Antonella, l’arpa, i cuoppi e il profumo del mare

Caro Diario, Antonella la incontro di tanto in tanto a Cip, da Michele Croccia, insieme a Carlo Cavaliere, fotografo, consulente di digital marketing, startupper del cibo e tanto altro ancora. Accade in una giornata di inizio agosto, la intravedo in pizzeria, entro per salutarla, con lei Carlo e Michele, il mio amico maestro pizzaiolo mi dice che se passo più tardi mi fa assaggiare un po’ di pizze nuove, così gli dò un parere, e io naturalmente non mi lascio scappare l’occasione.
Quando ritorno Carlo e Michele sono ancora impicciati, comincio a chiacchierare con Antonella e scopro un mondo, le dico che mi piacerebbe raccontarla e il resto viene da sè. Buona lettura.

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Caro Vincenzo, mi chiamo Antonella Labriola, sono una come tante o forse come poche, e mi sembra già strano essere qui a raccontare chi sono. Sono nata a Vico Equense, in provincia di Napoli, nel 1981, ho vissuto i primi 23 anni nella vicina Castellammare di Stabia e ho passato gran parte delle lunghe estati della mia infanzia in Cilento. Posso dire che gran parte dei miei ricordi più felici sono legati al profumo del mare.

Da bambina mi sono sempre sentita una ragazzina un po’ diversa dagli altri, e non ho mai ben capito se la cosa mi piacesse o la detestassi. Lo so, c’è stato un momento in cui un po’ tutti ci siamo sentiti diversi, ma il fatto è che io lo ero davvero, e non perché avessi particolari doti, ma per via dei lavori dei miei genitori, che generavano per un motivo o per l’alto sempre una particolare curiosità e in qualche modo mi rendevano un elemento “particolare”. Tutto ebbe inizio alle elementari, un periodo in cui si è finalmente abbastanza grandi per rispondere alle domande di quelle maestre a cui piaceva entrare nelle case dei propri piccoli alunni chiedendo ad ognuno il lavoro dei propri genitori. Ecco, quando toccava a me la mia risposta era sempre: “mia madre fa l’arpista e mio papà fa il sindaco”.  Credo che sia stato allora che scoprii che non tutti i  bambini avevano a casa un’arpa e mi stupii molto nello scoprire che la maggior parte di loro a 5 o 6 anni non sapevano nemmeno che forma avesse; per quanto riguarda mio padre, ecco, anche nel suo caso scoprii che faceva un lavoro speciale.

In pratica fin da bambina capii che i miei genitori per vivere facevano lavori “strani”, o comunque un po’ fuori dalla media, cosa che un po’ mi inorgogliva perché avevo sempre qualche bella storia da raccontare su di loro. Erano due persone molto diverse a dire il vero, per indole, soprattutto, per interessi, per background familiare e per il modo di approcciarsi alla vita e credo che questa loro estrema diversità viva in me in una sorta di conflitto perenne. Se dovessi descriverli attraverso una metafora musicale direi che mia madre è come la musica classica, a volte dai ritmi pacati, a volte burrascosi, intensi, complessi, dominata da un certo rigore seppure con il desiderio talvolta di uscire dagli schemi; mio padre era la musica popolare, quella che si fa sentire, che grida a gran voce, che esprime libertà,  che  è voce del popolo, che chiede giustizia, che non resta mai al suo posto, scostumata, spesso arrogante, che non conosce convenzioni, quella che si balla con gli sconosciuti e non con chi ti sta al fianco. Insomma su di loro e sulle loro storie ci sarebbe tanto da raccontare, ma tu mi hai chiesto di parlarti di me, perciò mi limito a dire che è esattamente questo che io sono, il perenne conflitto tra questi due mondi, un conflitto che talvolta mi intrappola e altre volte mi rende libera.

Come dicevo, ho vissuto i primi 23 anni della mia vita a Castellammare di Stabia, una città che ho sempre amato e odiato allo stesso tempo, ma che ho avuto la fortuna di vivere, negli anni dell’infanzia, nell’epoca in cui aveva ancora tanto da offrire. Potrei addirittura dire che uno dei primi “lavori” che abbia mai fatto, se così si può dire, fosse legato alla mia nonna paterna e indissolubilmente alla città di Castellammare. Mia nonna, contadina nell’animo, aveva accettato di vendere  i suoi terreni  nel periodo del boom edilizio, per poi vivere per sempre con la nostalgia verso la sua terra e i suoi animali nel cuore. Per tenersi impegnata anche in vecchiaia, aveva accettato, per poche lire, di confezionare i cosiddetti “cuoppi” per un biscottificio vicino casa. Si trattava in pratica di piegare ad arte ed incollare dei grandi fogli blu che sarebbero diventati le confezioni dei famosi biscotti di Castellammare, biscotti allungati che mio padre mi faceva mangiare intinti nell’Acqua della Madonna. Ricordo ancora quando mia nonna metteva la colla a cuocere nel suo pentolino, la portava nella sua stanza dove erano impilati i fogli blu e con il suo pennelino piegava ed incollava i cuoppi. Dovevo avere circa 8 anni quando cominciai a divertirmi a farli con lei, facendomi insegnare come piegarli e che quantità di colla usare per fare in modo che non sbavasse. Ho trascorso così diversi pomeriggi d’estate guadagnando di tanto in tanto qualche bella monetina da spendere in ghiaccioli alla menta.

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Più o meno negli stessi anni ricordo che mia madre, che allora insegnava al Conservatorio di Salerno, portò mio fratello con sé per fargli conoscere un po’ di strumenti e vedere se ce ne fosse uno che potesse colpirlo. Al suo ritorno, aveva circa 10 anni, ricordo che raccontò di essere stato nella classe di flauto, e che, non so perché, non gli era piaciuto. Ecco, quel giorno avrei tanto voluto che mia madre portasse me al Conservatorio, mi sarei forse innamorata di uno di quegli strumenti e chissà, forse la mia vita avrebbe preso un’altra piega. Invece, forse a causa del netto rifiuto di mio fratello, mia madre, di fronte al mio interesse verso la musica, decise che avrei potuto prendere lezioni di piano. Non da lei, certo, sebbene fosse diplomata anche in pianoforte, perché avrei sicuramente mostrato scarsa serietà, ma da un maestro talmente anziano, seppure bravissimo e gentile, e dal tono di voce a tal punto flebile che aveva su di me, vispa bambinetta di 8 anni, un effetto talmente soporifero da farmi decidere, da lì a pochi mesi, che forse la musica non era poi così divertente. Fu così che lasciai il pianoforte, salvo per strimpellare qualche canzone pop di quelle che si amano durante l’adolescenza.

A 14 anni, nonostante il mio desiderio di iscrivermi all’Istituto d’arte, per il quale avrei dovuto spostarmi ogni giorno in treno fino a Sorrento, fui iscritta al Liceo classico, proprio di fronte casa, mi sarebbe bastato attraversare la strada. Furono cinque anni di studio abbastanza intensi durante i quali non avevo tempo per molto altro. Durante quegli anni cominciai pian piano a desiderare la libertà, l’indipendenza, il non dover più chiedere il permesso, il non avere più orari. Il mio mondo era rinchiuso in una stanza piccolissima, nella quale entrava a stento il letto, con tantissime cose e sogni appesi alle pareti, tra un poster dei Take That e una locandina degli Inti Illimani.
Insomma, finito il liceo, fu come se mi si aprisse un mondo, ero più adulta, e stavolta mi sembrava di avere la possibilità di scegliere. Cominciai a desiderare di andare via, di studiare altrove, di costruirmi una vita diversa da quella che avevo a Castellammare, sognavo il DAMS di Bologna o di studiare Comunicazione Internazionale a Perugia, avrei studiato qualcosa che mi interessava, avrei cambiato città e avrei vissuto da sola, insomma avrei preso diversi piccioni con una fava e invece scoprii mio malgrado che “senza soldi non si cantano messe” e che finché sarebbero stati i miei genitori a pagare non avrei mai avuto l’ultima parola. Fu così che, vuoi perché mantenere un figlio fuorisede costa, vuoi per non dover sopportare le ansie di avere un figlio lontano, alla fine accettai di iscrivermi alla facoltà di Lettere Moderne alla Federico II di Napoli, una facoltà sulla quale nutrivo comunque tante speranze, ma che finì in parte per deludermi da diversi punti di vista.

Intanto, sempre in quel periodo, mi capitò una cosa strana, ero più libera di gestire il mio tempo e cominciai a provare grande curiosità verso quello strumento che avevo in casa e che, come se fosse la cosa più naturale del mondo, sentivo suonare sin da quando ero in fasce. Mi chiesi come sarebbe stato provare a suonarlo, cominciai a pensare “cavolo, avere un’arpa in casa non è da tutti, io ce l’ho proprio qui, da anni, e non so nemmeno come funziona”. Fu così che un giorno, quasi per gioco, chiesi a mia madre di darmi lezioni, all’inizio di tanto in tanto, poi con un appuntamento fisso a settimana. Mi piaceva, era divertente, e a ogni risultato che riuscivo a raggiungere mi sentivo felice, sentivo che stavo costruendo qualcosa. Lo facevo per hobby, quasi per gioco, non avrei mai immaginato che sarebbe diventata la mia vita.

Capitò un giorno che rimettendo in ordine, mia madre trovò una vecchia musicassetta  sulla quale c’era scritto “Saggio di Rosaria”. Sorridendo me la fece ascoltare, raccontandomi che delle sue compagne di Conservatorio, ai tempi in cui era allieva, le avevano fatto quella registrazione all’ultimo saggio prima del diploma conclusivo. Ascoltai quel brano quasi rapita, ne rimasi folgorata, e fu forse quel giorno che mi innamorai del mio strumento e capii che poteva essere qualcosa di più di un gioco.

Come avrai già capito caro Vincenzo, alla fine mi iscrissi al Conservatorio di Napoli e iniziai una frenetica vita fatta di treni, corsi all’Università e lezioni in conservatorio. I primi anni furono davvero duri, sia per i ritmi sostenuti, sia perché se all’Università, non so perché, avevo difficoltà a socializzare, e in Conservatorio mi sentivo troppo vecchia per essere al primo anno. Insomma avevo 18 anni ed ero in una classe di solfeggio piena di bambinetti dagli 11 a i 13 anni per di più molto più svegli di me. I primi tre anni sono stati davvero duri, quelli nei quali ho forse avuto più spesso la voglia di mollare. Devo dire col senno di poi, che l’ambiente di Napoli mi fece un gran bene, cominciai ad aprire la mente e a capire che il modo di pensare e di vivere di Castellammare non era l’unico modo di pensare e di vivere.

In quegli stessi anni, anni in cui spesso era stato scelto per me, si rafforzò in me l’idea che uno dei miei più grandi desideri sarebbe stato quello di essere indipendente, andare via di casa, prendere da sola le mie decisioni, e che c’era un solo modo per farlo, lavorare. In quel periodo non avevo molto tempo per lavorare, visti i doppi studi, ma pensai ad un lavoro che si potesse fare nei fine settimana. Decisi di presentarmi in un’agenzia di animazione e cominciai così a fare l’animatrice per bambini. Lavoravo in primavera ed estate praticamente in tutti i fine settimana, talvolta rincorrendo bambini indemoniati, altre volte divertendomi un sacco. Lavoravo giornate intere e guadagnavo davvero poco, ma tanto bastava per sentirmi fiera, perché avevo soldi miei, guadagnati imparando a gestire il mio rapporto con le persone, a rispettare impegni, orari, ad attuare strategie di lavoro, cominciai insomma a capire il significato della parola professionalità. Insomma, guadagnavo al tempo ben poco, ma quel poco mi permise dopo qualche anno di andare via di casa. Ebbi la possibilità, tra Università e Conservatorio, di conoscere  nuove persone, provenienti spesso da  diversi luoghi della Campania, dell’Italia, dell’Europa e talvolta del mondo, e scoprii che tanti, infiniti, erano i modi di pensare, le possibilità e le maniere di vivere la propria vita.

Nei primi anni in cui ho frequentato Napoli da pendolare cominciai a vivere due mondi paralleli, da un lato l’Università,  coi i suoi  palazzi storici, le aule immense, alcuni professori che riuscivano, parlandoti di Boccaccio, Ariosto o Plinio Il vecchio  a farti sognare, e dall’altra il Conservatorio San Pietro a Majella, un luogo quasi magico, con i suoi chiostri, le sale concerto, i suoni e le voci che cominciavi a sentire mentre eri ancora all’angolo della strada, in un miscuglio di note, timbri, voci, e il profumo delle pizze a portafoglio che avrei mangiato nella pausa pranzo.
I primi anni a Napoli passarono barcamenandomi tra questi due mondi, schizzando da un’aula all’altra, dal Conservatorio all’Università, rendendomi forse poco conto di ciò che facevo e non comprendendolo forse nemmeno a fondo. Gli esami universitari procedevano a rilento, seppur procedendo, mentre al Conservatorio facevo progressi un po’ alla volta. Non sto qui a sottolineare le difficoltà, la paura di non farcela, o di deludere i miei genitori, il senso di inadeguatezza che spesso mi assaliva, le lacrime e la voglia di mollare tutto, che hanno contraddistinto i miei primi anni in entrambi i contesti, ma pian piano ne uscii, e furono forse la musica e l’amicizia e farmi capire cosa avrei voluto fare nella mia vita e a darmi il coraggio di scegliere e di decidere senza interferenza alcuna come volevo vivere io.

Avevo circa 21 o 22 anni quando nella mia classe di arpa cominciammo a realizzare un piccolo progetto didattico, suonare in ensemble ed unire le arpe con le percussioni. Entrarono così nella mia classe ragazzi di altre classi, che suonavano altri strumenti e insieme a loro quella divenne la mia dimensione. Le amicizie di quegli anni si sarebbero rivelate uniche e durature nel tempo, potevo finalmente confrontarmi con persone capaci di condividere il mio mondo, le passioni, le conoscenze, i sogni, in quella che potrei definire l’inizio di una vera simbiosi. Il Conservatorio ad un certo punto mi spalancò gli occhi, mi mostrò cosa poteva significare la condivisione, l’amicizia, il lavorare per uno scopo comune, il lavorare su sé stessi, il non essere soltanto un numero, il non essere soli, così come mi sentivo nel dispersivo sistema universitario della mia facoltà.

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Dai 23 anni ero a Napoli sempre più spesso, avevo una cerchia di amici spesso fuorisede, sempre più ampia, e non era raro che d’estate si decidesse di partire da un giorno all’altro, tenda in spalla, per seguire qualche festival in giro per l’Italia, ed era sempre più frequente che mi facessi ospitare da loro a Napoli. A 25 anni, quando finalmente cominciavo a guadagnare qualcosina anche suonando, decisi un giorno che era tempo di andare via di casa, avevo i miei soldi messi da parte e tre amici che avrebbero condiviso una casa con me. Non parlavo con mio padre da un po’ quando usci dalla porta con le prime cose che avrei portato nella casa nuova. Nuova mo, non esageriamo, nuova negli intenti, nelle idee, nell’entusiasmo, ma in realtà una vera e propria “casa caruta”, costava poco però e questo era l’importante, ed eravamo tutti uniti nella missione di vivere con il minimo indispensabile e i pacchi di pasta, le passate e i pezzi di parmigiano che ci passavano le nostre mamme sottobanco, nonché di migliaia e migliaia di frittatine e pizze fritte che volavano nelle bocche di noi studentelli con la capa fresca e la casa proprio nelle traverse di via dei Tribunali. Insomma un giorno lasciai Castellammare, la lasciai con la mente e in parte anche con il cuore, perché da allora il mio cuore si riempì di Napoli.

Da allora è iniziata la mia vita, si sono susseguite esperienze, insegnamenti, consapevolezze e diversi lavori. Intorno ai 25 anni mi sentivo perfettamente integrata nell’ambiente del Conservatorio, avevo tanti amici che passavano intere giornate a studiare nelle aule adiacenti alla mia, e con le quali si condividevano infiniti caffè e risate ma anche paure ed esperienze. Fu nei giorni in cui, nel 2007, decidemmo di occupare il Conservatorio, quelli in cui vivemmo per almeno 15 giorni tra quelle storiche e a volte un po’ spettrali mura, passando giorno e notte insieme, che presi la decisione di lasciare l’Università. Portare avanti le due cose era diventato snervante e sentivo di non appartenere a quell’ambiente universitario nel quale non ero riuscita a farmi degli amici e ad appassionarmi.

Nonostante la delusione che lessi negli occhi dei miei genitori, il giorno in cui comunicai la mia decisione, ancora oggi penso che sia stata la cosa giusta per me in quel momento, perché fu come una liberazione, mi riappropriai di ciò che ero e di ciò che volevo essere. Da allora ebbi più tempo da dedicare ai miei studi e ai lavori che spesso grazie alla musica riuscivano a farmi pagare l’affitto (e le pizze fritte). Man mano che progredivo cominciai a suonare in diversi ambiti, con il mio ensemble di arpe e percussioni, gli An Arperc, a fare i primi matrimoni, e diverse varie esperienze, anche in orchestra,  sicuramente poco retribuite ma molto importanti per me che ero soltanto agli inizi. Oltre a questo, tra i lavori che ho fatto c’è stata prima una piccola scuola di musica a Positano dove andavo nei fine settimana, dove seguivo principalmente i bambini in una fase propedeutica.

Più avanti ho lavorato all’Orto Botanico di Napoli al seguito di una compagnia teatrale, ancora oggi attiva, che mette in scena stupende favole che, narrando la storia in maniera itinerante guidava i bambini tra i sentieri e le diverse ambientazioni dell’Orto. Il mio ruolo era guidare i gruppi, non aveva a che fare con la musica, ma mi piaceva molto lavorare ogni giorno all’aria aperta nello stupendo Orto Botanico di Napoli e con alcune delle mie migliori amiche. Restai lì per due anni. Quasi contemporaneamente insegnavo arpa in una piccola accademia privata che si trovava nei pressi del Conservatorio per la quale periodicamente mi capitava anche di suonare, questa fu la mia prima esperienza di insegnamento dello strumento e ancora oggi devo ringraziare quelle alunne che furono un po’ le mie piccole “cavie”.

Nel 2010, dopo innumerevoli esperienze, saggi, concerti, con non poche difficoltà, dubbi, incertezze, paure e vere e proprie lotte con me stessa, sono riuscita a diplomarmi in arpa, suonando, tra le altre cose, quello stesso brano ascoltato nella musicassetta trovata da mia madre quel giorno per caso e che aveva acceso in me quella scintilla. Dal 2010 al 2012 ho conseguito un ulteriore biennio di specializzazione al San Pietro a Majella di Napoli. Nello stesso anno sono stata ammessa ad un triennio di specializzazione per l’insegnamento dello strumento musicale presso il Conservatorio Perosi di Campobasso mentre contemporaneamente facevo le mie prime esperienze da docente di strumento musicale in diverse scuole secondarie di Napoli e provincia. Dopo questi ulteriori tre anni di studi, un ulteriore anno di corso specializzazione per il sostegno frequentato e conseguito presso l’Universita Suor Orsola Benincasa di Napoli, diversi concorsi in regione e fuori regione, e 9 anni di precariato dopo, sono stata assunta a tempo indeterminato come docente di Arpa in una scuola secondaria di primo grado della provincia di Salerno. Insomma un bel viaggio, durante il quale ho continuato a fare esperienze in qualità di musicista, anche presso il Conservatorio di Campobasso.

Fare l’arpista è un lavoro duro, nel senso che oltre alla disciplina nello studio e tutto ciò che vale per qualsiasi altro strumento, bisogna essere persone toste e devi essere sempre spinta da tanta determinazione. Non perché sia il mio, l’arpa è indubbiamente lo strumento più bello del mondo ma anche forse quello tra i più problematici. Quando lo scegli influenza tutto della tua vita, dall’auto che scegli, necessariamente una Station Wagon, alla casa in cui vivi, che non deve avere barriere architettoniche e deve essere sufficientemente spaziosa per i tuoi strumenti. Devi risparmiare molto e fare tante rinunce per poter acquistare un’arpa, devi avere una grande pazienza, per accordarla o per scarrozzare i suoi 30 Kg a destra e a manca, salire e scendere gradinate sotto il sole, imparare l’arte del carico e scarico e riuscire a dare sempre risposte gentili a tutti i vecchietti che a fine serata, quando vorresti solo tornare a casa, si avvicinano e ti chiedono “signurì livateme na curiosità, ma comm funziona stu strument?”. Sì Vincenzo, ci vuole tanta pazienza e altrettanto amore.

La docente di arpa è il lavoro che svolgo tutt’oggi. Sin dalle prime esperienze in qualità di insegnante scoprii che avevo il potere di aprire un mondo a dei ragazzini che, diversamente da me, che l’avevo avuta da sempre vicino alla culla, non sapevano nemmeno cosa fosse un’arpa. Riuscivo a generare meraviglia, e capii che avevo il potere di innescare quella scintilla, come era accaduto a me. Avevo la possibilità di stimolare parti della loro sensibilità spesso sopite, di aprirgli le orecchie, insegnargli ad ascoltare cose alle quali prima non facevano nemmeno caso, a fargli scoprire  che, e suonerà strano, possedevano 10 dita e che, beh, ognuna di loro aveva un ruolo, doveva eseguire un determinato movimento, una disciplina. una gerarchia. Alcuni miei alunni negli anni hanno proseguito i loro studi in ambito musicale, qualcuno è arrivato anche al Conservatorio, ma la cosa che più mi piace pensare è di aver aperto una porticina dentro di loro, l’attenzione verso qualcosa della quale, anche se in un breve periodo, hanno fatto parte.

La magia dell’orchestra, l’emozione mista a paura prima di un’esibizione, la concentrazione e l’adrenalina che fatica ad andare via dopo il concerto, sono emozioni impagabili che forse la musica e poche altre cose riescono a darti. Queste sono le emozioni che mi accompagnano ogni volta che suono, anche se a dirla tutta,  le ansie da prestazione sono state per me a volte delle vere e proprie montagne da scalare, una lotta con me stessa che ancora continua e chissà se mi lascerà mai. Nonostante questo, non cambierei mai la strada che ho scelto perché per me la musica è quel mondo che riesce ad essere solo mio, quel piccolo luogo intimo nel quale nessuno può giudicarmi, nel quale riverso i miei pensieri buoni e cattivi e quelle emozioni che hanno bisogno di uscire fuori quando nessuno mi vede. La musica mi ha regalato amici, viaggi, esperienze, una profonda conoscenza di me stessa, mi regala emozioni fortissime che non credo sarei stata in grado di vivere in un’altra vita, in una lotta perenne fra odio e amore verso il mio strumento che in un modo o nell’altro finisco sempre per perdonare.

Alla fine, non so dire se quello che ho fatto e che faccio possa contare qualcosa nel mondo, ma tante volte mi è capitato di vivere giornate frenetiche, trascorrere notti insonni, avere paura di non essere all’altezza o di aver fatto il passo più lungo della gamba, di credere fermamente in qualcosa, di svegliarmi una mattina e chiedermi “ma chi me lo ha fatto fare”, di dover chiedere aiuto, di correre, correre ogni giorno, ma ci sono stati giorni in cui per un attimo mi sono fermata, mi sono guardata intorno e mi sono detta: “cavolo, sono stata io a fare tutte queste cose”, e pensandolo ci sono state volte in cui mi sono sentita veramente felice. Ecco, è questa la ragione per cui mi alzo ogni mattina, questo è per  me il lavoro ben fatto.

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1. Piccola intervista che mi fecero insieme ad altri studenti del Conservatorio
2. Uno dei concerti più belli a cui abbia partecipato negli anni del Conservatorio
3. Concerto con la Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli
4. Il mio ensemble di arpe
5. Un concerto con il mio gruppo
6. Un lavoro che ho realizzato a scuola in tempi di pandemia