Il filo di Stella

PRIMA PUNTATA
GIOVEDÌ 30 LUGLIO 2020

“Se devo ricordare un primissimo impatto con il lavoro quando ero piccola ho un fotogramma, è il fotogramma di mia mamma che cuciva le scarpe, d’estate, e io l’aiutavo. Vedi Vincenzo, se io ti avessi risposto di botto ti avrei detto che non ho mai lavorato da piccola, invece adesso che mi hai fatto questa domanda io sono tornata indietro nel tempo e mi è venuto questo fotogramma. Ecco, a pensarci adesso mi viene da dire che le donne di Caselle oltre a fare le mamme e le casalinghe o andavano a Battipaglia per fare le braccianti, a raccogliere fragole o pomodori, oppure cucivano scarpe in casa per conto delle piccole aziende che operavano sul territorio. Ricordo che era un lavoro molto impegnativo, anche dal punto di vista fisico. Mia mamma lo faceva, quindi prima ho sbagliato dicendo che non lavorava.”

Caro Diario, non lo so perché non ho cominciato dall’inizio, o forse sì, comunque adesso rimedio, riavvolgo il nastro e riparto dal principio, dalle parole con cui Stella si presenta sul suo sito alla voce chi sono, che sono belle e semplici: “Sono Stella Salomone, vivo a #CIP, Caselle in Pittari, sono la designer tessile di Greeneed intrecci. La materia tessile è un intreccio di colori e forme. Svariate, infinite, combinazioni di fili e colori danno risultati estremamente differenti. Amo i tessuti e i fiori. Amo leggere e dipingere, soprattutto amo i gatti neri. Amo circondarmi di bellezza, e se in sottofondo c’è della buona musica, ancora meglio. Ho l’ambizione  di creare armonia a livello cognitivo ed emozionale, per me e per le persone che fanno un pezzo di strada con me. Credo nella forza della vita e nelle metamorfosi.”

A Greeneed Intrecci sono tornato spesso in queste settimane, ci sono stato con Cinzia, con Luca e lo scorso lunedì con il Mac. Sì, sì, la chiacchierata mi è piaciuta un sacco, Stella ha pubblicato sul suo profilo Instagram due foto insieme a questi brevi pensieri: “Questa settimana io e Vincenzo l’abbiamo iniziata parlando di lavoro e di vita. Abbiamo parlato, e parlando parlando ci siamo emozionati raccontandoci. Parlando ancora, poi, abbiamo anche riso molto. È molto bello iniziare la settimana ridendo e raccontandosi parlando di lavoro.

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Ti confesso una cosa, il laboratorio è un luogo magico, però me ne sono accorto da poco, la volta che ci sono andato con Luca, non lo so perché, forse pure la bellezza come l’essenziale è invisibile agli occhi, o comunque non la puoi vedere soltanto con gli occhi, oppure perché come diceva zia Concetta, la sorella più grande di papà, detta “ciuccio di fuoco” e poi anche “highlander”, “quando i figli si fanno grandi diventano parenti laschi” e insomma stare qualche giorno con Luca, o anche con Riccardo, è diventato un privilegio raro. No, non credo che c’entri il regalo che ci ha fatto Stella, che è stupendo, il logo di #lavorobenfatto ricamato a mano su un pezzo di canapa antica, ma magari ha contribuito anche quello a riempire di bellezza il mio cuore, come faccio a escluderlo.

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Ritorno al punto, cioè a Stella e al suo racconto, a quello che pensa e che fa.
Per cominciare ascolta il podcast, si intitola L’albero degli intrecci, è un progetto che ha realizzato con Laura Sini.


 
Fatto? Molto bene! Adesso continua a restare prigioniero dalla sua voce mentre guardi il video, c’è la prima parte del suo racconto, il resto poi arriva.

 
Come dici amico Diario? Cosa vuol dire il resto poi arriva? Vuol dire che con Stella ho deciso di inauguare un nuovo format, che si aggiunge agli altri tre, il racconto a puntate.
È inutile che protesti, lo so che non sono Charles Dickens e che non sto scrivendo la storia di Oliver Twist, ognuno ha le sue storie, e visto che mi provochi ti dico che io le mie, naturalmente come storytelling non come letteratura, non le cambio con nessuno.
Facciamo così, prima di lasciarti ti posto ancora una foto, racconta il lavoro di tesi di Stella, quello che fa da copertina alla sua storia, per la seconda puntata ci sentiamo il prossimo giovedì, non lo so ancora quante puntate sono, diciamo minimo tre e massimo cinque, ma non essere impaziente, ti assicuro che le settimane passeranno in fretta.

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SECONDA PUNTATA
GIOVEDÌ 6 AGOSTO 2020

Caro Diario non vedevo l’ora. Sì, non vedevo l’ora che venisse giovedì per pubblicare la seconda parte della storia di Stella.
Questa settimana saranno le sue parole e la sua voce ad accompagnarci, di mio ti dico solo che tiene ragione Eraclito, il carattere è il destino. A proposito, non mi ricordo se te l’ho detto già che Stella e io condividiamo una passione sfegatata per Il codice dell’anima, il libro di Hillman, per quanto riguarda me è lì che ho incontrato la frase di Eraclito, e anche un’altra di Jung che adoro, chissà Stella, “in ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata”.
Ecco, con questo mi zittisco, la parola passa a Stella, buona lettura e buon ascolto.

“Vincenzo, ma secondo te si può essere inquadrata, precisa, però in realtà nel proprio intimo essere molto disordinata? Sono contento che fai sì con la testa, perché io sono proprio così, porto con me questo dualismo. Mi accade anche quando lavoro: quello che tiro fuori alla fine è sempre qualcosa di molto ordinato, lineare, mi piace la speculari nel mio lavoro, però poi, nel corso del processo, quando sono veramente io, sono un’altra, molto più complessa e disordinata.
Da piccola ruotavo intorno a due figure femminili, mia nonna, Letizia, e mia mamma, Velia. Poi naturalmente c’era mio padre.
Mia madre era casalinga, dal suo lato non ho vissuto il lavoro nel senso canonico, quello di chi esce la mattina e torna la sera.
Spero che tu non mi consideri strana, ma io lo vedevo come un gap, non lo consideravo un fatto positivo. Sì, avrei voluto che mamma lavorasse, anche quando ero piccola, non te lo so dire perché. Probabilmente, ma ci ho pensato dopo, volevo una mamma che si fosse realizzata nel lavoro, forse avvertivo una sua qualche sofferenza per il fatto che non lavorava, che non si sentisse realizzata dal punto di vista lavorativo.
Ad ogni modo io e mia sorella Letizia, di un anno più grande di me, siamo cresciute con l’idea che dovessimo lavorare a tutti i costi, in pratica l’idea del lavoro come componente del nostro futuro era inculcato nelle nostre teste già da piccole come un qualcosa di assolutamente importante.
Oltre a me e a mia sorella c’è anche un fratello, di dieci anni più piccolo di noi. Io e mia sorella siamo cresciute assieme, quasi come due gemelle, nonostante le differenze sia personali che dei nostri percorsi. Mio fratello invece è molto diverso da noi, lui è cresciuto molto di più con nostro padre.
Papà era una persona di grande sensibilità, anche verso la natura, nonostante fosse un cacciatore. Lavorava nel pubblico, faceva il capo cantiere nella comunità montana. Anche mio nonno paterno, che era il capostipite della famiglia in cui sono nata, lavorava nel pubblico, era guardia campestre qui a Caselle. Insomma il lavoro da cui assorbivo il mio apparato valoriate era lavoro pubblico, non era il lavoro del contadino, non era un lavoro di fatica, o comunque non passava il concetto di lavoro uguale fatica, piuttosto lavoro uguale benessere, la possibilità di stare bene. Ho respirato questo tipo di aria quando in casa si parlava di lavoro.

Il mio primissimo impatto con il lavoro è quello con cui hai hai voluto cominciare la prima puntata di questa storia, non capisco bene perché.
Come ti ho detto, mi sbagliavo dicendo che mia madre non lavorava, aggiungo che quando era in affanno, io l’aiutavo.
Ricordo che cucivo a mano con un ago grosso, naturalmente lo vivevo come un gioco, ma in realtà seguivo i gesti che faceva mia madre, c’erano già i buchi e bisognava passarci il filo. È un lavoro che si fa ancora oggi ma per fortuna in maniera regolare. Potrebbe essere pure quello il filo che mi ha portato qui, a Greeneed, non lo so, ma su questo ci ritorniamo più avanti.

Non ho fatto altri lavori prima della laurea, però avrei voluto farli. Nostro padre non diceva apertamente non dovete lavorare, lo diceva in altri modi non verbali, insomma ce lo impediva in modo sottile, comunque come ti ho detto neanche a Firenze durante gli studi ho lavorato. Alla fine anche il processo che mi ha portato qui, adesso, ha delle caratteristiche abbastanza particolari.

Ho sempre amato il disegno, un amore che nasce come molte altre cose in casa, nell’ambito del nucleo famigliare. 
Nostro padre andava a letto molto tardi, la notte disegnava, sempre lo stesso paesaggio, un solo, un paesaggio alpino, non so da dove gli uscisse, forse andava analizzato questo suo disegno.
Faceva questa baita nelle montagne, una vallata e le montagne, con questi pini, pini e baita. Quando io e mia sorella andavamo a letto la sera sapevamo che papà disegnava durante la notte e la mattina quando ci svegliavamo, tutte le mattine, trovavamo sul caminetto questo disegno. Quindi diciamo che il disegno lo abbiamo un po’ respirato.
Mia sorella maggiore ha cominciato a disegnare e io ho cominciato dopo di lei per emulazione.

Dopo le scuole medie ho fatto il liceo scientifico, non lo so perché lo scelsi, in realtà per me è stato una sofferenza, però avevo scelto quel percorso e lo dovevo seguire, per me non c’erano altre vie. Avendolo scelto, ci potevo morire dentro il liceo scientifico ma lo dovevo finire, sono fatta così.
Una volta finito, ti giuro che non mi sembrava vero di aver chiuso con quella pena, mi sono detta no, devo fare qualche cosa di creativo, all’epoca pensavo di voler fare qualcosa come design, grafica pubblicitaria.
Intanto mia sorella era andata a Firenze a studiare e così mi dico va bene, adesso provo pure io lì. Ricordo che feci una ricerca e c’era un corso di laurea di Moda alla Facoltà di Architettura, però si doveva superare un test, e si diceva che questo test non lo superava nessuno.
Questo fatto che nessuno lo superasse mi attirava come le caramelle, così mi dissi vabbè, adesso ci vado tanto non lo so supero nemmeno io, anche se dentro di me lo sapevo che l’avrei superato. Ero spavalda, avevo la forza dei miei 19 anni, della serie arrivo io e li spiazzo.
Mentre facevo questo test, avevo da poco cominciato a disegnare, venne un professore e mi disse guardi lei non è adatta per fare modelli di moda, però è adattissima per fare tessuti.
Non è che gli diedi troppa importanza, e invece mi presero al corso di disegnatrice di tessuti. Ricordo che all’epoca non sapevo neanche che esistesse questa cosa, era fuori da ogni mio orizzonte, però mi fidai di questo professore che mi aveva detto anche un’altra cosa curiosa quando vide il mio nome, Stella Salomone, una cosa tipo “che nome strano”, ricordo che chiesi “perché” e lui mi chiese a sua volta se i miei genitori erano dei massoni.
“E che ne so”, fu la mia risposta, “non penso”. E a quel punto lui mi fece tutto un discorso sulla stella di David, sulla stella di Salomone, e anni dopo ho scoperto che a Firenze ho dormito per 5 anni sotto la stella di David che è sul rosone della chiesa di Santa Croce.

Vincenzo, in qualche modo questo professore mi aveva indicato la strada. Ricordo che mi dissi va bene, ci provo, comincio, alla fine in questo test in cui non prendevano nessuno mi hanno preso. Mi ero data sei mesi, poi ci sono restata perché in quel lasso di tempo mi sono resa conto che c’era della sostanza in quello che studiavo.
Il mio primo primo impatto con il percorso universitario fu con una vecchiettina che in realtà era una grandissima luminare di tessitura, che si chiama Graziella Guidotti, è stata lei che ci ha fatto il primissimo corso di tessitura.
Ricordo che prese un filo in mano e ci fece vedere che cosa era un filo. È stato proprio lì che mi ha agganciato, che si è creato il link. Nonostante fossi una ragazzina di 19 anni che sapeva poco della vita, avvertii qualcosa, sentii che sotto quel filo c’era qualcosa, qualcosa che mi legava. 
Sì Vincenzo, altro che vecchiettina, quella era una donna che aveva sostanza, che aveva identità, che aveva radici, aveva la rarica che viene fuori qui a #Cip quando parliamo di filiera del grano. Insomma mi sono fatta prendere, mi sono fatta agganciare, è lì che è partita la mia curiosità, fu lì che mi resi conto che avevo i tessuti addosso da una vita e non mi ero mai chiesta “che cos’è quello che ho addosso”.
Certo, vedevo la forma estetica, avevo un fortissimo senso estetico già da giovane, da piccolissima, quando ho visto quella signora che teneva il filo in mano avevo già un forte senso estetico, avevo già la mia base naturale, però non mi facevo le domande giuste, è stata quella signora lì che ha cominciato a farmele fare. È stato quello il mio primo link con la tessitura, sono nati lì i miei primi intrecci con i fili.

Dopo lo studio, la tesi, e anche lì è stato importante l’incontro, molto importante e bello, con una professoressa calabrese che era una donna che aveva dato tutto per l’insegnamento.
Anche questa volta ci siamo conosciuti per una sfida, all’epoca prendevo molto le cose di petto, oggi non sono più così, ma in quegli anni si.
Accadde durante il mio primo corso di disegno, io ero molto sicura della mia mano nel disegno, invece questa professoressa mi distrusse subito.
Devi sapere che ho fatto un corso lunghissimo con lei, annuale, disegnavamo tutti i venerdì giornate intere, con lei che mi diceva sempre che dovevo dare di più, probabilmente aveva capito che ero brava a disegnare ma non voleva che mi adagiassi. In pratica mi pressava, mi pressava tanto. Ho fatto il mio primo esame con lei e mi ha messo 29.
Mamma mia quel 29 Vincenzo, pensa che stavo quasi dicendo non l’accetto, pensa alla mia arroganza. Lei capì che io mi ero risentita di quel 29; volevo 30, il massimo, perché non me lo aveva dato? In realtà dandomi il 29 mi ha legata a lei, perché poi non l’ho mai lasciata, ho fatto la tesi con lei, e a quel punto per la tesi mi ha dato il massimo, però ci sono voluti 3 anni per farmelo dare il massimo.

Il lavoro di tesi è stato molto interessante, ho fatto una tesi sulla street art, sui graffiti, sui tag, su quelli che scrivono il proprio nome. Ho fatto uno studio su Keith Haring, un’artista newyorkese. La cosa particolare è che ho fatto tutta una progettazione tessile legandomi a un altro luogo molto importante per quanto riguarda la tessitura a Firenze, la Fondazione Fondazione Arte della Seta Lisio. Sono andata lì, in un posto dove si fanno tessuti d’arte vecchio stile, per esempio con il filo d’oro, proponendogli un lavoro sulla street art. All’inizio per loro non era una gran cosa, però lì ci stanno persone molto intelligenti, persone che hanno un’intelligenza dinamica, insomma molto presto hanno visto che era una bella cosa da fare e me l’hanno fatta fare. Quindi la mia progettazione tessile della tesi, l’ho tessuta manualmente lì da loro, e ti assicuro che è stata una cosa molto bella.

Greeneed nasce perché dopo la tesi il mio binario mi ha portato in un ufficio tessile, in un ufficio stile, di un marchio famoso. In realtà dopo la laurea avevo seguito l’iter classico, invio di cv e cose così, solo che dopo mezzora mi risposero, mezzora, e così mi ritrovai a fare l’assistente di una persona che sceglieva le stoffe.
Lì però il mio percorso di vita era già un po’ cambiato, perché l’arrogante dei 19 anni aveva preso un poco di consapevolezza, forse è per questo che non sopporto gli arroganti, perché io stessa lo sono stata.

Siamo arrivati così all’anno di grazia 2009, dopo aver passato sei mesi nell’ufficio stile di cui parlavo, avevo maturato una consapevolezza maggiore sul mio ruolo di responsabilità per quando riguarda le scelte che potessero rendere i miei giorni più felici.
Capii che nonostante fossi quotidianamente a contatto con il lavoro che avevo sempre sognato, nonostante toccassi le più svariate stoffe che potesse offrire l’industria tessile, quel mondo non mi bastava. Non mi bastava non perché non riuscissi ad esprimermi, non mi bastava perché li non mi riconoscevo, non mo riconoscevo in quello che mi ruotava intorno, non ritrovavo quel qualcosa che mi parlasse dei valori nei quali volevo credere e nei quali potermi identificare pienamente e sentirmi veramente io.
Ero in affanno e  l’Amore mi venne in aiuto. L’Amore fu la scintilla che mi diede il coraggio di cominciare con un solo passo il ritorno a me.
Solo oggi so quanto quei piccoli gesti in convergenza e quella conoscenza mi stessero riconducendo a casa, non la casa materiale apparente, ma la mia casa dell’anima. Ma questo solo oggi, appunto, posso comprenderlo pienamente. Dopo poco più di dodici giri intorno al sole.
Tornata a Caselle capii quanto la tessitura avesse permeato anche le vite delle donne che mi precedevano. Sì Vincenzo, la tessitura che avevo studiato in Toscana era presente anche qui nella mia terra.
Cominciai ad informarmi e a chiedere alle donne anziane del mio paese come intrecciassero i loro tessuti.
Mi raccontarono come coltivavano personalmente il lino che sarebbe diventato tutto il loro corredo. Potevo leggere nei loro sguardi l’orgoglio misto alla fatica che ci voleva per portare a filo un piccolo seme. Cominciai a raccogliere materiale e lo conservai gelosamente in un mio personalissimo database emozionale che tirai fuori pian piano nella progettazione materiale di Greeneed Intrecci.
Cominciai a scrivere il concept di Greeneed Intrecci perché volli partecipare ad un bando europeo destinato a giovani imprenditori che volevano mettere a frutto le proprie competenze in questo angolo di sud.
Partecipai e fui scelta, il mio sogno fu scelto.
Quando il laboratorio venne costruito e tutto fu pronto per le lavorazioni il mio processo creativo si fermò, restai in un limbo per ben cinque anni. Nel frattempo diventai moglie, ma soprattutto madre, dimenticandomi giorno dopo giorno del mio sogno.
Il mio sogno, però, durante quegli anni non si era dimenticato di me, silenziosamente, se ne stava ad aspettarmi come rannicchiato in un angolo, come se lo sapesse che prima o poi sarei ritornata.
Quando tutto intorno a me aveva smesso di funzionare, quando tutto si scioglieva come neve al sole, in una notte insonne il sogno ribussò alla mia porta e mi sussurrò di riannodare il filo e di continuare a seguirlo.
Decisi di affidarmi. Di affidarmi ancora. Ed ecco che ora sono qui che timidamente comincio a riannodare il filo.”


 
TERZA PUNTATA
GIOVEDÌ 13 AGOSTO 2020

Caro Diario, per la terza puntata della nostra storia ho chiesto a Stella di raccontare con le immagini e con le parole il suo fare, che poi come sai è anche il pensare, e il testo e il video che puoi leggere, guardare e ascoltare sono il risultato del suo lavoro. Quello che penso io te lo dirò alla fine, sarà l’ultima puntata del nostro racconto, intanto tu segui Stella nel suo racconto.

“Caro Vincenzo, ho pensato di infilare immagini l’una dietro l’altra per raccontare la nascita del prodotto a cui tengo maggiormente.
Il cuscino sensoriale Greeneed Intrecci è un cuscino prodotto totalmente nel laboratorio che abito. Dapprima si scelgono i filati e i colori di collezione, successivamente si passa alla realizzazione. Si tessono grafismi piazzati utili a rappresentare un rapporto di disegno utile all’utilizzo finale. I tessuti vengono realizzati manualmente con telai a licci prodotti artigianalmente. Il tessuto “sceso da telaio” viene accoppiato e cucito affinchè possa divenire una sacca, dunque un cuscino. L’imbottitura è costituita da pula di farro e fiori di lavanda essiccati. Il risultato è un cuscino sensoriale dall’alto valore simbolico. In un prodotto è racchiuso tutto il sole che è servito per imbiondire la spiga di farro e la pula che accoglie i suoi chicchi, tutta la serenità che scaturisce dall’odore dei fiori di lavanda essiccati. Tutto questo racchiuso in un involucro tessile, pensato, amato e tessuto a #CIP, nel mio laboratorio.
Spero che il video ti piaccia. Ho scelto i suoni del mio fare come colonna sonora.”

 
QUARTA PUNTATA
GIOVEDÌ 20 AGOSTO 2020

Caro Diario, quando ieri al laboratorio ho visto il disegno di Stella mi sono emozionato assai. Ero con Cinzia in compagnia di Marilena e Gabriele, due nostri amici che sono venuti a trovarci, e l’ho detto anche a loro, la richiesta che avevo fatta a Stella era parecchio strana e complicata, raccontare con un disegno la sua vita fin qui, ma lei dal primo momento mi ha preso sul serio, sono settimane che ci pensa, e ieri l’ha tirato fuori dalla sua mano, dalla sua testa e dal suo cuore, lo puoi vedere in copertina.
Con Stella per ora abbiamo deciso di pubblicarlo senza parole, di lasciare a chi ha letto, ascoltato, guardato la sua storia, e a chi lo farà, la libertà di scoprirlo, leggerlo e interpretarlo, come diceva mio padre certe volte “a meglia parola è chella ca nun se dice”.
Mi resta da aggiungere una sola cosa, il disegno si legge da destra a sinistra. Ti riscrivo giovedì prossimo per raccontarti il processo e il senso di questa storia.

Seguito della Quarta Puntata
Caro Diario, con Stella abbiamo pensato che sarebbe stato bello avere un feedback sul disegno da parte delle lettrici e dei lettori, una propria interpretazione, un proprio racconto, e così lo abbiamo scritto sui social, sottolineando l’importanza di farlo dopo aver letto, ascoltato e guardato la storia ma aggiungendo anche che si accettavano anche intuizioni, sensazioni, piccole visioni e ispirazioni susiscitate dal disegno stesso, che come sai va “letto” da destra a sinistra. Le risposte che sono arrivate fin qui le puoi leggere di seguito:

Daniela Romanelli
Una pergamena, un pezzo di impronta, le radici e l’estensione vegetativa, una candela che avvolge con la calda fiammella, una donna pudica ancora non libera, una stella che non è cometa ma luce fissa. Tratti morbidi, tondi, per nulla spigolosi.Leggo tanti simbolismi, desiderio di qualche mutamento. Espressione di grande comunicazione, bravissima Stella.

Cecilia Landi
Io vedo le colline come tanti seni che ricordano la madre, il ritorno alla terra della propria infanzia. Il disegno mi ha fatto pensare a Cesare Pavese e al suo concetto di terra-madre. La ragazza a sinistra sembra voler scappare dalle proprie origini, ma la terra la trattiene. Buon lavoro Stella.

Loredana Cedrola
La cura! I colli, che potrebbero essere seni oppure grembi, appaiono come custodi di tante piccole larve che stanno per trasformarsi in farfalle. Ci vedo la cura e il nutrimento.

Silva Giromini
Stella è una donna cresciuta in seno a una famiglia di sani valori, guidata dal ricordo di un padre che le ha insegnato l’amore per la vita e il disegno. In lei arde il fuoco della creatività che oggi esprime con una cascata di idee e realizzazioni. Il filo e l’arte, gli intrecci perfezionati nella lontana Firenze le permettono oggi di vivere il suo sogno ritornata nel suo paese natale. Il rosso cupo e il blu sono i colori del sangue che scorre nelle arterie e nelle vene: passione e amore per la vita.
Se posso aggiungere una cosa, scriverei anche questo: il fatto che il disegno di Stella vada “letto” da destra a sinistra indica il suo andare controcorrente: avrebbe potuto scegliere di lavorare in grandi città, invece ha deciso di tornare nel suo piccolo paese, #Cip, dove le occasioni sono ristrette, ma la qualità del suo lavoro e la determinazione le daranno le soddisfazioni che merita.

Laura Ressa
La lettura da destra a sinistra del disegno mi ricorda il gesto di srotolare il filo dal rocchetto: la parte con cui il filo ha inizio è quella che tiriamo via dal rocchetto per ultima, quella attaccata alla base. Nella parte di destra del disegno io vedo tutto il simbolismo delle radici da cui proveniamo: alberi ben piantati nel terreno (tre, forse a indicare tre persone fondamentali) una casa da cui parte il tragitto tracciato con una linea curva, il seno accogliente di una madre, una pergamena che si srotola (anche quella da destra a sinistra). Sembra di vedere in immagini il “c’era una volta” delle favole. Dalla pergamena arrotolata, in basso a destra, parte anche un filo che è presente in tutto il disegno ed è una costante: per me rappresenta il sogno di Stella (presente sempre sottotraccia e motivo portante della sua vita). Quel filo somiglia a un cordone, quasi un cordone ombelicale che termina come il filo che Stella realizza per il suo cuscino sensoriale. Tutte le forme tonde ricordano anche a me grembi materni ma anche bachi da seta. Nel secondo rigonfiamento, quello centrale, intravedo una sorgente d’acqua che però è ancora nascosta… forse il sogno di Stella che stenta a venir fuori. Resta lì, custodito nel riverbero d’acqua, in fondo in una sorta di vulcano spento. Un magma che non fa paura e non è diventato ancora fuoco. Vedo poi i quattro elementi: fuoco, aria, acqua, terra. Anche se la terra, dai colori, mi sembra l’elemento preponderante, forse a indicare proprio il grande attaccamento di Stella alla sua terra d’origine. L’acqua è negli elementi celesti, le sorgenti prima molto timide (solo una goccia sopita) diventano un ruscello zampillante che somiglia a un tessuto mosso dal vento. L’aria crea i movimenti, il passaggio delle tappe della vita da destra a sinistra. Il fuoco è la passione per il sogno di Stella che si riaccende ed è presente nella candela ma soprattutto nel cuore, rappresentato come il Sacro Cuore tipico della tradizione religiosa. Stella secondo me è la donna a sinistra nel disegno, rappresentata quasi come una dea della fertilità perché dopo essere diventata madre ha riscoperto anche un altro figlio: la sua passione innata per i tessuti. E i tessuti sono appunto quelli che la cingono e che lei conduce con sé verso nuove direzioni aiutata dalla forza delle radici, dal fuoco e da quella piuma che protegge il cuore e la passione per il suo lavoro. Al centro ha disegnato grandi radici, simbolo di quello che ha imparato dalla sua famiglia e dalla sua terra. In alto, oltre le radici ci sono le foglie che adesso sta raccogliendo dopo anni di semina. La figura di Stella sembra quasi voler uscire dal disegno, un suo piede è fuori dall’ovale che ha disegnato. Quell’ovale mi ricorda la tavolozza di un pittore, o forse per lei è il telaio tondo da ricamo. In definitiva, nella parte a sinistra, Stella finalmente comincia a cucire il suo futuro, a farlo su misura, a cucirselo addosso: mettendo se stessa, le radici che la sostengono, la sua vita, il cuore e la delicatezza della piuma per saper affrontare con dolcezza le vicissitudini e le sfide della vita. Non troppo vicina alla candela per evitare di bruciarsi.
P.S.
Per dirla alla Pierangelo Bertoli “Con un piede nel passato, e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”. Stella però si rappresenta con lo sguardo al passato ma il piede pronto a compiere il passo verso il futuro.

QUINTA PUNTATA
GIOVEDÌ 27 AGOSTO 2020

Caro Diario, sono stato facile profeta, il tempo del racconto se n’è andato in fretta.
Ti avevo detto che la storia di Stella sarebbe durata da 3 a 5 settimane, come hai visto sono state 5, per ora, non sono del tutto sicuro che sia questa l’ultima.
Oggi ti racconto la mia storia nella storia, non proprio tutta, per quella ci vorrà più tempo, maggiore distanza, per adesso mi sono scelto 4 parole chiave, così non mi perdo, rimango sul punto, come diceva mio padre “ogne cosa pe’ bella che sia, quanno tira tropp’ a lluongo se fa brutta”.

La prima parola è racconto, e qui molto di quello che ti voglio dire lo trovi nel libro, in particolare nel capitolo Raccontare è giusto, e in questo post, si intitola L’importanza di raccontare il lavoro, e ho detto tutto, anzi no. Per incuriosirti ti lascio una frase tratta dal libro, una sola, eccola: “Provo a raccontarla come Joe in Per un pugno di dollari10: da un lato il lavoro come valore, identità, rispetto di sé e degli altri, dignità; dall’altro il lavoro come maestria, bellezza, merito; in mezzo la narrazione come pratica sociale condivisa che aiuta a radicare, diffondere, rendere virale il processo di cambiamento che intendiamo attivare.”

La seconda parola è sensemaking e definisce il processo che Stella e io abbiamo attivato nel momento in cui abbiamo deciso di raccontare la sua storia.
L’attività di costruzione di senso e significato (sensemaking) si è sviluppata almeno in tre direzioni:

1. La storia di Stella: i tempi, i modi, le caratteristiche con cui l’ha e l’abbiamo raccontata.
2. L’attività di narrazione e le sue molteplici relazioni: tra il narratore e l’attore, l’attrice in questo caso; tra la storia raccontata e i media utilizzati per raccontarla, la voce, la parola, il disegno, la fotografia, il video; tra il narratore, l’attore e gli attrezzi di lavoro: i file; i social; la macchina fotografica; il telaio; i colori; la matita.
3. Il mestiere di scrivere: la mia voglia di innovare, di sperimentare nuove strade per raccontare il lavoro, le persone, le comunità.

La terza parola è disruptive, che anche se non mi piace usare parole inglesi per ora non ne tengo un’altra per tenere insieme l’azione che perturba, che disturba, che è dirompente, sensazionale, per me inedita, mentre invece il racconto di Stella è nato, si è sviluppato, ha preso forma proprio così, lo abbiamo messo insieme a quattro mani pezzo dopo pezzo, parlando, confrontandoci, disubbidendo, prendendo iniziativa, rompendo più volte lo schema che solitamente contraddistingue il rapporto tra chi racconta e chi viene raccontato.
È un modello sicuramente complesso, per niente facile da replicare, richiede tempo, possibilità di incontro, definizione della storia nel corso dell’azione, grande disponibilità all’ascolto da parte del narratore e dell’attore, però è bello assai, ed ha risvolti creativi e narrativi molto interessanti.

L’ultima parola è emozione, che come puoi immaginare non è l’ultima. Emozione come l’emozione di conoscere un’amica molto di più e meglio di come la conoscevi prima, di scoprirla grazie al racconto, al processo del raccontare, al lavoro fatto insieme, all’attività del fare è pensare, è scritto proprio così, con l’accento, che tu che hai letto il libro lo sai che non è un refuso. Ma anche emozione come emozioni, la gioia, la meraviglia, la scoperta, talvolta l’incomprensione e il disappunto che vivi nel momento in cui la tua storia non la scrivi solo tu ma lo fai insieme alla persona che stai raccontando, proponendole un percorso, aggiustandolo per strada, inseguendo un equilibrio tra quello che tu cerchi dalla storia che racconti e quello che invece cerca, e talvolta scopre, chi quella storia te la sta raccontando.

Ecco, penso che è tutto, anzi no, ti devo dire ancora che intendo riprovarci, questa cosa della storia a puntate mi piace un sacco, e mi piace anche questa possibilità fatto di utilizzare nelle storie che racconto più media assieme. Per la verità ho già in mente una nuova possibilità, ne ho parlato con il mio amico Nicola Calabrò, lo vorrei accompagnare in uno dei suoi viaggi di lavoro a Singen e Gottmadingen, in Germania, a bordo del suo furgoncino, non mi ha detto di no, sarebbe una cosa di una settimana – dieci giorni, ogni giorno una puntata, racconterei il viaggio, il suo lavoro, i luoghi, le persone che incontriamo, secondo me potrebbe venirne fuori una bellissima storia, potremmo farlo per la primavera del 2021, c’è tempo per pensarci.

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