante amicizie, cosa che non hai mai avuto prima.”
Sara annuì, ma in quello stesso momento nella sua testa scattò qualcosa.
Il giorno dopo non andò a scuola, disse alla madre che si sentiva stanca e un filo di verità c’era nelle sue parole, dato che il piccolo aveva passato l’intera notte a piangere.
La mattina stessa, aspettò che il bambino dormisse beato nella piccola culla di vimini avvolto nelle copertine bianche profumate di lavanda e passò all’azione. Chiusa la porta alle sue spalle, prese le forbici da un cassetto sotto al lavabo, si fece coraggio e con un taglio netto fece cadere sul pavimento bianco le sue lunghe ciocche dorate. Dopo di che prese un’ago sterilizzato e spinse, spinse forte sul lato destro della narice per formare un piccolo foro. Cacciò con fatica l’ago dalla pelle e mentre il sangue scendeva sul lato destro delle labbra, chiuse il foro mettendo un cerchietto d’argento trovato nello svuotatasche di sua madre e infine con un batuffolo di cotone zuppo d’acqua ossigenata tamponò la ferita.
Uscita dal bagno, controllò che Enea dormisse sereno e si avvicinò agli scatoloni polverosi che erano di fianco al computer. Dentro, c’erano i suoi vestiti. Buttò in un sacchetto dell’immondizia quelli pieni di colore e conservò due felpe, una nera e una scura con la scritta “The Beatles”. Selezionò vari pantaloni di jeans e maglioni, tra cui uno sformato e consumato che apparteneva a suo nonno Gerardo. Le piaceva tantissimo e quel verde scuro consumato stava bene sulla sua carnagione chiara.
“Caro foglio bianco, da oggi non sarò più una piccola Sara. È successo qualcosa dentro di me. Starò crescendo? O la mia è solo paura? Ossessione dici? Ossessione di non essere accettata dalle persone della mia età? So che tra di noi non ci sono segreti. Ora verrai bruciato per far si che queste parole siano solo nostre e appena arriva mia madre andrò a comprare un pacchetto di sigarette. Voglio provare la sensazione del fumo che entra nei miei polmoni e poi sentire e godere della leggerezza che rilascia la nicotina. Ne ho proprio bisogno. Ciao amico mio.”
In realtà Sara non sapeva cosa fare. Voleva soltanto essere accettata e per esserlo si deformò. Voleva omologarsi, perdere la sua purezza, attraversare gli altri come un fantasma.
EPISODIO 3 | PERDUTA
Torna all’Indice
“Tra i mozziconi
io cerco invano
di scacciare il demone
che si impiglia alla
vita.
S’aggrappa
e non mi lascia scampo.
Si prende
la bocca,
il petto,
la testa.
Tutta me stessa.
Quell’essere così meschino
non va via.
Mi sorveglia,
m’accarezza
e poi m’ammazza.”
Da pochi giorni Sara aveva spento la sua diciasettesima candelina, insieme al suo fratellino, a sua madre e a Giuseppe. Maria aveva acquistato una torta confezionata al gusto di limone; in realtà Sara non voleva che si festeggiasse il suo compleanno, ma lei non aveva voluto rinunciare a quell’atto simbolico. La ragazza era ormai diventata una piccola donna, si era creata un suo cerchio di amicizie e passava una parte del suo tempo a scrivere poesie su un piccolo quaderno a righe stropicciato. Prima di cena, di solito, usciva dalla piccola casa mansardata, scendeva le scale del condominio e si recava in un parco vicino casa. Una volta arrivata, accendeva la sua Marlboro rossa e iniziava a scrivere, mentre il fumo che aspirava le dava una sensazione di leggerezza. Essendo una ragazza molto sensibile che non aveva passato dei bei momenti da bambina, un po’ troppo spesso scriveva di emozioni negative. Soffriva d’ansia, aveva fobie da tanto tempo, da qualche mese passava intere giornate a letto e si rifiutava di andare a scuola. Quando era distesa sentiva le sue gambe anestetizzate o comunque pesanti come piombo. Aveva la bocca secca dall’assenza di saliva, faceva fatica anche a mangiare e in più sentiva un formicolio costante alle mani. Erano giorni in cui non riusciva neanche a lavarsi, aveva soltanto voglia di dormire.
“Queste sensazioni sono le prime manifestazioni di una depressione”, sentenziò il medico di famiglia, e non trovò di meglio che aumentarle le dosi di psicofarmaci.
“Sara, tesoro ti va di mangiare qualcosa? Ti va una bella pizza?”, chiedeva la madre preoccupata.
“No mamma, grazie”, rispondeva Sara con lo sguardo fisso verso il muro. Chissà cosa vedeva. Chissà se la donna vestita di nero la fissava.
C’erano per fortuna anche i giorni belli. Giornate di sole, magari accompagnate da un secco venticello. Quelle giornate Sara le adorava, erano quelle in cui riusciva a fare tutto. Le piaceva tantissimo stare in compagnia dei suoi amici, bere del vino in cartone sui gradoni del parco, ascoltare musica con la piccola cassa bluetooth che si portava sempre dietro. A volte andava anche a Firenze a mangiare giapponese e a visitare i musei. E spesso queste giornate le passava in compagnia di Giuseppe.
Tra loro due il rapporto diventò bello. Si rispettavano come due amici, ovviamente non avrebbe mai preso il ruolo di suo padre ma a Sara andava bene così. Non aveva bisogno dell’affetto paterno, anche perché non sapeva neanche che cosa significasse.
Il piccolo Enea ormai aveva due anni e Sara lo adorava, anche se non trascorrevano tanto tempo insieme. C’erano volte, quando la vita le sorrideva, che Sara era più disposta a uscire per tornare in piena notte a casa, satura di alcool e dell’odore sgradevole di nicotina.
Perse la sua purezza, conobbe il sangue della prima volta. Attirava ragazzi sbagliati, che erano alla ricerca di cose nuove, ragazzi curiosi e vogliosi di un corpo femminile. Lei si dava fisicamente, si lasciava andare col corpo mentre il suo cuore no, quello non poteva essere di chiunque. Non si fidava di quei ragazzotti e le faceva ribrezzo il loro viscidume. Ma si sentiva inadeguata, incapace di sentirsi imbattibile e indispensabile per qualcuno, perciò si puniva donandosi agli altri.
Barcollava tra una crisi di nervi e una risata. Aveva l’umore ballerino. Aveva troppa emotività dentro di sè, si sentiva un vulcano pronto ad esplodere.
Forse non era fatta per avere relazioni, era troppo fragile di una fragilità che spaventava gli altri. A volte era anche apatica, immaginava di essere un corpo morto, lasciato così, nell’attesa di decomporsi.
Sara con sua madre in quel periodo non andava molto d’accordo. Una sera che Giuseppe era di turno a lavoro, forse perché non aveva sonno, la trovò che l’aspettava a letto con il piccolo Enea che dormiva beato nel plaid di flanella.
Quando sentì la chiave girare nella porta, Maria vide Sara sbandare nel buio senza accorgersi che lei fosse lì. Era tornata casa in condizioni pessime, sbiascicava per il troppo alcool e non riusciva a reggersi in piedi. Si alzò dal lettò urlandole contro e facendola spaventare, si avvicinò, la strattonò con forza e la portò in bagno.
Con gli occhi che solo una madre può avere vedendo una figlia in quelle condizioni, le gridò che doveva darsi una svegliata e poi aggiunse, più piano, come tra i denti, “sei come tuo padre!”, e per Sara fu come se un pugnale le penetrasse nel petto.
Con tutta la rabbia che aveva in corpo spinse la madre fuori dal bagno, si chiuse la porta alle spalle e si andò a rannichiare nella vasca di ceramica. Dopo un poco aprì piano il rubinetto e l’acqua gelida cominciò lentamente a scenderle sul viso mischiandosi con le lacrime salate. Il trucco nero le colava sulle guancie, la testa le stava per esplodere, eppure una voce dentro le disse che doveva pensare, che doveva darsi una frenata, che doveva scendere da quel treno che l’avrebbe portata alla distruzione, che doveva fermarsi, che doveva scrivere.
“Persone intorno a me,
che poi vanno via,
io con i miei occhi scuri
e le corte ciocche
che mi coprono il viso.
Sento la morte.
Freddo di dicembre,
freddo fuori
e dentro.
La morte mi avvolge
E con essa sin da bambina,
mi invoglia a ballar con lei.
Ballo frenetico
E poi lentamente mi stordisce.
Fine tragica
Come il lago dei cigni.”
Sara strappò il foglio e con le mani sporche d’inchiostro lo stropicciò e lo gettò sul pavimento. Di nuovo preda della sua disperazione, si girò e affondò il viso nell’acqua gelida che si era raccolta nella vasca. Voleva smettere di respirare, ma nonostante i pensieri che le affollavano la mente non ebbe la forza di fare quel gesto estremo. Forse non era pronta per morire, così la vita vinse e continuò a tenerla stretta a sé.
EPISODIO 4 | UN TUFFO NEL PASSATO
Torna all’Indice
E il tempo passava tra le pagine chiare e le pagine scure, proprio come dice la canzone. Sara aveva frequentato l’ultimo anno delle superiori e nel mese di luglio aveva superato l’esame di maturità. Non era stato facile per lei, la depressione era ritornata più crudele che mai e per mesi era riuscita a malapena a preparare le cose essenziali per superare l’esposizione orale. Nella sua tesina aveva trattato il flusso di coscienza e la figura dell’inetto nell’opera di Italo Svevo. La sentiva sulla pelle quella condizione di chi si sente fuori posto, come inadatta a vivere, perché non ha valori in cui riconoscersi, è senza ruolo e senza scopo, non sa dare un senso alla propria esistenza. Aveva presentato anche una breve biografia di Virginia Woolf e infine aveva parlato della Seconda Guerra Mondiale e dei suoi effetti psicologici sui reduci. Ad alcuni docenti il suo lavoro era piaciuto tanto, altri lo avevano giudicato un po’ troppo misero, alla fine il diploma arrivò senza infamia e senza lode, votazione 60 su 100.
Per fortuna in quel periodo non le mancò il sostegno della madre, sapeva che Sara si sentiva un vero fallimento, capiva quanto soffrisse per i suoi demoni interiori.
“Devi capire, figlia mia, che i voti degli altri e il tuo voto finale non sono la cosa più importante!”, le aveva detto con la voce strozzata mentre uscivano, mano nella mano, dall’aula. “Tu per me sarai sempre la più brillante e la più sorprendente, la mia fragile e dolce Sara.” Discreta, si asciugò una lacrima; non voleva farsi vedere da sua figlia così.
L’estate successiva fu molto calda e afosa, ma tanto Sara non sarebbe andata in vacanza. In casa il bisogno di denaro era evidente, e Maria e Giuseppe non si potevano permettere le ferie. E neanche lei.
Annunciò la sua decisione una sera come tutte le altre, mentre danzava con il cucchiaio nel passato di verdure. “Mamma”, disse mentre si portava il cucchiaio alle labbra, “ho pensato di cercarmi un lavoro. Ho la necessità di fare qualcosa di nuovo, di tenera lontana la mia frustrazione e le tante cose vecchie che mi hanno fatto stare male. Che ne dici?”
“Fai quello che ti fa stare bene tesoro”, fu la risposta. “L’importante è che sai che non devi lavorare per noi. Se lo fai, è per te, per avere una tua fonte di guadagno, per sentirti più libera di toglierti qualche sfizio.”
Qualche sera dopo, Sara, mentre tornava a casa, vide due giovani ragazze uscire da “Lo gnocco fritto”, una locanda caratteristica dove si potevano mangiare pietanze tradizionali. Dal loro abbigliamento, era evidente che erano due ragazze in prova con il suo stesso bisogno di lavorare: camicie bianche, pantaloni classci neri e scarpe da tennis. I loro volti amareggiati dicevano che non l’avevano superata, e la frase pronunciata dalla ragazza più bassina e tonda in viso le tolse ogni dubbio: “Che postaccio! E che bacchettona la proprietaria!”
A quelle parole, Sara pensò di desistere, ma per fortuna la curiosità fu più forte della paura, così si fece coraggio, aprì la grande porta di vetro e varcò la soglia della locanda.
“Buonasera. C’è qualcuno?” chiese timorosa con una voce più bassa di quello che avrebbe voluto. Un attimo dopo scorse la ragazza dall’altra parte della sala vuota e le si avvicinò. Era alta e in carne, con occhi color ghiaccio un po’ troppo sottolineati dalla matita nera.
“Ciao, come posso esserti utile?”, le rispose cortese la ragazzona con l’accento duro delle persone che provengono dall’Europa dell’Est.
“Sì, guardi, sto cercando lavoro, a chi posso rivolgermi?”, fece Sara visibilmente agitata. La sua pelle chiara era diventata paonazza e sentiva la bocca secca a causa dell’ansia.
“Aspetta un attimo cara!”, fu la risposta. “Ora faccio venire qui la padrona e ne parli con lei.” Sara annuì e rimase in attesa in piedi, di fianco alla cassa di legno mentre le gambe le facevano giacomo giacomo.
Dopo qualche minuto una donna sulla sessantina, esile, alta, i capelli biondi tenuti all’indietro da un elastico di spugna nero, le si avvicinò.
Non la salutò, le chiese soltanto di cosa avesse bisogno.
“Non ho esperienza, ma ho bisogno di lavorare…” rispose la ragazza.
“Sei capace di portare tre piatti?”, chiese la donna. “E sai tenere un vassoio pieno di bibite e distribuirlo senza appoggiarlo sul tavolo?”, continuò.
Nonostante il panico, la ragazza fu sincera e le disse di no, aggiungendo però che poteva imparare. La proprietaria si dimostrò di poche parole e prima di tornare alle sue cose le disse solo di tornare per una prova la sera dopo. Aggiunse che avrebbe dovuto portare un paia di pantaloni neri, una camicia bianca e delle scarpe nere da tennis.
Uscendo dal locale, Sara si scoprì eccitata e spaventata allo stesso tempo. Da un lato era soddisfatta di essersi creata questa possibilità; insieme alla necessità, c’era in lei anche molta curiosità, quella curiosità caratteristica dei più giovani, quella voglia di fare gavetta per poi diventare qualcuno. Dall’altro, in cuor suo sapeva che non era quello il mestiere della sua vita. Il suo sogno era scrivere, diventare una scrittrice. Lo voleva con tutte le sue forze, anche se l’ultimo anno di scuola l’aveva scoraggiata, anche se si era sentita una stupida, anche se per ora il suo sogno lo aveva dovuto chiudere in un cassetto.
Il giorno dopo si presentò in anticipo. Indossava la divisa da lavoro e aveva portato i capelli all’indietro con una fascia nera. Si sentiva piena di energia, pensò per un attimo a suo padre e si chiese perché non avesse voglia di lavorare. La proprietaria la salutò rapida e le indicò il posto dove sistemare la sua roba.
I muri bianchi dello spogliatoio erano divorati di nero per via dell’umidità. Gli zaini dei dipendenti buttati sulle panche e un piccolo specchio macchiato di gocce d’acqua sul lavabo completavano la scena. Sola nella piccola stanza, la ragazza si avvicinò allo specchio, si guardò negli occhi e pensò di nuovo al padre che non aveva mai avuto: “Sono diversa da te” sussurrò con i denti stretti. “Ho il tuo sangue, ma non il tuo modo di fare. Nonostante quello che mi hai fatto, ho ancora voglia di mettermi in gioco, quello che tu non hai mai avuto.”
Per lei il lavoro era anche questo, l’occasione per dimostrare a se stessa e agli altri, compresa sua madre, che non era come suo padre. Purtroppo con il tempo anche il lavoro si sarebbe trasformato da occasione ad ossessione, come un nuovo incubo, ma lei questo non lo sapeva ancora.
Dopo aver superato la prova, Sara lavorò con impegno, si migliorò e si creò altre occasioni, fino a lavorare in alcuni ristoranti importanti di Firenze. In seguito fece anche la commessa in un negozio per bambini e poi fu assunta a tempo pieno in una pizzeria nei pressi della stazione di Santa Maria Novella.
La sua vita era diventata lavoro, lavoro e ancora lavoro. Fino al freddo giorno di gennaio in cui ricevette quella chiamata da Napoli. Fu un tuffo al cuore. Dall’altra parte del telefono la zia, che le disse senza alcuna delicatezza che suo padre stava combattendo contro la morte.
Tanti pensieri contrastanti affollavano la sua testa. Pensò a sua madre che lo aveva saputo prima di lei e non aveva avuto il coraggio di chiamarla. Pensò a quell’uomo che era un estraneo eppure era suo padre. Un non padre. Naturalmente era in pena, ma allo stesso tempo provava indifferenza, e questo la faceva sentire in colpa, le sembrava che il dolore non fosse abbastanza.
La mattina dopo partì con il primo treno, destinazione Napoli Centrale.
Raggiunto il padre nella clinica di riabilitazione dove era ricoverato, fu informata dai medici che era stato colpito da un ictus e aveva perso la parola e la funzione della mano destra.
Tenerezza e pena si mescolarono nell’animo di Sara. In fondo, suo padre aveva solo 45 anni. E poi come avrebbe potuto odiare un uomo che sembrava tornato in fasce? Le sembrava tutto assai misero e triste, ma l’unica cosa che poteva fare era accettare la situazione per quella che era.
Dopo, non si sarebbero più rivisti. Durante il viaggio di ritorno, la ragazza pensò che stava bene senza un padre, che non sentiva la necessità di tenerlo al suo fianco.
Forse era diventata donna. Forse cercava soltanto un modo per nascondere la propria delusione.
EPISODIO 5 | NAPOLI ANCORA
Torna all’Indice
Sara, dopo la visita a suo padre, era tornata a Firenze più forte, meno esposta alla fragilità delle cose di tutti i giorni. Nei momenti buoni si sentiva come intoccabile, in quelli cattivi apatica, ma avvertiva comunque stati d’animo diversi da quelli a cui era abituata.
Quella mattina era leggermente in ritardo, dopo essere scesa dal tram prese a camminare più svelta del solito, stava andando a lavoro ed era in ritardo.
Quando entrò nella grande sala della pizzeria mise in pausa la playlist e si tolse le cuffiette dalle orecchie.
“E l’infinito è più blu, dove il cielo va a finire.” Canticchiava fra sé e sé la canzone che aveva appena finito di ascoltare. Sara adorava Mia Martini, le piaceva non solo dal punto di vista musicale, come cantante, ma anche da quello emotivo, come donna. Sentiva che avevano tante cose in comune: l’insoddisfazione, le tante persone che le avevano fatto del male, la depressione, la solitudine. Si sentiva legata a lei da un filo invisibile, anche se “Mimì” era una donna di altri tempi.
“Sara!”. La voce squillante della direttrice la riportò alla realtà. “Per favore potresti pulire i bagni della clientela?”
“Buongiorno signora Angela! Sì, certo”, rispose Sara ad alta voce mentre si dirigeva nello spogliatoio dei dipendenti.
Intanto Lorenzo, il suo collega, puliva frettolosamente il pavimento di marmo della sala prima che il servizio iniziasse. Si salutarono, poi lui le si avvicinò e le chiese come stava suo padre e come era andato l’incontro.
“Guarda”, rispose la ragazza con la voce e lo sguardo come se parlasse d’altro. “Abbastanza bene per una persona che ha avuto un ictus. Stava lì, in un letto, in fondo gli poteva andare anche peggio.” Detto questo cambiò discorso, chiedendo al collega che cosa mancasse da fare in sala. Lorenzo comprese che la ragazza non aveva tanta voglia di parlare, ma non ci fece casoi, anzi le disse con dolcezza che c’era da tagliare del pane.
La verità era che Sara non si sentiva felice. Proprio no, nonostante si sentisse come di casa in quella pizzeria, nonostante andasse d’accordo con tutti, nonostante lo stipendio fosse abbastanza alto. La verità era che si sentiva frustrata, non solo a livello lavorativo. Viveva come su un treno che andava verso il nulla, prossima stazione fallimento. Un treno dal quale non poteva e non spaeva scendere, glielo impedivano le tante ombre del suo passato.
Inesorabile il tempo passava e lei non sapeva che strada intraprendere. In qualche modo era ossessionata dal lavoro, dal bisogno di essere indipendente. La sola idea di rinunciare a quel posto le faceva paura, in parte per lei, in parte per il giudizio delle persone che aveva intorno. Era lo spettro del padre, la paura di sentirsi dire che non aveva voglia di lavorare, che si comportasse da ragazza irresponsabile. In realtà era una ventenne come tante, “con i suoi vent’anni portati così” come nelle canzoni di Guccini.
Aveva ragione suo nonno, il cervello è una sfoglia di cipolla, e così a un certo punto la confusione prese il sopravvento.
Andò avanti in questo modo per diverse settimane, fino al giorno in cui, prima di tornare a casa, si sedette su una panchina e decise che doveva fare pace con la propria testa. “Devo fare chiarezza!, si disse, “ci vuole un bel esame di coscienza, devo capire che cosa mi fa stare bene, come posso sentirmi finalmente realizzata”.
Tornata a casa, afferrò il suo cellulare con il vetro scheggiato, aprì la app di Google e iniziò a girovagare tra i siti universitari.
La prima che visitò fu quella di Firenze, ma poi pensò che non voleva essere un peso né per sua madre e nè per Giuseppe, e anche che non era più sicura di voler stare in casa con loro. Enea, il fratellino che adorava tanto, era diventato grande e aveva anche lui bisogno dei suoi spazi. Quel piccolo appartamento aveva cominciato a starle stretto. La serata se ne andò tra siti e pensieri, fino a quando la ragazza non spense la luce e si addormentò.
Una settimana dopo ci ritornò su. Era il suo giorno libero ed era sola in casa: il piccolo Enea era impegnato in una partita di calcio e i genitori erano naturalmente lo avevano accompagnato.
Distesa sul letto, gli occhi rivolti al soffitto, la ragazza pensò che quello non era più il suo posto, che forse non lo era mai stato. Sentiva forte l’esigenza di cambiare aria, di tornare nell’unico luogo dove era stata bene, di aprire di nuovo quel cassetto che tanto aveva sognato di aprire. Basta con l’idea di non essere all’altezza, era venuto il momento di lottare per realizzare il suo sogno, diventare una scrittrice.
Dopo il coraggio, la scelta: avrebbe frequentato la facoltà di lettere moderne presso l’Università Federico II. Eccitata e piena di adrenalina chiamò nonna Concetta e con voce squillante annunciò che presto sarebbe tornata a casa.
La sera stessa, al ritorno dalla partita, lo disse anche alla madre. Maria fu felice della scelta della ragazza e le disse che era fiera di lei, che finalmente vedeva forza e ottimismo nei suoi occhi.
Più tardi, a letto, Sara sorrise. Nonostante le mille difficoltà pensò in cuor suo che aveva anche lei il diritto di sentirsi felice.
CAPITOLO TRE
Torna all’Indice
EPISODIO 1 | UNA VITA DIVERSA
Torna all’Indice
Sara tornò a casa, dai suoi nonni. Era ottobre e mancavano pochi giorni per iniziare l’università. Aveva scelto con tanta eccitazione e convinzione la facoltà di Lettere Moderne. Si sentiva finalmente felice e non vedeva l’ora di tuffarsi in quell’esperienza che da anni popolava i suoi sogni.
Nonna Concetta era fiera e felice di tenere con sé la sua nipotina, per quanto cresciuta. Passavano le serate a sorseggiare il vino rosso di nonno Gerardo, che per loro aveva il sapore della sicurezza e della gioia di stare in famiglia.
Fumavano una sigaretta tutti e tre dopo cena, Sara prendeva le solite medicine e dopo aver dato la buonanotte andava a coricarsi serena. Le coperte profumavano di amore e lavanda, lo stesso amore che la legava ai suoi nonni; la camera era calda e sulle mensole c’erano tanti peluche. Quella stanza aveva l’odore della sua infanzia.
Ancora qualche giorno e finalmente iniziarono i corsi. Quella mattina Sara, nonostante le lezioni iniziassero alle 9:00 , si svegliò presto, presa dall’adrenalina. Preparò il caffè, fece tutto quello che doveva fare, si mise lo zaino in spalla e andò a prendere il treno. Durante il viaggio ascoltò un po’ di musica e poi prese dalla tasca della giacca un libro di poesie di Alda Merini. Ce n’era una che era così bella, e forte, che la trascrisse anche nel suo piccolo quaderno:
“Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.”
Arrivata a Napoli, la ragazza si incamminò verso l’università, al Rettifilo, che è il modo in cui i napoletani chiamano Corso Umberto. Procedeva a passi decisi ma allo stesso tempo cercava di assaporare ogni cosa bella che quella città le regalava, a partire dall’odore di pesce appena uscita dalla stazione della Cumana, che pescherie belle come quella di Montesanto neanche a Napoli ce n’erano molte.
Una decina di minuti e svoltò nel vicoletto che portava a Piazza del Gesù. L’obelisco al centro le sembrò bellissimo, alzò gli occhi al cielo, prese la sua macchina fotografica e scattò una foto. Era una bellissima giornata e il sole iniziava a illuminare i palazzi signorili della città.
Mentre procedeva spedita sentì il cellulare che dalla tasca sinistra vibrava: era nonna Concetta. “Tesoro di nonna, sei arrivata?” Sara le rispose con voce emozionata che sì, era arrivata, e aggiunse, come se non l’avesse mai vista prima, che Napoli era bellissima. La ragazza aveva gli occhi lucidi dalla gioia. C’era arte ovunque, anche nelle persone e lei era felice di far parte finalmente di un luogo che anche se non l’aveva mai vissuto in pieno, sentiva comunque suo. Sì, si sentiva come a casa.
L’ingresso dell’univerisità era un monumento. Due sfingi ai lati e al centro le storiche scale. Per un attimo Sara sentì il magone venirle su dal petto, ma si fece forza cercando di non pensarci, salì le scale e andò in cerca dell’aula.
Nell’aula spaziosa c’erano tanti ragazzi e lei si sedette al primo posto, sorpresa ed emozionata; non pensava che la facoltà di lettere fosse tanto frequentata e non vedeva l’ora che iniziasse la lezione di letteratura.
Alle 9:00 in punto, si presentò un uomo alto, sulla sessantina, era il professore. Disse buongiorno con una voce rauca e forte. “Sarà un fumatore oltre che un grande letterato”, pensò la ragazza fra sé e sè, “e data l’età deve avere tanta esperienza”.
Il professore dopo essersi presentato introdusse la lezione, improntata sulle “Tre Corone”, Dante, Boccaccio e Petrarca. Partì come meglio non poteva parire, da Dante, raccontò la vita del poeta e il suo amore platonico per Beatrice. A Sara piaceva tanto il modo in cui spiegava, usando un linguaggio semplice ed essenziale, e appuntava contenta sul suo quaderno le cose a suo avviso più importanti.
Le due ore trascorsero veloci; il professore, salutando la classe, disse “Adesso potete andare, chissà, magari vi innamorerete anche voi come quel grande poeta!”
Nell’aula rimbombarono le risate, mentre i sorrisi illuminarono lo sguardo dei ragazzi. Sorrise anche Sara, poi prese frettolosamente le sigarette dalla tasca dello zaino e si alzò per andare a prendere un caffè. Sulla soglia incrociò un ragazzo magro, non tanto alto, con i capelli arruffati e delle cuffie bianche alle orecchie. Si guardarono per un attimo, e la ragazza scorse nei suoi occhi insicurezza e mistero. Senza sapere perché provò soggezione e così abbassò lo sguardo, gli diede la precedenza per farlo uscire dall’aula e subito dopo uscì anche lei.
Pensò per tutta la mattina agli occhi di quel ragazzo. Tenebrosi, senza sorriso, però con lo sguardo accattivante incorniciato dalle folte sopracciglia. Più ci pensava e più sentiva una tensione nel basso ventre e un senso di leggerezza in petto. Non aveva mai provato una sensazione del genere prima.
Più tardi, dopo la lezione di Storia della lingua italiana, la ragazza si recò alla stazione per prendere il treno che l’avrebbe portata a casa. Anche la seconda lezione le piacque molto. Era una materia che si occupava dell’evoluzione e della storia di quello che, a partire dai dialetti e dalle lingue volgari, è diventato l’italiano, una lingua ricca, permeata dalle influenze dei secoli e dall’amore delle genti che l’avevano plasmata. Sì, la ragazza era soddisfatta della sua scelta. Era affascinata un sacco da quelle materie. Era contenta di poterle studiare e le ispiravano tanta curiosità. Era quello che voleva, da sempre.
Fuori, il mare era baciato dal sole di mezzogiorno; dentro, seduta con il suo quaderno aperto sulle gambe, Sara prese a scribacchiare qualcosa.
“O amore
Così dolce e ladro
Dove stai andando?
Non scrutare nei miei
occhi scuri, potresti
vedere la morte.
Non guardar il mio corpo,
potresti vedere i tagli degli anni.
O amore così fuggiasco,
mi salverai o m’ammazzerai?”
Sara non riusciva a distaccarsi dal ragazzo dai capelli arruffati. Il ricordo del suo sguardo era così forte che non poteva distaccarsene. L’arrivo del treno in stazione la costrinse a chiudere il quaderno. Scesa dal treno, si accese una sigaretta e si avviò verso casa.
EPISODIO 2 | DIEGO, L’AMORE CHE BRUCIA
Torna all’Indice
Nei mesi successivi Sara superò con ottimi voti gli esami della sessione invernale. Finalmente era fiera di se stessa. Aveva trascorso i pomeriggi a leggere e studiare i libri di storia medievale e di filologia dantesca. Smetteva soltanto la sera, quando si metteva a tavola per gustare la cena con i nonni.
Da diversi giorni al telegiornale si parlava di un pericoloso virus che girava in Cina, il Covid 2019, come l’anno in cui era apparso. Sembrava un incubo incombente fatto di persone che morivano da un giorno all’altro per complicanze respiratorie, di ospedali colmi di gente, di cadaveri che venivano bruciati per evitare ulteriore contagi, di aereoporti bloccati per prevenire il propagarsi dell’infenzione. Poche settimane ancora e l’incubo arrivò anche in Italia.
Non fu una sorpresa. Già da giorni la paura si toccava con mano per le strade e sui treni. Alla televisione non si parlava d’altro. Questione di giorni e la pandemia si diffuse in ogni parte del mondo, diventando un fenomeno globale.
Cominciò la corsa a chiudere tutto: frontiere, aereoporti, mezzi di trasporto, scuole e università. Si poteva uscire soltanto per i beni primari, muniti di mascherina sul viso e guanti in lattice alle mani. Scambiarsi un abbraccio diventò un reato, lavarsi le mani un’ossessione. Chi lavorava negli ospedali era costretto a fare turni allucinanti, chi moriva non poteva avere neanche l’ultimo saluto da parte dei propri familiari. Il mondo sembrava stesse diventando un campo di sterminio, soprattutto per le persone più anziane e per chi aveva già delle patologie.
Parole come smart working e lavoro agile entrarono in tutte le case degli italiani. Docenti e studenti delle scuole di ogni ordine e grado si incontravano solo sulle piattaforme online, e naturalmente neanche Sara potettero sottrarsi alla nuova normalità, una normalità forzata che comunque all’inizio sembrò avere anche qualche aspetto positivo. “Non è poi tanto male seguire le lezioni ancora in pigiama, con i capelli scompigliati e in compagnia di una tazza di latte e biscotti appoggiati sulla scrivania a lato del computer”, pensò una mattina la ragazza, forse per darsi coraggio. “E poi nell’attesa tra una lezione e l’altra non manca qualche momento di socialità.”
Una sera, aveva da poco fatto la doccia, ricevette un messaggio firmato Diego Sorrentino: “È bello ciò che scrivi. Perdonami il disturbo.”
Nella sua semplicità, quel messaggio la colpì, si scoprì felice per quell’attenzione inaspettata. Le bastò poco per scoprire che il ragazzo aveva curiosato tra le cose che scriveva sul suo profilo Instagram e che faceva parte del gruppo che seguiva le sue stesse lezioni. Incuriosita, gli chiese di farle capire meglio chi era, se si erano già visti all’università e se magari si erano parlati. Diego le rispose che era difficile si fossero già incontrati, “sono uno che il più delle volte passa inosservato” scrisse in chat.
La timidezza del ragazzo non fece che aumentare l’interesse di Sara, che cominciò a pensare, e a sperare, che lui fosse quel ragazzo solitario con le cuffiette bianche alle orecchie e i capelli arruffati. Si fermò lì, non volle insistere, si vergognò di chiedergli una foto e così tra una cosa e l’altra la conversazione prese una piega diversa, più bella, perché cominciarono a parlare di musica, di scrittura e di poesia, le loro passioni.
Il ragazzo misterioso amava suonare la chitarra, adorava Bob Dylan e il Boss, Bruce Spingsteen, e poi ancora i mitici Francesco Guccini e Fabrizio De Andrè. E adorava le poetesse dalle anime fragili, quelle che avevano i demoni dentro e lo raccontavano con delicatezza. Forse perché era anche lui un’anima fragile, forse per la sua tenerezza, forse semplicemente perché si riconosceva nei loro versi.
Più si scrivevano, e si parlavano, e più Sara percepiva il filo che la univa a lui. Dopo quella prima lunga chiacchierata Diego le inviò via chat una riproduzione de “L’abbraccio” di Egon Schiele, un pittore austriaco che amava tanto anche lei. E poi, subito dopo, una poesia, probabilmente scritta da lui.
“E il suo profumo lieve gioca
sui monti al vento e alla pietra?
Trotta inspiegato sui prati di collina
o è neve che a gocce solide si sperde
Negli occhi vitrei, volti a guardare in alto?
Il suo profumo lieve, insomma, da cosa è fatto?
Pane e carne o sale e terra?
Sabbia o scoglio diamantino, o
è sole che si spalma sulle tende grinzose?
E quando sarà vedersi?
E se il bianco del cielo terso non
scandisse i riflessi sul suo seno,
vorrò io arginare i colori perduti
con le mie carezze
Che cos’è non sapere dove andranno
a congiungersi dita dentro altre dita?
Una paura tremenda di non sapere se
i suoi occhi saranno mai rivolti a me;
sono sabbie mobili queste,
se lei affonda io affondo con lei,
col suo viso tra le mie mani,
per darle respiro caldo.
E quando sprofondati al centro della
Bellezza,
avremo la possibilità di chiederci le nostre labbra;
posarle le une sulle altre e poter
morire finalmente in un
bacio senza respiro.”
Più tardi, a letto, Sara pensò a quanto era affascinante il modo in cui Diego usava le parole. E pensò anche che nessuna l’aveva trattata così prima, e quasi si spaventò. “Sara”, si disse più volte, “è bene che tieni i piedi ben saldi per terra, tu questo ragazzo non sai neanche chi è”, però l’ultima cosa a cui pensò prima di addormentarsi fu la promessa che si erano fatti insieme alla buonanotte: un calice di vino non appena tutto sarebbe passato.
Le settimane trascorrevano e la televisione e i media di tutto il mondo non facevano altro che parlare del virus, dei contagi che aumentano sempre di più, delle città, delle vie e delle piazze che diventavano posti fantasma. Anche a casa dei nonni, quando arrivava la sera, il silenzio era insopportabile.
Sara adesso non pensava più che la situazione avesse i suoi lati positivi, cercava solo di non farsi sopraffare da quella situazione così pesante: studiava, chiamava ogni giorno sua madre, trascorreva tutto il tempo che poteva con gli adorati nonni e scriveva a Diego.
Da quella prima sera infatti non avevano mai smesso di sentirsi, di scriversi, di vedersi, ovviamente in videochiamata. Anche se per molti aspetti se l’aspettava, Sara la prima volta che aveva visto Diego attraverso lo schermo era rimasta senza parole: era proprio lui, il ragazzo dai capelli arruffati e le cuffiette bianche alle orecchie che seguiva il suo stesso corso all’università. Quegli sguardi furtivi durante le lezioni adesso avevano un corpo e un’anima.
Era come se si conoscessero da sempre. Per Sara ascoltare Diego era come sentire la sua canzone preferita. Era rasserenata dalla sua voce calda, e il suo sorriso era il suo sogno erotico che s’interrompeva, ma solo per un attimo, quando con la mano lui si copriva le labbra per l’imbarazzo.
Più i giorni passavano, più Sara e Diego si conoscevano grazie alle poesie, ai libri e alle chiacchierate notturne, più le loro anime si comprendevano, e si univano.
Il ragazzo viveva in un piccolo paese del Cilento, lavorava nel piccolo bar letterario che aveva aperto con la famiglia all’età di vent’anni. Nel suo racconto, era un ambiente caldo come il legno di cui era fatto, uno di quei posti che quando ci entri non li dimentichi più. Invece, quando stava a Napoli, una città che adorava, viveva in un monolocale a Vico San Marcellino, a ridosso di via Mezzocannone, la strada dell’università.
“La letteratura è sempre stato il mio sogno, volevo provare a intraprendere una carriera universitaria!”, diceva. E Sara lo incoraggiava. “Certo, fai bene, siamo giovani e possiamo fare tutto, anche se siamo capitati in un’epoca un po’ problematica!”
I due ragazzi andavano incontro alle notti così, regalandosi attimi inspiegabili tanto che erano belli, e con il desiderio di abbracciarsi così forte che a volte diventava tristezza, e frustazione.
“E quando arriverà
Maggio, mio amore,
chissà quante cose
ci passeranno nella mente.
Il vento canta
quelle parole
che ci sussurravamo
da lontano,
con gli occhi socchiusi.
Placheremo quei nostri desideri?
E saremo carne che arde
nella passione?
O amore quando arriverà
maggio,
quell’aria fresca
primaverile
mi farà viaggiare
e mi porterà da
te,
tra le mie braccia.
O amore mio,
così lontano.”
I giorni passavano e la situazione non cambiava. Il divieto di uscire di casa da un lato riduceva il rischio di contagio, dall’altro esasperava le difficoltà di carattere economico delle famiglie e delle imprese. A volte sembrava che da un momento all’altro tutto potesse finire: il mondo, l’umanità, la felicità, il contatto con altre persone, i baci e persino gli abbracci. Per fortuna qua e là resisteva l’amore, l’amore quello vero, l’amore che stava nascendo delicatamente nei cuori di Sara e di Diego. Era dura non potersi incontrare, ma prima o poi anche questo orribile temporale sarerebbe cessato e il sole sarebbe tornato a illuminare il cielo sopra le loro vite.
Per quanto lentamente, tornò il tempo della normalità. Sara non stava nella pelle, sapeva che molto presto Diego sarebbe venuto a Napoli per incontrarla. A pensarci su mancavano solo 6 giorni.
Meno 6: i passi veloci che percorrevano la strada.
Meno 5: il sospiro affannato che si avvicinava alla biglietteria
Meno 4: un biglietto per Napoli, per favore!
Meno 3: l’attesa della partenza.
Meno 2: il treno che arriva alla stazione.
Meno 1: il cuore in gola.
L’incontro avvenne alla stazione di Montesanto. Non appena guardò gli occhi Di Diego Sara sentì le sue gambe tremare. L’emozione era enorme, straripante, il ragazzo le sorrise e la strinse a sé. Si diedero un bacio senza respiro e fu lì, in quella stazione, che per loro la normalità ritornò davvero e la loro storia d’amore diventò carne.
“Io e te,
in questa stazione.
I passanti che camminano
A passi veloci e con lo sguardo
Basso senza godersi la
Grande Bellezza
Della fine e di una nuova
Libertà.
La vera primavera
Arrivò.
I miei occhi fenno fatica
A restare aperti,
come quelli di un bambino
in fasce.
Scendo dal treno,
le mie gambe tremano,
le mie mani sudano.
Scruto il tuo sguardo
Tenero,
su di me.
Mi sfiori,
ci abbracciamo
Divetando un
noi.
Pelle contro pelle,
respiro contro respiro,
occhi negli occhi;
io e te,
noi,
in quella stazione
uniti
come l’abbraccio
di Schiele.”
Dopo l’abbraccio, si presero dolcemente la mano e si avviarono felici verso via Mezzocannone.
EPISODIO 3 | IL VUOTO PIENO
Torna all’Indice
Dopo aver trascorso l’intera stagione estiva nel piccolo e accogliente paesino dov’era nato e cresciuto Diego, Sara accettò la proposta che il ragazzo gli aveva fatto. Fu così che andarono a convivere in quel monolocale del centro storico di Napoli dove ogni giorno si scambiavano la pelle, fino al punto di non sapere dove finissero i loro corpi. Erano diventati infinito. Avevano perso la concezione del tempo in quelle quattro mura con le macchie di umidità che percorrevano come crepe il soffitto bianco.
Una sera, in compagnia di un vino rosso che a chiamarlo vino era anch’esso un atto d’amore, Diego decise che era venuto il momento di raccontarsi.
“Negli anni della mia adolescenza ho scelto la solitudine, il tempo lo riempivo con le pagine talvolta dolci, altre amare, dei libri. Non ero ancora pronto alla vita vera, la sola esistenza di cui avevo bisogno, così credevo, era quella interiore.”
Sara lo ascoltava con gli occhi sempre più brillanti, gli stringeva la mano come a dargli e a chiedergli calore. Mentre gli accarezava le nocche screpolate gli chiese “E adesso ti senti pronto? Pensi di poter condividere con me la vita vera?”. Per tutta risposta, Diego la baciò; dopo, aggiunse soltanto un semplice sì.
I libri universitari se ne stavano per giornate e notti intere sulla mensola accanto al grande finestrone con le viole che dal letto si allungava fino alla parete laterale. Ogni giorno, la polvere li sbiadiva sempre di più. “Amore, ti prometto che domani li spolvero uno a uno, poverini, sembrano abbandonati”. Si abbracciarono e risero di gusto, in realtà lo studio non era più il loro interesse principale; anche se non se l’erano mai detto, non appena il capitolo pandemia si fosse concluso si sarebbero messi in cerca di un lavoro.
Erano pazzi l’uno dell’altra. Si bastavano di per sé. Gli amici, quei pochi che potevano frequentare in quel periodo, non li capivano, ai loro occhi il loro era un amore irrazionale. Forse avevano ragione; forse era giusto avere altre aspettative: prendersi una laurea, lavorare, sposarsi; vivere una vita ordinaria, nitida, trascorsa cercando di non andare fuori binario. Forse, ma non era la vita che Sara e Diego si erano scelti.
Arrivò il giorno di Pasqua e Diego e Sara camminavano mano nella mano in piazza del Gesù. Sorseggiavano una birra e gli occhi ambrati di Diego erano illuminati dalla luce del sole. Si sedettero sui gradini di fianco all’obelisco. Sara guardava rapita il suo ragazzo, come se la sua vita potesse essere perfetta così. Non le mancava nulla, amava il luogo dove viveva, amava Diego, amava quella casa umida dove passavano le loro ore d’amore, amava i gatti che erano sempre accoccolati sulla coperta di flanella ai loro piedi. Era felice di una felicità che colpì una donna sulla sessantina, esile, dai capelli di un colore rosso acceso. Con dolcezza si avvicinò e le porse una rosa bianca. “Buongiorno”, disse mentre faceva quel gesto inaspettetato.
La donna aveva con sé tante rose e fiori da campo e i ragazzi pensarano che fosse diretta al cimitero. “Quanta gentilezza, così rara e tanto bella”, sussurrò Diego, e Sara annuì. Stavano per ritornare a casa quando la ragazza fu presa da una forte nausea. Fece qualche passo di lato e si appoggiò alla fontana poco distante. “Amore forse avrò esagerato con la birra”, disse, ma in realtà ne aveva bevuto solo una. Intanto, Diego la guardava preoccupato, ma lei lo rassicurò. “Non è niente”, gli disse, “vieni, andiamo a casa, passerà”, aggiunse, ma in cuor suo qualcosa le faceva pensare che non sarebbe passato.
Non passò. E qualche giorno dopo chiese a Diego di acquistare il kit per fare il test di gravidanza.
Era incinta. Pochi istanti di stupore, poi dalla bocca di Sara uscì una fragorosa risata. Guardò Diego, lo spinse sul letto e lo baciò. Era incredula, felice, spaventata. Un insieme di emozioni che attraversavano il suo corpo. Si toccò il ventre con delicatezza e sussurrò con le lacrime agli occhi qualcosa come “sono felice”.
Nel pomeriggio, dopo aver riposato, Sara decise di andare in ospedale per avere la certezza che quell’esserino incosciamente tanto desiderato fosse realmente nel suo ventre. Diego la assecondava, adesso più che mai. Nonostante i picchi di depressione, nonostante l’ira e il suo passato, lui c’era sempre, l’amava, semplicemente, di più, era innamorato perso di lei. Non gli importava di avere tutti contro pur di difenderla, “è complicato da spiegare” diceva alle persone che non capivano alcuni comportamenti della ragazza.
Il reparto di ostetricia e ginecologia si trovava nella parte alta del centro storico. Il tempo del covid non era finito ancora, e la guardia disse a Diego che poteva entrare soltanto la ragazza.
“Ci vediamo dopo!”, disse dispiaciuto il ragazzo dopo averle dato un bacio sulla guancia; Sara gli sorrise, si tirò su la mascherina e si avviò.
Nel corridoio le venne incontro un infermiere di quelli pieni di umanità nei confronti dei pazienti; bastò poco e scoprì che era laureato da poco e aveva tanta voglia di imparare e di lavorare.
“ Vieni, è qui che dobbiamo fare l’ecografia”, disse. “Tra cinque minuti arriverà la mia collega, la dottoressa Verlene. Tu comunque stai tranquilla. A proposito, hai dolori?”
“No, non ho dolori, e sono abbastanza tranquilla. Sono venuta qui per accertarmi che l’esserino che porto dentro stia bene e che soprattutto ci sia realmente, dato che ho fatto solo un test.”
Il ragazzo annuì e si mise sulla soglia della porta socchiusa ad aspettare la donna che avrebbe dovuto visitare Sara. Arrivò prima del previsto. Era anche lei una ragazza giovane, molto dolce, bassina e dai capelli ramati raccolti in un elastico marrone di velluto.
“Buonasera…” disse al collega e alla ragazza sdraiata sul lettino, con gli slip abbassati. “Beh, devo dire che hai avuto una bellissima sopresa per Pasqua!”, aggiunse con un tono di voce dolce e eccitato. Sara le sorrise.
“Adesso tesoro, rilassati che facciamo l’ecografia e vediamo un po’ cosa c’è!”
Dopo un paio di minuti guardò il collega e lo fece avvicinare allo schermo dell’ecografo. “Eccolo, lo vedi? Congratulazioni Sara.”
Il ragazzo aveva gli occhi lucidi, e subito dopo le disse che quel piccolo puntino era l’esserino e che non c’era cosa più bella. Lei osservava tra le ossa del bacino la vita. La vita che stava crescendo dentro di sé.
Sara uscì dal reparto e raggiunse il suo ragazzo sorridente, come incoraggiata dallo sguardo e dalle parole confortanti dei medici. Dentro di lei però, c’era qualcosa la turbava.
“Tu non puoi immaginare cosa ho visto prima, mentre tu eri in reparto”, le disse Diego.
“Cosa?”, chiese la ragazza, con la mano che ondeggiava in quella di Diego.
“Ho visto un palloncino, che salpava le nuvole! Era rosa.”
“Davvero? Non ci credo”, disse Sara complice.
“Giuro!” riprese gioioso Diego, ma durò poco. Il viso spento di Sara lo riportò alla realtà. “Cosa c’è amore? Non ti senti bene?”
“Non ti preoccupare, non è niente di che”, cercò di rassicurarlo la ragazza. Penso, forse penso troppo. Ho l’umore ballerino. Saranno gli ormoni”.
“Cosa ti turba?”, chiese ancora con affetto Diego, e a quel punto gli occhi di Sara si riempirono di lacrime.
“Diego, riuscirò a essere una buona madre? Ho paura!”, e continuò a piangere mentre si stringeva a lui. Era in quei momenti che ritornava la bambina insicura, che perdeva un poco dell’intraprendenza e della forza che si era conquistata mentre avevaa attraversato gli anni che aveva alle spalle.
“Nessuno ha la certezza di essere un buon genitore, né a venti, né a quaranta e né a cinquanta”, disse saggiamente Diego. “Le cose si fanno un passo alla volta. Neanche io ho la certezza di essere un buon padre, ma non ci penso, cerco di andare avanti e di godermi questo momento.” A questo punto si fermò, ma solo per un attimo, poi continuò: “Nonostante le tue fragilità, i tuoi dolori, la tua instabilità sono sicuro che sarai una brava madre. E poi stiamo insieme, vedrai che il lavoro che faremo da genitori verrà bene, puoi contarci!”
Era venuto il momento di condividere la notizia con le loro famiglie. Quella di Diego fu felicissima, un po’ meno quella di Sara. Nonna Concetta in particolare si preoccupò del futuro dei due ragazzi, che le sembrava vagassero nel vuoto, anche perché dal punto di vista economico non avevano basi solide. La reazione della nonna fu di forte sconforto per Sara, per non parlare di quella di nonno Gerardo che la prima cosa che fece, appena seppe la notizia, bestemmiò. Non era per Diego, perchè lo adorava, era la situazione in sé, per il mondo che stava andando a rotoli, per l’economia, per i sogni non realizzati e per non riuscire ad avere un posto nel mondo. Per fortuna Diego non perse la calma. “Sono solo i primi pensieri razionali”, diceva; “sono le cose più semplici, il calore, l’amore, una zuppa calda a tavola, una famiglia che fanno crescere una famiglia”.
Si rimboccò le maniche, e nonostante le difficoltà di quel periodo riuscì a trovare un lavoro come cameriere in un locale di piazza Dante. Tornava a casa in piena notte, faceva orari assurdi pur di avere una base solida e pur di vedere Sara più tranquilla.
“Farò il possibile per farti stare bene amore mio, voglio che tu lo sappia!”, le ripeteva.
“Lo so. Ma se non riuscissimo? Mica possiamo vivere in queste quattro pacche di muro? Eppure gli affitti costano, mi sembra tutto così difficile.”
“Io dico che ce la faremo e se invece no andremo avanti altrove. L’importante è restare uniti. L’unica cosa che non dobbiamo fare è disunirci.”
Si abbracciarono forte. Le mani di Diego stavano diventando quelle di un uomo, il ragazzino che aveva dentro di sé stava cambiando forma. Aveva una nuova visione della vita, stava cominciando a misurarsi con la vita vera.
Sprofondò tra i capelli di Sara che profumavano di buono e ospitò tra le sue mani quel ventre che diventava sempre più pronunciato; sorridendo, canticchiò un motivetto di una canzone che mai come prima sembrava essere stato scritta per loro:
“I russi, i russi gli americani,
no lacrime, non fermarti
fino a domani.
Sarà stato forse un tuono,
non mi meraviglio.
È una notte di fuoco
Dove sono le tue mani?
Nascerà e non avrà paura
nostro figlio.”
CAPITOLO QUATTRO
Torna all’Indice
EPISODIO 1 | IL VIAGGIO
Torna all’Indice
Era una mattina di giugno. Buste di plastica buttate sul pavimento piene di vestiti, una chitarra acustica poggiata sul letto con su scritto “this machine kills the fascist”, un piccolo forno dalla forma tondeggiante. Di fianco, un cartone e due bagagli con dentro le cose più preziose: libri, la macchina da scrivere di Diego “Olivetti Lettera 32”, la macchina fotografica, i caricatori per il cellulare e il computer. Dappertutto, polvere.
Sara era in bagno, Diego controllava in continuazione se mancava qualcosa. I raggi del sole picchiettavano dolcemente sulle tapparelle del finestrone. Lei non stava bene. Sentiva un peso nel basso ventre, un bruciore che la percorreva fino alla punta dei piedi. Mentre urinava sentiva una sensazione pungente e subito dopo era come se qualcuno le stesse scorticando la pelle.
Poche ore dopo arrivò il padre di Diego, Mario; dal primo giorno che l’aveva conosciuto aveva provato per lei una grande tenerezza.
Era un artigiano del legno, un vero artista. A soli quindici anni aveva iniziato ad affiancare suo zio in bottega. Lavorava, imparava e rubava il mestiere, con gli occhi, a piccoli morsi. Nelle sue mani un semplice pezzo di legno diventava un oggetto prezioso. Diego aveva raccontato spesso a Sara di quando da bambino, nel tempo libero, andava in falegnameria, di come guardava e cercava di imitare l’uomo che tanto amava e stimava. Più grande, sfiorando quei pezzi caldi di legno appena tagliati, gli sembrava come se accarezzasse le gambe di una donna.
Ormai, il sole di Mezzogiorno illuminava gli spigoli dei grandi palazzi, i colori più belli dell’estate coloravano Napoli.
“Ragazzi, ci siamo. Mettiamo i due trasportini dietro, i gatti staranno bene”, disse con tono sicuro Mario mentre aiutava Sara a salire sul camioncino. Dentro, la ragazza fu presa dal profumo della segatura, dalla polvere che riposava sul cruscotto e dal piccolo Crocefisso appeso allo specchietto. Seduta, pensò che era bello guardare la strada dall’alto. Mentre le accarezzava con delicatezza la mano, Diego le chiese come stava; “meglio”, rispose lei accennando un sorriso, ma in cuor suo il ragazzo capì che lo diceva soltanto per tranquilizzarlo. Si vedeva anche da come dondolava tra una natica e l’altra, come se fosse seduta su delle spille da balia. Per il resto parlavano il suo sguardo triste e la piccola lacrima che scese dai suoi occhi belli e scuri.
Diego fece finta di nulla. Sapeva che la sua Sara stava male anche perchè stava lasciando il suo nido. E poi il giorno prima avrebbe voluto salutare i nonni ma non ci era riuscita, a nonna Concetta aveva detto solo che era tanto dispiaciuta. Le strinse un poco più forte la mano e allora lei si girò e gli sorrise. Nonostante tutto.
Si sentiva come se fosse ritornata la bambina che per sconfiggere la paura della morte si posava sul seno abbondante di sua nonna nell’ora in cui il sole, stanco, si nascondeva dietro le montagne lasciando il posto all’oscurità. Sentiva la necessità di quel calore che adesso non poteva avere: il tempo passava veloce più di un treno, stava per diventare madre e non poteva più permettersi quella fragilità fatta di domande senza risposte. Come poteva vivere serena? Avrebbe saputo crescere un figlio? Sarebbe riuscita a dargli l’amore e la sicurezza di cui avrebbe avuto bisogno?
I suoi pensieri furono interrotti dalle voci di Diego e suo padre che parlavano di lavoro e di case in affitto. Il ragazzo avrebbe ripreso a lavorare nel piccolo locale di legno che aveva aperto con l’aiuto della famiglia. Non vedeva l’ora di ascoltare la gente mentre beve il caffè alle sei del mattino, di sentire l’aria pulita e fresca del monte Cervati, di rimettersi a fare i suoi cappuccini cremosi accompagnati dalle meravigliose crostate di marmellata fichi e noci preparate da sua madre. Dal viso del ragazzo si capiva che era felice e sicuro.
Sara quel locale lo conosceva bene perché l’estate precedente aveva aiutato Diego nei suoi turni serali. Era incantata dalla cura con cui erano disposte le sedie di legno con i cuscini color ruggine. Il profumo del cioccolato che si scoglieva nei cornetti appena sfornati le metteva allegria, le piaceva guardare le foto in bianco e nero che raccontavano la storia del cinema e della musica. E poi quella donna dipinta da Modigliani sul divano rosso, senza pupille, come faceva lui.
Due ore ancora e arrivarono nel paesino del basso Cilento dove era nato e cresciuto Diego, famoso per le sue bellezze naturali e la sua accoglienza.
La sera, prima di addormentarsi, Sara tirò fuori il suo piccolo quaderno e cercò una poesia. Come ogni volta, la commozione la prese; bastò un attimo, richiuse il quaderno e si addormentò.
“Avevo un uomo
che amava
il mio corpo di vetro.
Mi sussurrò che lo amava
quel corpo così sottile
e tagliente.
Sangue.
Rosso sulle mani,
sul petto,
sul ventre.
Bruciava,
tagliava,
scaraventava.
Ma lui non riusciva a farne a meno.
La sofferenza,
era ormai
l’essenza.
Il mio dolore era il suo.
Mi teneva,
teneva quel corpo
rotto.
Quei frammenti di
felicità.
Avevo un uomo
che amava
Il mio corpo di vetro.”
EPISODIO 2 | UN CORPO DI VETRO
Torna all’Indice
Assunta, la mamma di Diego, era una bella donna, bionda, con gli stessi occhi ambrati che aveva trasmesso a suo figlio. La sera prima l’avevano incontrata davanti al grande portone di legno di casa sua; il tempo di guardarsi negli occhi, e Sara si era ritrovata persa in un abbraccio senza fine.
“Ti trovo benissimo”, le disse Assunta mentre con la mano le accarezzava la pancia. Nonostante la sofferenza, il viso della ragazza era effettivamente florido, la pelle vellutata, gli occhi e lo sguardo quelli di una donna adulta. E poi si sa, le donne quando aspettano un figlio diventano più belle, mutano, forse perché la loro anima incontra la cosa più grande del mondo, la creazione.
Si erano conosciute l’estate dell’anno prima. Fin dall’inizio Sara l’aveva pensata come una donna forte, ma forse il suo era solo un modo per nascondere le sue fragilità. Con il trascorrere dei giorni, era rimasta affascinata dall’amore che povava per la sua famiglia e i suoi valori.
Quella notte solo i lampioni illuminavano la strada; il venticello accarezzava gli olmi con dolcezza e ogni tanto si sentiva il verso di un cane. Diego si girava in continuazione nel sonno e con un gesto abituale allungò la mano verso l’altro lato del letto e si accorse che era vuoto. Si alzò di scatto e si diresse verso il bagno, bussò, entrò, e vide Sara affacciata alla piccola finestra.
“Sei qui! Mi hai fatto prendere un colpo!”, le disse dolce.
Sara non si voltò. La verità era che faceva fatica a respirare e si sporgeva sempre di più per prendersi tutta l’aria di quella notte estiva. All’improvviso scoppiò in un pianto liberatorio. “Mi manca tanto Napoli”, disse. “Ho tanta paura della vita, della morte, di questo figlio che deve nascere, di questo dolore che mi trafigge come un coltello”.
Diego non disse una parola. Sara invece si ranicchiò e disse solo che voleva anticipare la visita.
Due giorni dopo si ritrovarono nella sala d’attesa della ginecologa. I divanetti color indaco in pelle erano comodi, ma loro sembrava non se ne accorgessero. Intorno due tappeti chiari persiani e dei mobili in legno falso stile impero. Nell’aria, l’odore di ammoniaca dominava sui pavimenti di marmo. L’attesa fu breve, dopo pochi minuti la porta dello studio si aprì e la dottoressa con fare cordiale invitò i ragazzi ad entrare.
Poteva avere al massimo 60 anni; i capelli crespi dal taglio netto, gli occhi piccoli e sorridenti che spuntavano dalla mascherina bianca FFP2.
“Prego signora! Al telefono non sembrava molto tranquilla, così ho pensato di darle l’appuntamento il prima possibile”, disse.
Nello studio, Sara sapeva già cosa fare. Si alzò il vestito a fiori, fece scivolare sulle gambe sottili l’intimo di cotone, si stese e si mise in posizione cercando il più possibile di rilassarsi e di respirare profondamente con il diaframma.
“Bene cara!”, disse la dottoressa. “Innanzitutto facciamo l’ecografia, vediamo come sta il piccolo e poi parliamo dei suoi problemi fisici. Si rilassi e cerchi di non muoversi!” La voce rassicurante della dottoressa sembrava quella di una mamma, la gentilezza con cui le appoggiò l’ecografo sul ventre fece il resto.
“Il battito è regolare, e anche tutto il resto è a posto, direi che per ora non ci sono problemi.”
Mentre la dottoressa le spiegava ogni dettaglio, Sara guardava lo schermo e sentiva quel piccolo cuore battere. Diego, seduto sulla sedia, fissava lo schermo con gli occhi ludici. Un’emozione così non l’aveva provata mai. La dottoressa li guardò e sorrise. “Volete sapere il sesso?”, chiese.
“Possiamo già?”
“Assolutamente sì, si deve ancora formare del tutto ma è già evidente. Allora, posso dirvelo?”
Sara e Diego si presero la mano e annuirono.
“È femmina!”
Sara per un attimo dimenticò il suo dolore e il suo sorriso a trentasei denti sembrò spuntare dalla mascherina. Era felice di diventare la madre di una bambina. In realtà era uguale, aveva tanto desiderato anche un maschietto; anzi, in cuor suo l’aveva immaginato proprio così. Invece la vita le regalò una compagna.
Gli occhi e i cuori dei due ragazzi sembravano una cosa sola, fino a quando la dottoressa non le disse che era il momento di capire il dolore.
Capire, già, come se fosse facile. Finita la visita, disse che a vista non riscontrava niente di strano, poteva trattarsi di una candidosi provocata da una cura antibiotica contro un infezione delle vie urinarie che Sara aveva fatto da poco.
“Proviamo con una crema antimicotica e vediamo che succede”, disse.
Rincuorata, Sara ringraziò e uscì felice tenendo Diego per mano. Lui era sicuro che presto Sara sarebbe stata meglio, e questo lo riempiva di speranza.
“Dobbiamo assolutamente prendere una tutina di ciniglia e stasera andiamo a mangiare una bella pizza.”
Invece i giorni passavano e i dolori di Sara aumentavano sempre di più, non riusciva neanche più a sedersi, ancora qualche settimana e il dolore diventò così continuo e lancinante da farla entrare in uno stato depressivo. Ogni giorno che passava si distaccava sempre di più da Diego. Non riusciva più a pensare alla vita che avevano davanti, a come sarebbe stata bella dal momento in cui sarebbe nata la bambina.
Il dolore ti può ossessionare e farti impazzire, e così Sara cominciò a rispondere sempre male e a parlare soltanto dei suoi problemi fisici. Non usciva più, neanche per prendere il pane al panificio sotto la nuova casa. Cominciò a dimagrire rapidamente, nonostante sua figlia continuasse a crescere dentro la sua pancia. Provava angoscia quando guardava altre donne incinte, soprattutto era angosciata da se stessa, perché faceva fatica a compiere anche il più semplice atto quotidiano.
Il fatto che non si capiva che cosa avesse contribuì a farla entrare in un circolo vizioso. Andò da tanti medici, ognuno le diceva una cosa diversa. Chi che era tutto nella sua testa e quando avrebbe partorito sarebbe passato tutto, chi con una risata che era semplicemente una donna gravida, ansiosa e che avrebbe dovuto fare più spesso l’amore. La peggiore fu un medico con un crocefisso tatuato sul petto che le disse di andare ad ascoltare l’omelia. “La chiesa aiuta, si fidi di me! Penso che i suoi sintomi siano il segno di uno squilibrio mentale”.
Sara non voleva nessuno che venisse a trovarla, neanche la nonna. “Stai tranquilla”, le diceva. “Sto male, ma passerà”. La ragazza aveva eretto intorno a sé un muro spinato.
Diventò così isterica che una sera Diego perse la pazienza.
“Dobbiamo fermarci”, urlò. “Dobbiamo aspettare che nasca la bambina e poi ti porterò da qualunque parte, pure in Svizzera o in America, pur di vederti serena e in salute.”
Vedere Diego così servì a calmarla per un poco. Distrutta, si addormentò tra le braccia di Diego. Lui sperava come ogni volta che il giorno dopo sarebbe stato migliore, ma il corpo scheletrico di Sara stava lì a raccontargli un finale diverso.
“I tuoi occhi
persi nel vuoto
in cerca di qualcosa
che non c’è.
Forse staranno
cercando
la luce?
Ma intanto,
io ti tengo.
Tengo il tuo ventre,
e insieme ad esso
il frutto,
così vivo,
pronto alla vita;
Ti tengo.
Ti proteggo
E presto amor mio
arriverà la luce,
ma tu adesso
dormi.”
EPISODIO 3 | FIGLIA DEL MONDO
Torna all’Indice
In teoria, mancavano circa due settimane all’ingresso della bambina nel mondo e Sara ogni mattina aggiungeva qualcosa al piccolo bagaglio a mano: una tutina profumata di talco, una spazzolina, un paio di calzini minuscoli. In teoria, perché poi in pratica la gravidanza è un avvenimento pieno di sorprese e quella mattina fredda di novembre Sara sentì un liquido caldo che le bagnava il pantalone di flanella. Presa dall’eccitazione e un po’ anche dal panico, chiamò Diego e pochi minuti dopo erano in macchina in direzione dell’ospedale. La strada era trafficata, il freddo graffiava le mani e c’era pochissima luce solo ogni tanto, quando le nuvole grigie, lentamente, si spostavano nel cielo.
Arrivati al pronto soccorso, la ragazza consegnò i documenti allo sportello e subito arrivò un’infermiera con una sedia a rotelle.
“Signora, prego.”
Sara si sedette impaurita, non voleva separarsi da Diego, ma non si poteva fare diversamente. Lo salutò con un bacio e si lasciò portare via.
Il reparto profumava di neonato. Quel profumo che solo quando lo senti lo puoi capire, così estraneo e allo stesso tempo così familiare. Si sentivano in fondo al corridoio i pianti dei nuovi nati mentre, dall’altro lato, si udiva il lamento di una donna che stava per mettere al mondo il suo piccolo. Una dottoressa bionda e magrolina la visitò e le disse che aveva ricevuto un avviso dalla sua piccola; ancora qualche giorno e la bambina sarebbe nata. “Conviene che resti qui”, aggiunse rassicurandola, mentre l’accompagnava in una stanza vuota con due letti. Il crocefisso appeso sulla parete era leggermente storto e di fianco una porta scorrevole portava al piccolo bagno.
Si sentì rassicurata dallo spiraglio di luce che penetrava dalla tenda bianca che copriva morbida il finestrone. Dopo aver sistemato il bagaglio, Sara si affacciò sul mare governato da un faro. Con il sole che le schiariva i capelli e le stringeva gli occhi prese il telefonino e scrisse al suo Diego: “Starò via per un po’. Ce la farai a stare senza di me?”
Appena qualche secondo e lui la chiamò: “mi mancherai un sacco, mi dispiace non poter essere lì con te”. La ragazza lo tranquilizzò. “Sto bene”, gli disse, “pensa che presto Futura sarà con noi.”
La cena non fu il massimo – un po’ di purea di patate in una scatola di alluminio e un pezzetto di carne rossa indurita – ma andava bene così. Non aveva molto appetito e il cibo in quel momento era l’ultimo dei suoi pensieri. Si addormentò inghiottita dalla luce del faro.
La mattina fu svegliata dalle donne delle pulizie. Con dolcezza, le avevano fatto gli auguri e lei aveva risposto, sorridendo, che non aveva ancora partorito.
“Ma come mio Dio, sei così piccola”, esclamò la più grande delle due. “Avrei scommesso che avessi già partorito!”. Sara rise con gusto e fece di no con la testa.
Più tardi, stava leggendo “Cime tempestose” quando il telefono squillò. Era sua madre, mancava da tanto da Napoli per via del lavoro, che le chiedeva come stava.
“Stamattina ho letto il messaggio di Diego. Ho già fatto il biglietto per Napoli!”
“Tranquilla, mamma. Hai avvisato anche nonna Concetta?”
“Sì amore, certo, penso che se la chiami anche tu sarà contenta”.
“Più tardi lo faccio.”
Sara e sua mamma non si vedevano dal Natale dell’anno prima. Nell’animo della madre c’erano castelli di sensi di colpa, un po’ perché non era riuscita a starle vicina e un po’ perché ogni tanto il passato ribussava alla sua porta, facendola sentire una cattiva madre. “Scusami figlia mia”, disse, ma Sara la fermò. “Quello che è fatto è fatto”, disse, “eri troppo giovane, inutile tornarci su. Sei mia madre e ti vorrò sempre bene”, aggiunse con voce commossa.
Il resto della mattinata se ne andò via tranquilla. Dopo pranzo arrivò il ginecologo. Era un uomo di mezza età sicuro di sé e convinto di fare bene il suo mestiere. In realtà fin quando le cose andavano bene era così, ma quando invece c’erano complicazioni gli capitava di sbagliare, a volte pesantemente. Lo salvava la sua furbizia, che gli permetteva di uscirne sempre da professionista.
“Buongiorno. Come stai?”, le disse con la voce rauca, portandosi una mano al viso per sistemarsi gli occhiali.
“Tutto bene dottore. Le hanno detto cosa è successo, immagino. Perciò quando vogliamo procedere con il cesareo?”
“La situazione è agli sgoccioli, direi di farlo domani mattina”, rispose lui con distacco, dopo di che la salutò, socchiudendo la porta.
A Sara non importava più quella mancanza di calore, ormai si era abituata, e sollevata chiamò Diego. “Futura nasce domani. Tra poche ore sarò madre. Non ho paura.”
Diego non trovò tutte le parole che servivano per dirlo, ma si capiva che non stava in sé per la gioia. Il pomeriggio passò tra pensieri, letture e messaggi e la sera il sonnò Fu svegliata dal vento che batteva sul finestrone della stanza e dal rumore del mare impetuoso. Era una mattina fredda come la lama con cui le rasavano il pube. “Faccia un sospiro profondo, così il catetere entra senza problemi”, le disse l’infermiera, dopo di che la portarono in sala operatoria.
Tutte le sicurezze di Sara scomparvero. La sala operatoria le sembrò un posto di acciaio che puzzava di sangue e candeggina.
La siringa che le fecero sul fondo schiena fu indolore, ancora un paio di minuti e non fu più padrona del suo corpo. I medici e gli infermieri che parlavano del più e del meno mentre maneggiavano il suo ventre dormiente in qualche modo la rassicuravano, poi arrivò quel piccolo versetto, simile a quello di una ranocchia.
Erano le nove del mattino del 6 novembre e Futura vide la luce. “Congratulazioni mamma!”, le disse la giovane ostetrica mentre le poggiava sul petto la bambina.
Sara era incredula, confusa. Sentiva una leggerezza strana alla testa e tanta debolezza, ma ebbe comunque la forza di ammirare quel faccino tondo e sporco delle sue viscere. La baciò sulla fronte morbida e una lacrima le scese dal viso. Sembrava un bambina tranquilla e alquanto buffa. Un pulcino bagnato.
Una mezzora dopo fu riportata nella sua stanza e trovò Diego ad aspettarla. Finalmente potè scoppiare in un pianto liberatorio.
“Hai visto che capolavoro che abbiamo fatto?”, sussurrò a un certo punto e Diego, con gli occhi rossi, annuì. “Hai visto?, ce l’abbiamo fatta a non disunirci”, le rispose abbracciandola forte.
Era pomeriggio ormai e un po’ di fili di luce oltrepassavano le nuvole scure. Sara era al caldo, sotto le coperte di lana, e con dolcezza nutriva la piccola dal suo seno. “Non c’è cosa più bella”, pensò con lo sguardo stanco ma rilassato mentre i suoi occhi scuri brillavano di luce propria.
Non durò molto, perché il bruciore della ferita si stava accendendo e con esso il dolore senza nome. Lei cercò di ignorarlo, di godersi quel momento così prezioso con sua figlia, ma non era facile.
Più tardi anche il ginecologo le fece gli auguri. Venne quando Futura dormiva tranquilla nella sua culletta, avvolta da una copertina che profumava di casa.
“Grazie dottore”, disse Sara con la bocca secca e impastata. “Però mi dica, guarirò mai da questo dolore che mi ha tormentato per tutti questi mesi? Possiamo fare qualcosa?”
Il medico abbozzò con un sorriso impercettibile sotto la barba brizzolata e le rispose che lei era una donna sana, che tutto era nella sua testa proprio come le aveva sempre detto.
Sara si sentì sola in quel pomeriggio di novembre, nonostante la camera piena di confetti rosa al cioccolato e il vaso pieno di rose bianche. Avrebbe dovuto sentirsi felice, invece era presa dallo sconforto, travolta dalle lacrime, tradita dal suo proprio corpo.
“Ritorno a sfiorire,
dopo la primavera
che illuminava
l’anima mia
come ali bianche
di farfalla.
Sfiorisco come un fiore in pieno inverno.
Torno a essere terra arida.”
EPISODIO 4 | TERRA ARIDA
Torna all’Indice
Sara continuava a non stare bene, il suo problema fisico diventava sempre più invalidante. Giorno dopo giorno, si sentiva sempre di più una donna vuota, priva di anima, senza femminilità. “Mi sento come divorata da tanti insetti!”, aveva urlato un pomeriggio piovoso, prendendo a pugni il cuscino per la rabbia. E poi c’era il fatto che era sempre molto stanca. Per fortuna non era sola. Diego si comportava da buon padre, stava più tempo a casa nonostante il lavoro e l’aiutava anche nelle faccende domestiche.
La sofferenza della ragazza era comunque evidente. Se n’erano accorti anche sua madre e il fratello Enea, nonostante i suoi dieci anni. Per la verità la madre cercava anche di incoraggiarla, ma senza grossi risultati, forse perché non riusciva a capire fino in fondo cosa provasse la figlia.
Nonno Gerardo era l’unico che sembrava stare da qualche altra parte; in fondo aveva una certa età, non sapeva cosa avesse la nipote, la magrezza esagerata della ragazza era per lui l’unico segnale che non stava bene. In compenso nonna Concetta non si dava pace, dentro di lei si agitavano sentimenti contrastanti come mai le era successo prima. Ovviamente era felice della nascita di Futura, ma allo stesso tempo era divorata dallo sconforto di vedere la nipote così avvilita, sfiorita, un fiore malato succube di se stessa.
E Sara? Sara dopo il parto non voleva stare da sola con la sua bambina. Aveva paura che potesse farle del male, era convinta di non essere una buona madre. Si sentiva ostaggio di un enorme senso di colpa che si intensificò quando si rese conto di non riuscire più ad allattare la sua bimba al seno.
“Ho troppo dolore, faccio troppa fatica, non me la sento di continuare”, confessò con un groppo in gola a Diego. Per fortuna lui era completamente dalla sua parte. Toccava con mano ogni giorno la sofferenza e i limiti di Sara ed era consapevole di quanto stesse soffrendo. E ancora prima c’era la sua etica, il suo modo di essere e di fare: per lui ogni persona aveva il diritto di fare ciò che vuole del proprio corpo.
Su un altro pianeta viveva Futura, la loro bimba, che dormiva beata, come divorata dalla sua culla stile impero, costruita mesi prima con l’amore e la pazienza di nonno Mario. L’aveva pitturata con un verde pastello, e nella parte alta, nel punto esatto dove la bambina posava la testolina, aveva inciso questa piccola scritta in corsivo: “Fai sogni d’oro piccola. I nonni ti amano”.
Era stato un regalo bellissimo. Che raccontava l’amore della famiglia di Diego sia per Futura che per Sara.
In cuor suo la ragazza sapeva che tutte quelle persone le volevano bene, però non riusciva a ricambiare, la mente dilaniata dal dolore e il corpo deperito la rendevano scontrosa, scostante, trasandata, disperata. Era come fuori di testa, le continue crisi di nervi la facevano urlare contro tutto e contro tutti, la facevano pronunciare parole senza speranze e senza senso, parole come “sono niente, non sono una donna, se devo vivere con questo dolore preferisco morire!”
E ci provò davvero a fare il gesto estremo. Accadde una sera in cui la strada era vuota, nessuna macchina, nessuna voce, si sentiva solo il profumo dei comignoli delle case. Mentre scavalcava il balconcino, un filo di vento le sfiorò i capelli. Si sentiva pronta, adesso che Futura era nata non aveva senso vivere così, sarebbe stato soltanto un grosso problema, per Diego e per la loro piccina.
I piedi nudi, sottili, iniziarono a sporgersi fuori dalle rampe di ferro, per fortuna Diego decise che non era il momento di chiudere gli occhi e di dire addio al mondo, perciò la tirò a sé con forza e la trascinò all’interno della casa. Si mise sopra di lei, cercando di calmarla; poi, con tono determinato le disse “tu non stai bene, mi stai spaventando Sara, ho paura, anzi fai paura. Vedi di ritornare in te! E se devi riprendere quei cazzo di farmaci, fallo!”
Già. Sara durante la gravidanza aveva smesso di prendere gli antidepressivi, perché così si doveva fare, e ora l’astinenza si faceva sentire. Del resto li prendeva da quando era una ragazzina e adesso tutta la violenza che aveva vissuto le era ritornata addosso come piombo. Si sentiva travolta da tutte le sensazioni orribili di un tempo, come se non fossero mai invecchiate. E tutto questo, con il dolore insopportabile e le limitazioni assurde che ne conseguivano, stava pesantemente cambiando la qualità della sua vita con Diego.
Il suo umore era altalenante, e il loro amore sembrava diventato senza passione, ma nonostante tutto si amavano. Paradossalmente, era Diego ad accettare meglio, o comunque meno peggio, la situazione. Capiva le difficoltà della sua donna, e il fatto di non poter più far l’amore con lei riusciva a farlo passare in secondo piano. “Vedrai, ne usciremo” le disse una sera. “Noi dal primo giorno siamo stati capaci di unirci soltanto con le parole e gli sguardi. È un periodo, passerà.”
Sì, passerà. A volte, quando arrivava sera, i due giovani genitori si riunivano in casa, si sedevano sul pavimento di legno e immergevano la loro bambina in una bacinella piena d’acqua e sapone. Futura muoveva le manine e le gambette da ranocchia e loro ne erano incantati. Erano momenti immortali, si sentivano immersi in un rito tutto loro e dimenticavano per un po’ la sofferenza e la disperazione.
“Questa bambina è il nostro lucchetto di carne”, disse Sara con gli occhi lucidi una di quelle sere, e allora Diego le accarezzò la guancia e si portò via una lacrima. Subito dopo, si portò la mano alla bocca e le disse con tutta la dolcezza di cui era capace che amava ogni suo sapore. “A me manca tanto fare l’amore con te”, aggiunse la ragazza con dolce malinconia, e poi pensò che anche quello era stato un gesto erotico e dolce. Per fortuna, anche se ancora non lo sapevano, molto presto tutto quel dolore avrebbe avuto un nome.
“A un tempo ci si stringeva,
senza la paura
di farsi del male.
Ora non resta che
un arido corpo
a cui il senso dell’io
è stato strappato
con prepotenza.
Restano
soltanto due occhi
ancora desiderosi
che fissano questo rimasuglio
di donna,
e la nostalgia
che regna nei nostri cuori.”
EPISODIO 5 | LA RINASCITA
Torna all’Indice
La primavera era arrivata. Gli alberi avevano iniziato a colorarsi di verde e i fiori cominciavano a spuntare nei prati umidi, baciati dal sole.
Quella mattina Sara e Diego si erano alzati di buon ora e si erano messi in macchina. Il dolore non smetteva di torturare la ragazza e lei non smetteva di cercare qualcuno che potesse darle risposte. I due specialisti li aveva trovati grazie a Google, aveva telefonato e fissato un appuntamento.
Il viaggio fu tranquillo, l’alba lasciava delle sfumature arancioni nel cielo terso mentre la radio dava una canzone di Samuele Bersani “En e Xanax”. L’avevano ascoltata e consumata negli anni passati, ma mai come in quel momento era adatta al loro stato d’animo. Le parole dicevano di resistere, di non mollare la presa nonostante le difficoltà e le paure.
Vulvodinia. Il dolore di Sara finalmente fu riconosciuto. Adesso aveva un nome, un nome vero. Bastò qualche minuto per avere la diagnosi, bastò toccare con un cotton-fioc dove bisognava toccare.
Sara sobbalzò dal lettino, ma questa volta non le importava. La cura consisteva nell’assumere medicine che modulavano il sistema nervoso e altre che la aiutassero a rilassare la muscolatura; accanto alla cura farmacologica, sarebbe stata necessaria una seduta settimanale di fisioterapia per riabilitare la parte.
Le lacrime scesero copiose sulle guance della ragazza, era come vivere un sogno. Aveva vissuto per troppo tempo nella paura e nell’ignoto. Sollevata, strinse forte la mano del suo Diego, poi, con gli occhi brillanti di lacrime e di gratitudine si rivolse ai due giovani specialisti: “Avete qualcosa che la maggior parte dei medici non ha. Avete l’umanità che con il tempo si perde, forse per abitudine,forse perché non si ama il proprio lavoro.”
“È il nostro mestiere Sara”, rispose uno dei due. “Ogni lavoro va fatto come si deve! Comunque questo percorso insieme a te dovrà farlo anche Diego, perché si sa, è una situazione particolare e la coppia deve essere unita!”.
Dopo quella visita, la vita dei due giovani cambiò. Fu la prima volta, dopo un anno, che uscendo dalla porta di uno studio medico provarono una sensazione di leggerezza. Le preoccupazioni sembravano lasciate alle spalle, avevano solo tanta forza di volontà.
Diego le chiese dolcemente come si sentisse. “Su di me, te l’ho sempre detto”, aggiunse, “puoi contare per una rivoluzione”.
“Sto bene amore, ora sto bene. Ora insieme al dolore c’è la speranza, e per adesso va bene così.”
Lui la abbracciò forte, e le sussurrò all’orecchio che questi due medici avrebbero fatto un ottimo lavoro.
“Lo penso anch’io”, disse la ragazza. “Una persona quando sa che strada prendere guarda la situazione con occhi diversi. E io questa diagnosi me la tengo stretta, come mi tengo stretti te e Futura!”
Si baciarono, e fu un lungo bacio. Finalmente, dopo quasi un anno, i loro cuori tornarono a pulsare di gioia.
A casa trovarono Assunta che li aspettava. “Com’è andata?”, chiese con gli occhi che tradivano l’ansia di una madre che aveva visto il calvario dei due ragazzi da medico a medico, da delusione a delusione.
Fu Sara a rispondere con una nuova luce negli occhi: “Assunta ce l’ho fatta. Ho trovato finalmente la strada per la guarigione.”
La donna l’abbracciò felice, sapeva quello che Sara aveva sofferto sia a livello fisico che psicologico, capiva quanto è duro non sapere cosa hai, non essere creduta, si può impazzire in una situazione così.
Quasi come se l’avesse sentita, Sara disse “Non fa niente, ero arrivata al punto che anch’io non credevo più a me stessa.”
Le due donne si abbracciarono ancora, sorridenti, mentre Diego le osservava con gli occhi stanchi, contenti, lucidi.
Fu Assunta a rompere il silenzio raccontando tutto quello che aveva fatto Futura durante la mattinata. “Adesso dorme, ha appena bevuto il latte” concluse mentre si preparava per prendere la via di casa sua.
I due ragazzi la ringraziarono e subito dopo Sara salì le scale per andare a guardare la sua bambina. Non le era mai sembrata così bella. Sconvolta dal dolore, da quando era venuta al mondo non ne aveva mai potuto gioire come avrebbe voluto.
Si affacciò alla porta e chiamò Diego, che impiegò un attimo a raggiungerla accanto alla culla.
Mentre guardavano la loro bambina, Sara disse sottovoce che ce l’avevano fatta, di nuovo, e sorrise. Diego, con gli occhi più giocosi che aveva, rispose: “Che cosa vuoi fare al tuo compleanno? È tra due giorni!”
“Amore, ho bisogno di evadere. Che dici di fare una gita al mare, prepariamo una bella pasta all’insalata, due birre e via. Ci stai?” Gli occhi del ragazzo raccontavano la sua contentezza. “Mi va benissimo, ti porto al mare”, disse. E così fecero. Dopo tanto.
I mesi passavano e le cose cominciarono a cambiare. Sara iniziò a migliorare a vista d’occhio, facendo le sue sedute settimanali di fiosioterapia e riposando. A volte c’erano giornate brutte, ma si sapeva, la ripresa era lenta e il cammino verso la vera guarigione ancora lungo.
Anche i medici le avevano detto che potevano esserci delle ricadute, ma la ragazza accoglieva quel dolore con pazienza. Adesso faceva parte di lei, non si sentiva più una donna a metà, o almeno cercava di non pensarci. Iniziò anche a mangiare di più e a rimettere il lucida labbra che le piaceva tanto e non aveva più messo. E poi tagliò i capelli come se avesse voglia di cambiamenti e si sa, quando una donna taglia i capelli vuol dire che qualcosa nella sua vita è cambiato. E così fu.
Cominciarono a fare anche piccoli viaggi. A volte in montagna, altre in qualche paesino caratteristico sulla costiera, altre ancora semplicemente andando a bere una birra in pineta mentre l’estate turbolenta arrivava e la piccola cresceva.
Lentamente, ripresero la loro vita tra le mani. Lentamente, come il beneficio che le procuravano le medicine. Il passato li aveva fatti crescere ed amare sempre di più, non solo con il corpo.
“Bambina dal corpo di donna.
Sono una bambina che
in passato,
a singhiozzi
e con gocce salate
sul volto
ospitò una vita.
Sono una bambina
che ha voglia di gentilezza
e fame d’amore.
Di quell’amore
che sfiora quei seni pallidi.
La vita precedente l’ho dimenticata.
Quell’involucro di brutalità e viscidume.
Prima di te più nessuno
c’è nella mia anima.
Dopo di me, quella
e questa, ci sarà l’amore puro.
Quei corpi che si uniranno piano,
con dolcezza.
E lì rinascerò
e sarò una nuova
donna.”
CAPITOLO CINQUE
Torna all’Indice
EPISODIO 1 | IL LAVORO DI MAMMA
Torna all’Indice
I mesi scorrevano veloci e insieme a loro l’estate in cui Sara e Diego cominciarono finalmente a trovare un equilibrio.
Futura cresceva giorno dopo giorno. Sulla sua testolina vellutata apparvero i primi capelli color dell’oro e poi, più avanti, le spuntarono i primi dentini. A un certo punto cominciò a strisciare come un piccolo serpente sul pavimento di legno, mentre sua madre si dedicava alle faccende domestiche. Le piaceva fare dei versi che attiravano l’attenzione dei gatti di casa, che stavano volentieri in sua compagnia, un poco perché era piccina e un poco perché i suoi versi sembravano miagolii. Con la manina, quando uno dei due si avvicinava, gli stringeva le orecchie o gli tirava i baffi, e allora Sara con voce affettuosa e decisa diceva “No, amore, non si i fa così, solo caro caro, con dolcezza, se gli stringi i baffi Ciccio si fa male”. La bimba, con in faccia dipinto lo stupore, prima la guardava e poi sorrideva.
Dopo che aveva preparato il brodo vegetale per il pranzo della sua piccola, Sara chiudeva i fornelli e si dedicava a lei. Pelle contro pelle, occhi contro occhi, labbra contro labbra. La coccolava in continuazione e poi, verso le dieci del mattino, le metteva una tutina, prendeva la borsa carica di salviette, pannolini e biberon, si allacciava intorno alla vita il marsupio con la bimba e uscivano. Passavano le mattinate così. Facendo avanti e indietro nella piazza del paese, fino a che non se ne andavano al locale del papà, dove Sara avrebbe preso il cappuccino, con la scusa che non aveva ancora preso neanche il caffè.
Era bello essere la madre di Futura. Era bello che la bimba fosse la figlia dell’uomo che amava così tanto, con il quale aveva condiviso così tante cose.
Naturalmente non erano tutte rose e fiori. A volte le mattine non passavano mai, magari per via del brutto tempo, quando era costretta a stare in casa, tenendo in braccio la bambina per ore, avanti e indietro tra quelle quattro mura. In quelle occasioni era come se la bimba aveva la perenne necessità di stare tra le sue braccia, o almeno così pensava lei. E poi la stanchezza, tanta stanchezza.
Essere una giovane madre non è per niente semplice, senti la responsabilità di quell’esserino così piccolo, e poi fai i conti con la tua storia, con quello che ti porti appresso, le cose belle certo, ma anche quelle brutte.
La sera, dopo che aveva messo a letto Futura, Sara si concedeva una sigaretta e pensava spesso a quanto fosse felice, però non durava molto, solo fino a che non era sopraffatta dall’insoddisfazione, dalle domande, dalla paura di non farcela.
Da un lato, le mancavano il suo lavoro, la sua autonomia, la consapevolezza di essere Sara non solo per il posto che aveva in famiglia ma anche per il posto che aveva nel mondo. Dall’altro, ed era quello che la faceva soffrire di più, c’erano i sensi di colpa, la paura di non essere all’altezza.
“Sono una buona madre?”, si chiedeva. “Sono in grado di dare a mia figlia tutto quello di cui ha bisogno? E se mia figlia da grande non mi volesse bene?”
Domande di una giovane madre. Domande a cui è facile dare risposte quando le trovi nei libri, quando le trovi nella vita no, è tutto differente.
Spesso, quando tornava dal lavoro, Diego la trovava lì, sul pianerottolo di casa, pensierosa, con i suoi sensi di colpa che, come aghi, le pungevano l’anima. A volte la sua mente era un continuo costruire sensazioni negative, come ombre del passato che venivano ogni tanto a farle visita. Dal senso di colpa alla paura il passo era breve, e tutto questo la faceva soffrire molto.
Aveva una paura costante che il suo ruolo di essere mamma le venisse rubato o che venisse criticata, forse perché da bambina quei “ruoli” l’avevano mandata in confusione, una confusione che continuava a portare con sé, nitida, nel presente.
E poi c’era quella strana sensazione che nessuno la capisse, a parte il suo Diego. Era come se non bastassero l’amore dei nonni, della mamma e neppure di Diego; le ferite che Sara si portava dentro continuavano a farle male, nel suo presente continuava a esserci torppo spazio per il tormento.
Per fortuna, come in tutte le vite e anche di più, pure nella sua vita c’erano tanti momenti belli, i momenti di ogni giorno, come quando la bimba mangiava con gusto un bel panino croccante con i friarielli. Come se guardasse una fotografia, Sara sorrideva ogni volta in cui ripensava a quegli occhietti cangianti che godevano per la bontà di quel panino; sì, faceva vivere per sempre quei momenti come se li avesse rinchiusi in una foto. E poi c’erano i momenti speciali, Futura che inizia a fare i primi passi, che spegne la sua prima candelina; che chiama “mamma” per la prima volta con la sua voce squillante. Erano i momenti in cui si sentiva più felice, più serena, per certi versi fiera. E Diego, il suo Diego, lo era insieme a lei.
Erano due ragazzi sensibili che giorno dopo giorno cercavano di crescere la loro bimba nel migliore dei modi, con tutta la spensieratezza di cui erano capaci, quella spensieratezza che a volte solo i giovani genitori possiedono. L’ansia, i brutti pensieri, se li tenevano per loro, sapevano che era giusto così, e così facevano, o almeno ci provavano.
“Maternità.
Io e te.
Io con un biberon tra le mani,
che non so,
non ricordo neanche quando
mi sono lasciata andare nel sonno.
Tu così sicura di te,
sentendo il mio calore.
Ciò mi fa un pò ridere,
ma mi si riempie il cuore.
Ricordo che da piccola
mi sentivo sicura tra le braccia
della mia mamma.
La culla era mia nemica.
E ora, in te vedo me.
e tu vedi me,
dalle ampie spalle,
pronta a proteggerti.
E sì, non c’è cosa più bella
piccola mia.”
EPISODIO 2 | IL LAVORO COME AUTONOMIA
Torna all’Indice
E per Futura vennero i giorni dell’asilo. La malattia di Sara si era come stabilizzata e con Diego andava tutto per il meglio. Al principio, la giovane madre soffrì non poco per il distacco con la bambina, quasi come se qualcosa di importante tra loro due si potesse spezzare. Le mancavano i suoi capricci, i suoi sorrisi, la sua pretesa di stare tra le sue braccia in continuazione. Ma fu soltonto questione di tempo, alla fine aveva ragione Gibran, e lei lo sapeva:
“ I vostri figli non sono figli vostri.
Sono figli e figlie della sete che la vita ha di sé stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benchè vivano con voi non vi appartengono.
Potete donare a loro l’amore ma non i vostri pensieri:
Essi hanno i loro pensieri.
Potete offrire rifugio ai loro corpi ma no nelle loro anime:
Esse abitano la casa del domani, che non vi sarà concesso visitare neppure in sogno.
Potete tentare di essere simili a loro, ma non farli simili a voi:
La vita procede e non s’attarda sul passato.
Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccati in avanti.
L’arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito, e vi tende con forza affinchè le sue frecce vadano rapide e lontane.
Affidatevi con gioia alla mano dell’arciere;
poiché come ama il volo della freccia, così ama la fermezza dell’arco.”
E poi c’era l’evidente felicità della piccola, a cui piaceva tanto andare all’asilo e stare insieme ai bimbi della sua età. E il fatto che tutto questo l’aiutava a essere socievole con tutti e ad apprendere con rapidità ogni cosa.
Con il ritorno alla normalità, diciamo così, Sara cominciò a vivere meglio anche il piccolo paesino dove viveva, usciva più spesso e frequentava più persone. In particolare fece amicizia con Elvira, una ragazza che viveva a Firenze e lavorava come cassiera in un supermercato. Aveva una storia d’amore con un ragazzo del posto, perciò scendeva spesso in quel paesino confortevole, che forse all’inizio ti sta un po’ stretto ma prima o poi finisci per amarlo di un amore che non ti passa più.
Tornando a Sara, da quando Futura andava all’asilo aveva più tempo, così una mattina stampò alcune copie del suo curriculum e si mise in giro in cerca di lavoro. Voleva trovare un lavoro part-time, lavorare per tutto il giorno non le era possibile, sia per gli impegni relativi alla salute, a partire dalle sedute fisioterapiche una volta alla settimana, sia perché voleva avere tempo per dedicarsi a sua figlia.
Diego le consigliò di chiedere anche ai ristoranti, precisando naturalmente di poter lavorare soltanto a pranzo, ma non fu possibile, quel tipo di locale aveva bisogno soprattutto la sera. Per la verità il ragazzo le propose anche di aiutarlo nel suo locale ma lei non voleva, sentiva dentro di sé uno spudorato bisogno di essere autonoma, di avere un posto nel mondo anche lei, indipendentemente da altre persone.
Si disse disponibile anche a fare le pulizie nelle case degli anziani, ma anche in questo caso non ebbe fortuna.
A un certo punto com’era naturale si scoraggiò, ma poi pensò che bisognava lasciarsi andare all’ordine delle cose, nelle piccole comunità accade così, certe storie hanno i propri tempi e i propri percorsi.
Accadde una mattina che la primavera era appena cominciata. Sara era nel locale di Diego quando entrò Giovanni, un signore di mezza età responsabile di una società privata di servizi postali.
“Ho sentito che cerchi un lavoro”, le disse, “forse c’è un progetto che fa per te, è part time e dura un anno, per cominciare penso che possa andare bene. Comunque domani vieni al mio ufficio e ne parliamo meglio.”
Sara fu molto contenta di quell’opportunità e appena Giovanni fu uscito abbracciò Diego.
“Che fortuna”, disse poi, “avevo bisogno di una mano ed è spuntato Giovanni.”
“Nei piccoli paesi come il nostro ci conosciamo tutti”, le rispose il ragazzo, “la voce passa veloce di casa in casa, e i vincoli di solidarietà tra le famiglie e le persone sono più forti.”
“Già”, replicò soltanto Sara mentre lo stringeva più forte.
La mattina seguente Giovanni era nel suo ufficio caldo e ospitale. Le mattonelle di marmo lucide erano appena lavate attirarono la sua attenzione, e così le mensole e i quadri di paesaggi sconosciuti, forse della Bavaria degli inizi del novecento.
La porta era aperta, ma Sara per educazione bussò ugualmente. L’uomo la accolse con gentilezza e la fece accomodare di fronte a lui. La ragazza si sentiva agitata: aveva l’occasione di lavorare per un anno, di fare esperienza e di imparare nuove cose, ma era comunque un mondo tutto nuovo da affrontare.
L’uomo, con la voce sporca di nicotina, le spiegò in che cosa consisteva il suo lavoro.
“In realtà si tratta di un tirocinio retribuito che, come ti ho detto, ha la durata di un anno. Ti occuperai dello smistamento dei pacchi in arrivo e in partenza e in più darai una mano dove c’è bisogno, all’inizio è così, poi vediamo. In ogni caso non sarai sola, puoi fare riferimento alle tue due colleghe che lavorano qui.”
La ragazza ringraziò più volte Giovanni per quella opportunità. Era felice di lavorare con un lavoro part-time come desiderava. Avrebbe potuto continuare a occuparsi della casa, dedicarsi alla cucina e stare vicino al suo Diego. Avrebbe potuto cogliere ogni piccolo progresso che la sua piccola faceva giorno dopo giorno. Soprattutto avrebbe potuto cominciare a camminare sulla strada dell’autonomia e della realizzazione di sé anche nel lavoro.
“Mani sporche,
macchiate di un nero
come la pece
che profumavano di gasolio.
Quelle mani che portavano
ogni giorno un filone di pane,
caldo.
Mani che sapevano di igiene,
bianche e consumate
dalla candeggina.
Screpolate, fragili
ma umili che
accarezzavano il viso
morbido di una bambina.
Mani di una figlia
sporche di pittura,
che avevano ancora il profumo
dell’infanzia.”
EPISODIO 3 | IL MESTIERE DI SCRIVERE
Torna all’Indice
C’era una volta una donna che veniva a prendere un cappuccino bollente al locale di Diego, a volte accompagnato da un fetta di costrata, altre volte no.
Sara la incontrava spesso, la mattina dopo che accompagnava Futura all’asilo. Se ne stava seduta con il suo mac tra le mani e gli occhiali poggiati sul naso importante; ogni tanto, con le sue mani sottili, mandava indietro qualche ciuffo ramato che scappava dalla lunga treccia che le scendeva sulla schiena.
Le piaceva osservarla, e talvolta anche lei sembrava cercarla con lo sguardo, ma la cosa si fermava lì, soltanto buongiorno e qualche altra parola di cortesia.
In paese sapevano tutti che era una docente di lettere ormai in pensione, che veniva da Roma, non era sposata, non aveva figli e viveva in una piccola casa in affitto nel centro storico. La si vedeva in giro spesso da sola, però aveva un bel sorriso, come se quella sua solitudine fosse una scelta più che una condanna.
Accadde in un pomeriggio di mezza estate, mentre Sara girovagava per il paese vecchio con la sua piccola.
“Mamma, miao miao”, disse Futura mentre i suoi occhi grandi indicavano un gattino davanti a un portone di legno. Sara, sorridendo, accompagnò la piccola verso quella palla di pelo, che lasciò che la bambina la accarezzasse senza freni.
All’improvviso, il portone si aprì. Oltre l’uscio, lei. Indossava delle infradito di cuoio consumato e una gonna floreale dai colori vivaci; i lunghi capelli sciolti le mangiavano il viso sottile, segnato dagli anni.
“Ciao Sara! È bello incontrarti dalle mie parti con la tua piccola!”, le disse. “Ti chiami Sara, giusto?”
La ragazza salutò balbettando, mentre la bimba fece un piccolo cenno con la manina. La donna sorrise e disse che Futura era un nome bellissimo e che la piccina era un sacco carina. Poi, con un tono sbadato, mentre porgeva la mano destra a Sara, disse che lei si chiamava Roberta Larocca.
“Vuoi entrare? Ti offro un caffè, una birra…insomma quello che vuoi!”, aggiunse.
Sara accettò con piacere. Era da tanto che voleva parlare con lei e perciò non si fece sfuggire l’occasione.
La casa era piccola ma graziosa. Profumava di rose fresche; di lato c’era un tavolino con due vecchie sedie, un diavano di pelle marrone e un piccolo angolo cottura con gli scaffali verniciati di verde.
“Accomodati! Adesso prendo del succo alla bimba. Le piace quello alla pesca?”
Sara annuì, mentre la sua bimba fece un sorrisone, poi, quando Robertà le passò il piccolo bicchiere colorato, disse “Azzie!” , e a quel punto le due donne presero a ridere con gusto. Mentre Roberta prendeva dal frigo le due bottiglie di birra, Sara notò la libreria nel piccolo corridoio. Fecero cin cin con le bottiglie e presero a sorseggiare la loro birra ghiacciata, due passi e Sara fu vicino alla libreria, vide Oceano Mare e un sorriso le illuminò gli occhi e il viso.
Roberta sorrise a sua volta, e disse che quel libro lo dava spesso da leggere ai ragazzi delle superiori durante le vacanze di Natale. “Quando poi sono passata all’università”, aggiunse, “insieme a Baricco nelle mie lezioni di scrittura creativa mi facevano compagnia anche Carver e Calvino”.
“Carver?”, chiese imbarazzata Sara, “sono proprio una frana, non l’ho mai sentito”, e Roberta fu contenta, si sentì come quando insegnava all’università, tutta presa dalla voglia di far appassionare gli studenti, di far conoscere loro la magia di un punto messo al posto giusto.
“Lo sa, prof. che lei è proprio brava?”, la interruppe Sara a un certo punto. “Mi ha fatto venire voglia di leggere Carver, quale libro mi consiglia? Magari lo ordino su internet.”
“Non ce n’è bisogno”, la riprese Roberta, “ho una copia in più de ‘Il mestiere di scrivere’, penso che sia un libro molto adatto a te. in libreria.” Non aveva ancora finito di parlare che il libro era apparso come per incanto nelle mani di Sara.
“Ma mi dispiace che se ne deve privare.”, disse Sara confusa.
“Ti ho detto che lo faccio con piacere”, rispose Roberta con un tono che non ammetteva repliche. E risero.
Quel pomeriggio fatto di risate, di cultura e del rumore dei passi di una bambina fu come un nuovo inizio per Sara.
Con il tempo gli incontri con la professoressa Roberta diventarono abituali, complici la dolcezza di Diego che la spronava a scrivere, e la costanza e la determinazione che ci metteva lei cominciò a pensarsi, a pensare, come una scrittrice.
Doveva tanto a molte persone, in particolare a quella donna dai capelli ramati e dalle mani trasparenti.
Un anno dopo, mentre guardava dalla finestra le colline coperte dalla nebbia, Sara staccò la penna dal foglio proprio nell’istante in cui Futura irruppe nella stanza e l’affiancò alla scrivania di legno: “Mamma, mamma! Hai scritto qualcos’altro?”
“Ho scritto soltanto qualche riga amore, ma va bene così. Sei sicura che vuoi ascoltarla?”
La bimba fece sì col capo.
“Va bene, allora te la racconto”, disse, e poi continuò: “Questo è l’inizio di una storia come tante e come poche, una storia vera. Una verità che è in ognuno di noi e che racconta il bello e il brutto, la morte e la rinascita. Cara la mia Futura questa storia comincià così …”, e lesse con dolcezza la prima riga, toccandosi con la mano destra il grembo ormai ben pronunciato. Una nuova vita era dentro di lei.