Caro Diario è arrivato un nuovo racconto citato, sono troppo contento, l’autrice è Laura Ressa, una di quelle persone così belle che quando entrano nella tua vita fai di tutto per non farle uscire più.
Non aggiungo altro, ti lascio alla lettura, insieme a te la leggo anche io, per questi racconti qua mi piace condividere con te questa emozione, leggi tu e leggo io, ancora un sospiro e vado.
1. Pablo Neruda, Siam Molti
Di tanti uomini che sono, che siamo, non posso trovare nessuno: mi si perdono sotto il vestito, sono andati in altre città.
Chi conosce fino in fondo se stesso? Forse nessuno. E questo spaventa, perché l’idea di vederci come un moto costante e in continuo cambiamento ci priva della sicurezza di poterci sempre aggrappare a qualcosa. Sembra che il cambiamento somigli per noi a un forte vento freddo che ci fa volare via.
Per tanto tempo ho vissuto cercando di accontentare chi avevo di fronte come se fosse un vento a decidere le mie sembianze. Non sempre mi chiedevo quanta importanza avesse la mia opinione di me: lasciavo che fossero gli altri a decidere chi fossi per loro. L’amica che non si lamenta, la figlia ubbidiente, la compagna di classe che non alza mai la voce o non interviene per paura di sbagliare, la tirocinante che ha tutto da imparare e nulla da insegnare, la dipendente che esegue le richieste.
Ho sempre avuto l’istinto di far bene le cose, inculcato dalla mia famiglia. C’è però anche un’altra costante in me: la voce che manca, quella che resta strozzata in gola. E quindi ho imparato a usare la scrittura per sciogliere quel groppo che non si snoda, per avere voce, anche per fare autoanalisi o per creare un legame con chi vive o ha vissuto le mie stesse esperienze.
La mia voce spesso si è persa nella folla, anche sul lavoro.
Un’altra costante è poi il controllo: non vorrei mai perderlo! Vorrei essere padrona e creatrice del mio destino. Il cambiamento di sé però risiede anche nell’inaspettato, nell’idea cioè di non poter decidere tutto quel che ci capita.
Se penso al lavoro nella mia vita, penso a una storia lunga e pratica che per me è cominciata molto prima rispetto ai miei amici di adolescenza.
Le mie prime esperienze lavorative risalgono al periodo subito dopo il diploma. Per alcuni anni lavorai al front desk e al contatto telefonico con le scuole superiori per un evento di orientamento universitario che si svolgeva ogni anno nella mia città, Bari. Poi ho lavorato come babysitter in tre famiglie diverse, in vari momenti della mia vita. La prima volta dopo il liceo, la seconda poco prima di terminare il corso di laurea in Psicologia, la terza a cavallo tra altre esperienze di lavoro e stage.
Alcuni miei coetanei non lavoravano nel periodo universitario, aspettavano di terminare gli studi per cercare con calma la propria strada. Del resto non sapevamo che le nostre sedute di laurea sarebbero coincise con l’avvento della crisi e forse alcuni di loro, forti di una situazione economica stabile, non si preoccupavano del dopo. Io però sentivo di dover lavorare, non perché il lavoro fosse per me qualcosa di romantico o nobilitante ma per potermi pagare le tasse universitarie o prendere una pizza fuori senza gravare sulle tasche di mia madre (eravamo una famiglia monoreddito).
All’università, tra agevolazioni per reddito familiare basso, borse di studio e rimborsi delle tasse, ho risparmiato parecchio e sono riuscita a contenere tantissimo i costi. Ricordo che per stampare la tesi specialistica, dato che i miei risparmi scarseggiavano in quel periodo, vendetti alcuni regali ricevuti per la mia prima comunione. Piccoli gioielli che non usavo mai.
Non vorrei sembrarvi la piccola fiammiferaia, ma se vi va di leggere ho raccontato parecchio di me e del mio rapporto con il denaro e il lavoro in un post su Frasivolanti: La paghetta non paga.
Terminati gli studi universitari in Psicologia dell’organizzazione e della comunicazione, trovai lavoro in un call center. Mi occupavo di indagini di mercato su vari prodotti e servizi: a volte le persone che chiamavo mi chiudevano il telefono in faccia e guadagnavo pochissimo, in alcune giornate neanche un euro se non portavo a termine nemmeno un’intervista. Lo sapevo, era previsto da contratto e accettai. Non fu un’esperienza entusiasmante, però non la rinnego e ne vado fiera: lì ho imparato alcune lezioni importanti.
Nel mentre mi iscrissi al Conservatorio, volevo studiare canto ma durai solo pochi mesi prima della rinuncia agli studi. Il mio problema era che volevo fare troppe cose e troppo in fretta, con la smania che il tempo mi rincorresse con la bava alla bocca come un cane rabbioso.
Le mie storie di lavoro si perdono tra colloqui e una marea di stage soprattutto nell’ambito risorse umane. Mi occupavo spesso di inserimento dati, selezione curriculum, colloqui di selezione, varie attività di back e front office, ma non di rado anche fotocopie, smistamento pacchi, affrancatura buste, spesso pure acquisto di caffè d’asporto e gomme da masticare per il capo come fosse una cosa dovuta. Lo racconto qui.
Tra tirocini universitari e professionalizzanti ne ho svolti in tutto 8, tra il 2008 e il 2015.
A un certo punto sembrava che il mio lavoro fosse diventato fare colloqui, cercare annunci e fare tirocini, tanto che avrei voluto scrivere sul documento “Professione: Tirocinante”.
Per circa un mese svolsi anche un periodo di prova come assistente in un asilo nido privato. Lavorai senza contratto, la prova per loro si basava su un accordo a voce. Percorrevo ogni giorno 10 km a piedi tra andata e ritorno per evitare di pagare l’abbonamento ai mezzi pubblici. Mi occupavo di badare ai bambini con varie mansioni, dal cambio pannolini ai giochi con colori a tempera e lego, dall’accompagnamento al lavaggio mani all’assistenza per farli mangiare in sala mensa. Quando i titolari mi diedero una parvenza di contratto scritto, dietro mia richiesta, mi ritrovai a leggere un pro-forma che non era una proposta di contratto ma una presa in giro. Non era specificata né la tipologia contrattuale né gli orari di lavoro.
Naturalmente abbandonai quel posto senza nemmeno ricevere compenso per il mese di “prova”. La cosa triste è che di luoghi del genere ne esistono tanti e probabilmente, nonostante eventuali denunce da parte dei lavoratori, sono realtà “imprenditoriali” che cadono sempre in piedi.
I periodi della mia vita non sono mai stati separati in stanze chiuse: il percorso che ho fatto è stato una contaminazione di eventi e non ho mai detto a me stessa a priori “no, questo non è il momento per farlo”. Valutavo di volta in volta se fosse il caso di perseguire una strada o più strade insieme.
La mia svolta arrivò nel 2014 quando, nell’ambito di un progetto rivolto ai “NEET” a cui mi candidai, fui chiamata due volte per un tirocinio a Torino: la prima volta rifiutai, la seconda accettai.
Per 6 mesi svolsi uno stage in un’agenzia per il lavoro e quella esperienza coincise con la scoperta della libertà, la curiosità verso una città nuova, la voglia di farcela da sola, la spinta a scoprire il mondo che mi camminava intorno.
In quel periodo presi il treno Torino-Parigi per la mia prima vacanza all’estero in solitaria.
Dopo quello stage, e dopo altri colloqui disastrosi a Torino, ne racconto uno qui, tornai a Bari per l’ennesimo tirocinio. A cui seguì un altro ancora e poi un periodo voucher finché non arrivò l’agognato contratto a tempo indeterminato come assistente marketing in un’azienda internazionale che produce software. Sono stata assunta a 29 anni e da quasi 5 anni lavoro lì.
Mi sono trovata nel posto giusto al momento giusto. Ma avevo anche seminato nel tempo arricchendo il mio curriculum e imparando davvero cosa vuol dire adattarsi a nuovi contesti ogni 6 mesi.
Per alcuni lavoratori “agili” forse sarà aberrante leggere la parola “indeterminato” come fosse uno dei punti d’approdo di un percorso. Io credo invece nella cosiddetta stabilità perché non la davo per scontata.
Non ho avuto lasciti, non ho ereditato proprietà. Nessuno mi ha pagato un MBA o un master di quelli che garantiscono un lavoro al termine del percorso, ho lavorato fuori con i miei mezzi, non ho ereditato attività aziendali di famiglia, si può dire che ho fatto molte meno esperienze dei miei coetanei ma che ho recuperato molte cose dopo. Con le mie forze, senza considerare mai nulla dovuto.
E questo non lo specifico per dire che sono meglio di chi invece ha colto queste opportunità, ma perché spero che la mia storia normale sia di aiuto, anche in minima parte, per le persone che partono da una condizione economicamente meno avvantaggiata e socialmente slegata dai giri “bene”.
Per me vale la regola del karma: se vali, prima o poi la tua occasione arriva. Ma devi saperla cogliere al volo e metterti in gioco anche in lavori che avresti preferito non fare.
2. Cesare Pavese, La luna e i Falò
L’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa.
Questa citazione di Pavese mi ricorda mia nonna e la storia della mia famiglia. Il mio compagno mi dice spesso “perché non parli di come è stato arrivare fin qui partendo dalle basi che avevi?
“
Ho sempre reputato poco interessante la mia storia professionale all’interno del mio contesto sociale e familiare. Stavolta provo a raccontarla.
Sono cresciuta con mia madre, mia nonna e mia sorella maggiore. La nostra condizione economica era modesta: la nonna percepiva una pensione irrisoria e mamma ci manteneva con uno stipendio che copriva le esigenze primarie ma che non ci concedeva viaggi o vacanze, un’auto e altri oggetti o esperienze che per altre famiglie sono scontate.
Nonostante avessimo tutto il necessario per vivere con dignità, ricordo che una mia professoressa del liceo un giorno, nel corridoio della scuola, mi “donò” una busta di indumenti vecchi che a lei non servivano più. In quel momento mi sentii umiliata, sebbene non glielo abbia detto, e nel tempo quella scena l’ho rivissuta quando qualcuno ha cercato di umiliarmi dietro un gesto che sembrerebbe altruista.
Torno a Pavese e all’ignorante che si conosce da come svolge il lavoro.
Mia nonna materna aveva frequentato la scuola fino alla terza elementare, da quel momento aveva deciso di non andarci più (stando a ciò che raccontava, le suore erano molto severe e la bacchettavano sulle mani). Nonna aveva cominciato a lavorare da bambina con i suoi genitori. Quando arrivò a Bari era sola, e doveva badare a mia madre piccolissima. Lavorò in una cantina, poi come guardiana in un cantiere di un palazzo in costruzione, infine come domestica per tutta la vita sino alla pensione.
Nonna non era una persona istruita, aveva vissuto la fame della guerra, come mamma Fiorentina (la madre di Vincenzo Moretti) e come molte altre persone del suo tempo mia nonna raccoglieva dal pavimento qualsiasi cibo le cadesse di mano, lo spolverava e lo mangiava. In gioventù non si concedeva spese per visite mediche, tanto che una volta si tirò da sola un dente in casa. In effetti perse tutti i denti molto presto e non mise nemmeno la dentiera. Ricordo le sue grandissime risate senza denti: nonna non sorrideva quasi mai ma quando capitava era per qualcosa che la faceva davvero tanto ridere.
Da lei ho imparato la tenacia e la costanza: il suo nome era proprio Costanza.
Ho imparato da lei che puoi essere ignorante perché non sei andato a scuola ma che la tua cultura, la tua etica e il tuo stare al mondo non dipendono da un diploma o da una laurea. Lei faceva bene il suo lavoro: che fossero le pulizie in casa di altri o in casa sua, che fosse la cena o il pranzo, che fosse la pulizia delle verdure o i suoi lavori a maglia, tutto andava fatto bene.
L’educazione che ha impartito a mia madre è stata molto severa e pragmatica. Mia madre doveva studiare, fare tutte le faccende di casa insieme a lei e in alcuni casi fu necessario, in quegli anni, che la aiutasse nelle case in cui nonna lavorava come donna delle pulizie, perché spesso non sapeva dove lasciarla.
Mia nonna è stata una delle persone migliori che ho conosciuto, non solo perché era mia nonna ma per la vita che ha fatto, quella vita che spesso non capivo. Per quel lavoro in cui spesso veniva umiliata, per la tenacia di crescere da sola una figlia, per la forza quasi genetica che l’ha portata ad attraversare la vita come fosse una gara olimpica senza applausi alla fine. Con la consapevolezza che le cose che fai le devi fare anche se non c’è nessuno che ti applaudirà.
Da una storia familiare umile e dignitosa, oggi raccogliamo i frutti e soprattutto l’idea che nessuno può definirti inferiore basandosi su ruoli o titoli.
3. Elias Canetti, La tortura delle mosche
Chi ha imparato abbastanza, non ha imparato niente.
Credo che questa frase calzi bene sui concetti di Manager e Leader.
Nel mio percorso professionale ho incontrato tanti tipi diversi di capo e tanti tipi diversi di collega. Questo mi ha aiutato a osservare le persone, senza la pretesa di poterle giudicare ma quantomeno di poter comprendere i meccanismi delle relazioni instaurate sul luogo di lavoro.
Credo che chi ricopre il ruolo di capo raramente sia cosciente di non aver imparato abbastanza. Il più delle volte pensa di essere bravo nel suo e di non necessitare di particolari miglioramenti nel proprio stile di gestione delle persone, e nelle proprie competenze tecniche o “umane” di relazione con gli altri.
Lo stage è un campo di prova in questo senso. Lo stagista spesso è quello che si assume le “rogne” che agli altri non va di affrontare. Non è un luogo comune: posso confermare che queste situazioni capitano e che sono sintomi di un stile manageriale poco avvezzo al cambiamento.
Penso che molti manager ignorino quanto potrebbero imparare se accettassero di non sentirsi arrivati, ma probabilmente il titolo “manager” fa cambiare il punto di vista. Diverso è lo stile da leader, che non ha bisogno di titoli e soprattutto impara sempre, si mette in gioco, ammette i propri errori, guarda le cose da punti di vista diversi, non mette inutili costrutti davanti alle proprie parole.
“Chi ha imparato abbastanza, non ha imparato niente” credo possa essere il mantra di tutti. Ci sprona a non dare mai per scontato le nostre conoscenze e competenze. Ma è una frase che di certo appenderei nell’ufficio di ogni manager, per ribadire il concetto che un titolo o un ruolo non fa di te una persona migliore di altre, e neanche migliore di come eri prima.
Serve studio, impegno, approfondimento, ricerca, empatia vera e anche l’umiltà vera di accettare l’idea che tu possa imparare molto anche dal “neoassunto”.
Sono idee che abbondano sulla bocca di molti. Ma chi li applica davvero questi concetti?
4. Manifesto del Lavoro Ben Fatto, Articolo 3
Ciò che va quasi bene, non va bene.
Con questa citazione racconto della mia ossessione per la perfezione. La mia ricerca di perfezione in quel che faccio è maniacale, e sto seguendo un percorso terapeutico per liberarmi di ciò che sta alla radice di questa ricerca spasmodica.
Naturalmente nel Manifesto del lavoro ben fatto il concetto di far bene non è legato alla perfezione ma all’impegno di fare le cose al massimo delle nostre possibilità a prescindere dal risultato, ché su quello ci possiamo sempre migliorare.
Ciò che a volte mi è mancato nel lavoro è stata la capacità di ridimensionare il mio fallimento. Per me qualsiasi cosa accada lascia un’impronta: che si tratti di un compito che non ha portato i risultati che volevo o del rapporto con i colleghi, per me ogni evento è motivo di conferma o disconferma della mia autoefficacia.
Quel che voglio imparare invece è essere consapevole della mia efficacia, essere fiera del mio percorso, migliorarmi senza ansie da prestazione, lavorare per far bene e non per essere perfetta, con la serenità che sbagliare non è peccato mortale.
Non è un percorso facile, sto lottando ogni minuto della mia vita per questo. Perché è un problema che diventa patologico e che investe ogni aspetto. La fatica che sto facendo è tanta, e al contempo mi sforzo sempre di fare le cose al massimo e di ottenere risultati sempre migliori. Una lotta con me stessa, ma anche la possibilità di prendere me stessa, finalmente, per mano.
5. Thomas A. Edison
Il genio è l’uno per cento ispirazione, il novantanove per cento sudore.
Mi viene in mente il film Will Hunting – Genio ribelle.
In una scena lo psicoterapeuta, interpretato da Robin Williams, dice: “Sei un genio Will, chi lo nega questo? Nessuno può comprendere ciò che hai nel profondo. Ma tu hai la pretesa di sapere tutto di me. Sei orfano, giusto? Credi che io riesca a inquadrare quanto sia stata difficile la tua vita, cosa provi, chi sei, perché ho letto Oliver Twist? Basta questo ad incasellarti? Personalmente me ne strafrego di tutto questo, perché sai una cosa? Non c’è niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro. A meno che tu non voglia parlare di te, di chi sei. Allora la cosa mi affascina, ci sto. Ma tu non vuoi farlo, vero campione? Sei terrorizzato da quello che diresti.”
Il genio per me è ispirazione, sudore, studio, la fatica di comprendere se stessi, la capacità di raccontarsi. Anche attraverso il lavoro.
Credo poi che il cosiddetto talento non sia un concetto realmente incasellabile e assoluto. Esistono di certo persone con doti superiori alla media, con capacità innate, tuttavia puoi essere anche il più grande genio della terra ma se nasci in Africa avrai di certo meno possibilità di diventare un premio Nobel e difficilmente potrai avere gli strumenti per mettere il tuo genio al servizio degli altri. Dunque contano molto i mezzi che hai e conta dove nasci. Il genio allora può esprimersi dove trova il modo per farlo, oppure può restare nel contesto di partenza e fare il massimo con gli strumenti che ha. Penso che associamo troppo spesso la figura di genio e talento all’idea che esso venga sempre riconosciuto, premiato in azienda, baciato dalla fortuna e che raggiunga sempre il successo.
E invece il genio cresce dove ha la linfa per poterlo fare e spesso può essere una persona alla quale non avevamo pensato. Lo studente seduto all’ultimo banco, la persona timida, l’emarginato, il vicino di casa.
Aggiungo che per coltivare se stessi conta tanto approfondire, non fermarsi nella ricerca di conoscenza perché se tieni allenata la mente potrai tenere sempre acceso il tuo genio o scoprirlo. Il che non significa solo acquisire competenze, raccattare attestati o corsi ma imparare anche a leggere la realtà, la società, i cambiamenti in atto, saper comprendere la storia e i suoi ricorsi.
Se ti accontenti di quello che sai, o ti fidi di tutto ciò che leggi senza approfondire, la tua luce l’hai già spenta.
6. Philip Roth, Perché Scrivere
Primo Levi: Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del lavoro ben fatto è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.
È curioso: le persone peggiori che ho incontrato sono arrivate nella mia vita attraverso il lavoro. Eppure una delle mie due migliori amiche è una mia ex collega.
Le esperienze che facciamo e le persone che conosciamo costruiscono il nostro edificio.
Mi è capitato di essere umiliata sul lavoro, di piangere durante e di piangere di nuovo la sera all’idea che il giorno dopo sarei ritornata in quel posto. L’ho raccontato qui: Un lavoro che ti fa piangere è un lavoro dal quale [devi scappare] puoi imparare.
Certo, la mia esperienza non è paragonabile a quella del muratore di cui parla Primo Levi ma in ogni cosa che faccio, il mio agire parte da un’idea fondante: quello che mi viene richiesto lo devo fare bene. Non devo farlo bene per accontentare chi me lo chiede, lo devo fare bene per me. Quasi un’idea che mi perseguita a volte ma non deve essere il lavoro a possedermi, devo essere io padrona del mio lavoro e decidere in che modo svolgerlo.
Il lavoro a volte ti pone davanti anche chi non vorresti mai incontrare, anche chi mostra di essere il massimo della genuinità ma poi nasconde grande meschinità. E questo fa parte del gioco, tutto sta a non farsi trascinare in basso assieme a chi vorrebbe trascinarti con sé.
Come si fa? Contrapponendo al loro modo di essere il tuo. Questo faceva il muratore italiano che tirava su muri per i tedeschi. Chiamiamola indole, chiamiamolo stare a posto con la coscienza nonostante attorno ci siano cattivi esempi.
Se un capo non si esprime come vorremmo, dobbiamo farci scivolare addosso il suo comportamento. Se non riceviamo i giusti riconoscimenti per quel che abbiamo fatto, ricordiamo sempre la frase di Bartali: “Certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”.
7. Walter Isaacson, Steve Jobs
[…] Suo padre gli aveva inculcato un concetto che gli era rimasto impresso: era importante costruire bene la parte posteriore di armadi e steccati, anche se rimaneva nascosta e nessuna la vedeva. Gli piaceva fare le cose bene. Si premurava di fare bene anche le parti che non erano visibili a nessuno.
Che valore ha nella nostra società il merito? Questa citazione mi fa tornare in mente il dilemma: sarà mai possibile ricostruire la società proprio dall’idea che ognuno debba far bene quello che fa?
In questo discorso centra molto anche la voglia diffusa di primeggiare sugli altri, di nascondere chi ha fatto cosa perché ha poca importanza dirlo. In quel caso sono le persone ad essere la parte posteriore di armadi e steccati: gli invisibili.
Credo che se tutti ci sentissimo più apprezzati per quel che facciamo, ci verrebbe più facile prendere a cuore il prodotto del nostro lavoro. Forse questo è vero per chi ha una propria attività o è libero professionista, cioè per chi ha scelto cosa fare e come.
Per molti altri invece il lavoro è un’esecuzione asettica. Ma la colpa non credo sia del lavoratore, ma del valore che gli viene attribuito e della sua percezione di importanza nel processo produttivo.
Non nasciamo tutti con lo scopo di far bene anche quello che rimane sommerso, quindi bisogna cambiare società e cultura. Bisogna che chi lavora nell’ombra abbia davvero voce in capitolo nelle decisioni e possa crescere. Il che non significa solo che debba essere investito di maggiori responsabilità, come erroneamente si pensa in molte organizzazioni.
La percezione è che sia più diffuso il concetto di furbizia e accaparramento di un ruolo, ma spero di sbagliarmi. Ci sono tantissimi esempi positivi, tutto sta a raccontarli e a dare valore alle cose fatte bene più che, come dicevo prima, ai ruoli sociali e aziendali in organigramma.
8. Luca e Vincenzo Moretti, Il lavoro ben fatto
Una vita senza lavoro è una vita senza significato, pure se tieni i soldi.
Il concetto di lavoro va ben oltre lo status symbol della “sistemazione”. Ancora oggi molte persone vengono giudicate in base al lavoro che svolgono. Sono fenomeni molto radicati e ancora esistono distinzioni tra lavori di serie A e lavori di serie B, come se il lavoro fosse un campionato che prevede, a fine stagione, un vincitore.
Nel lavoro non ci sono vincitori e non ci sono vinti. Il lavoro serve per vivere, ma spesso è anche sinonimo di sfruttamento e disparità. Il lavoro può essere espressione del genio e della creatività, ma serve anche tanta fatica per arrivare dove vuoi.
I soldi non fanno la felicità: sembra una frase fatta. Ma io credo che le persone non siano soddisfatte neanche se hanno case grandi, automobili e mobili costosi. Spendono quei soldi per potertelo raccontare, ma dopo cosa gli resta?
Lavorare vuol dire prima di tutto poter sopravvivere e poi avere uno scopo: ognuno di noi ne ha uno o più. Dunque vivere senza lavoro vuol dire vivere senza scopo, e se vivi senza scopo difficilmente potrai essere soddisfatto. Anche se hai i soldi, e anche se sei bravo a fare il furbo. Poi c’è pure chi lavora per sport (come si dice in gergo), chi preferisce il “faccio cose, vedo gente” ma lì parliamo appunto di passatempo e non di lavoro. Di un modo per sentirsi accettati, per stordire di parole quando ti chiedono “che fai nella vita?”
Nel lavoro io cerco anche il senso, per quanto possa sembrare un obiettivo superato. Lo cerco pure quando nessuno attorno a me lo cerca. Cerco un senso per me, che mi dia la spinta necessaria a continuare e poi un senso da trasferire fuori. Perché anche se fai un lavoro che non ti piace, è pur sempre il tuo compito e da quello puoi trarre ispirazione per ciò che farai fuori.
Distinguo due aspetti della mia vita: il lavoro da un lato, le passioni dall’altro. Sono entrambi lavori in fondo, ma mi piace pensare che ciascuno di essi abbia un suo spazio ben distinto.
Il nostro significato lo troviamo anche negli hobby: io lo trovo nella scrittura e dal 2016 infatti scrivo sul mio blog Frasivolanti che mi dona grande soddisfazione perché è un prodotto tutto mio. Questa passione non mi ripaga in denaro, ma per me ha un valore enorme e un senso grande.
Non ho avuto i cosiddetti calci nel sedere, anche se questa forse è una frase che direbbero tutti. E credo che il detto “chi troppo vuole nulla stringe” sia in parte vero. Ci sono persone che riescono a capire il valore del denaro e a dare buoni frutti, c’è chi invece, avendone troppo, a un certo punto non capisce più quali siano le priorità e perde dunque anche il significato del lavoro.
9.
Nonna Costanza
Se vuoi dire a qualcuno cosa deve fare, devi saperlo fare.
Lavorando come domestica, mia nonna diceva che se vuoi che qualcuno faccia le faccende in casa tua devi essere il primo a saperle fare. Altrimenti non sarai mai in grado di capire quanto tempo ci vuole o se il compito è stato eseguito bene. E soprattutto non saprai mai metterti nei panni degli altri.
Come dicevo all’inizio, la mia famiglia per me è l’origine di tutto. Mia nonna, da un lato, con la sua storia di resistenza alle difficoltà e dall’altro mia madre, che dopo la scuola ha lavorato per tutta la vita come segretaria in uno studio di avvocati, con la sua infaticabile voglia di essere attiva perché il suo lavoro non era un amabile passatempo ma la sua salvezza quando è rimasta sola a crescere due figlie.
Cosa ci insegna allora il lavoro nel nostro contesto familiare e sociale?
A capire noi stessi, a capire gli altri, a risollevarci anche quando non ce la facciamo.
Questa frase della nonna mi ricorda quanto sia fondamentale sapersi mettere nei panni degli altri ed essere in grado di fare quel che si chiede agli altri, o almeno sapere come si fa.
La nonna diceva anche “Fai bene e scorda, fai male e pensa”. E questo mi ricorda che non conta la posizione che raggiungi o raccatti, tanto non è quello che ti renderà migliore o soddisfatto. Quel che conta è sapere, saper fare, saper essere, costruire la tua dignità, sapere che ce la puoi fare con le tue forze, non usurpare premi che non meriti, non avere pesi sul cuore e sulla coscienza.
Come dici amico Diario? È difficile aggiungere qualcosa a una storia così? Sono d’accordo con te, infatti non aggiungo niente, quello che penso io l’ho scritto nel titolo. Alla prossima.