Le mani di Filippo, la faccia e un sogno

Caro Diario, Filippo Giustini è entrato nella mia vita con le mani, che io neanche lo sapevo che erano le sue. Erano i giorni di HackForTravel e a me la foto era piaciuta assai, ma è stato solo quando mi sono ritrovato il post condiviso su Linkedin che alle mani ho potuto dare un nome, e una faccia, che poi come puoi vedere dalla foto di copertina le mani hanno a che fare anche con la faccia, e magari anche questo suggerisce qualcosa di significativo.

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Insieme alle mani e alla faccia, che già di per sé come direbbe il poeta “dit un monde”, mi colpisce la frase che si è scelto per il profilo, ma sì, il claim, ormai pure tu non puoi fare a meno di parlare come il nostro medico di famiglia a Secondigliano, si capiva solo lui e forse gli altri medici come lui, che per fortuna ci lasciava la ricetta, così quello che dovevamo fare ce lo facevamo dire dal farmacista. Comunque la frase di Filippo è questa: “Prendo caramelle dagli sconosciuti, con loro cerco di cambiare (in meglio) il mondo. Ogni tanto ci riusciamo.”
Come dici? Anche lui con questa cosa di cercare di cambiare in meglio il mondo? Non ti sorprendere, guarda che siamo in tanti, però con leggerezza, senza pensare di volerlo salvare il mondo che, fidati, è diverso.

Una decina di giorni fa Filippo mi scrive per segnalarmi un hackthon che stanno organizzando sulla destinazione Mugello. Il suo messaggio tiene un’altra caratteristica per la quale vado pazzo, colpa di mio padre, è educato.
Che cosa vuol dire? Quali sono le caratteristiche di un messaggio educato? Innanzitutto la chiarezza, nel senso che Filippo me lo dice chiaramente che vorrebbe una mano per dare visibilità all’iniziativa. E poi la gentilezza, ma una gentilezza vera, senza retropensieri.
Naturalmente ho cercato di essere educato anche io, proprio come mi ha insegnato papà, e gli ho fatto presente che io di norma racconto persone e idee, quasi mai eventi, che insomma HackForTravel è stata un po’ un’eccezione, che avrei fatto fatica a riprendere il tema in maniera originale a distanza di così poco tempo e la cosa sembrerebbe finita lì se non fosse che venerdì scorso Filippo mi scrive di nuovo e mi dice che avrebbe piacere che leggessi questo post qui.

Clicco sul link, mi piace il titolo, Il senso della meraviglia, mi piacciono le parti che mette in evidenza e mi piace il post, sì amico Diario, mi piace tutto, così gli scrivo di leggere questo post e di rispondere alle tre domande del racconto intervista che magari mi sta venendo un’idea, il resto è venuto da sè, lo puoi leggere qui:

Me: Raccontami un po’ di te, le tue passioni, le cose che ami e quelle che non sopporti, cosa ti piace e cosa invece no (persone, cinema, letteratura, sport, moda, tutto quello che vuoi e ti caratterizza, compresa la tua famiglia, se ti va), le città della tua vita, i tuoi viaggi, le tue curiosità, che lavori facevano i tuoi genitori, ecc.;

Lui: Non è facile raccontare ciò che amo, probabilmente perché mi sto ancora scoprendo. Mi è più semplice raccontare quello che non amo. Non che odio, ma che non amo, quello che non mi fa star bene.
Lo star bene. Questa forse si, è una delle cose che ricerco nella mia vita. La serenità, che è diversa dalla felicità. Essere sereni, moderatamente equilibrati, attraversare la vita con pazienza ed equilibrio. Questa è una delle cose che amo. Non amo invece la confusione, la distrazione. Non amo la maleducazione, adoro invece la gentilezza, quei gesti fatti senza sforzo, per essere semplicemente gentili, nel momento che serve.
Amo l’alba, la mattina presto, d’estate. La amo qua in campagna, da noi. La amo al mare, la amo in montagna.
Amo il suono della mia voce, quando rincorre i pensieri nella mia testa. Amo i sorrisi degli sconosciuti che incontro per strada. Amo il secondo caffè della mattina. Amo l’apparente equilibrio di mia moglie, impegnata, corretta, dedita.
Amore il profumo del pane, appena sfornato, amo i riflessi nell’acqua, nel cielo, negli occhi delle persone. Amo le sfumature della vita degli altri, le sbavature, le interruzioni, le irregolarità. Perché misurano l’intelligenza, misurano l’importanza, misurano la determinazione delle persone. Misurano la fierezza con la quale perseguono i loro sogni. Amo i sogni.
Mi sono accorto che ho amato tanto, e odiato poco nella mia vita, e nonostante la mia falsa speranza di raccontarmi, raccontarvi di me nelle cose che non amo, ho raccontato di me in quelle che amo. In quelle che sono. Perché forse si, siamo davvero nati per amare tutto l’amabile che ci circonda.

Me: Raccontami tutti i lavori che hai fatto e che fai, anche se da bambino hai aiutato il nonno nei campi o eventuali lavori per mantenerti gli studi, dando naturalmente lo spazio maggiore al tuo lavoro attuale. Raccontami le tue soddisfazioni, i tuoi sogni, la tua voglia di farcela alla voce lavoro.

Lui: Ricordo quando a 14 anni ho aiutato – in estate – il falegname che lavorava davanti a casa nostra. Ricordo il profumo del legno. La polvere. Il toccare con le mani qualcosa. Il trasformarlo in qualcosa di nuovo.
Ricordo qualcosa fatto con mio padre, forse una cintura in pelle. Non ricordo di preciso cosa, ricordo però che è bello fare le cose con i propri padri.
Ricordo quando scelsi di fare ragioneria, perché alle medie tutti i miei amici scelsero di fare ragioneria alle superiori. Ricordo poi di aver scelto di fare Scienze Statistiche perché mi piacevano i grafici. In realtà mi ci vollero 5 anni per capire che amavo la creatività e non l’analisi matematica dietro quei grafici. Adesso ho un’agenzia di marketing e comunicazione, in una ex-cantina di una casa colonica immersa nel verde della toscana, si chiama Marchisoro Hub. Gioco a Golf coi clienti, faccio aperitivi con i clienti, giochiamo alla vita con i clienti.

Me: Raccontami perché per te il lavoro è importante, vale.
Lui: Credo molto nel lavoro che faccio. Credo molto nelle persone che ci sono dietro il nostro lavoro e nelle persone che usano il nostro fare per vendere in modo più consapevole in un mercato globale.
Io credo che i nostri lavori possano fare la differenza, possano davvero cambiare le cose. L’amore con il quale facciamo il nostro lavoro, la pazienza con la quale insegniamo il nostro lavoro. La dedizione con la quale raccontiamo il nostro lavoro. Noi serviamo le persone. Noi amiamo le persone. Noi siamo quelli che aiutiamo mercati, aziende e consumatori a crescere ad educarsi gli uni e gli altri. Siamo quelli che si svegliamo all’alba ed andiamo a letto all’alba. Siamo quelli che non rispondono al telefono, siamo quelli che lanciano il telefono contro il muro. Siamo quelli del bicchiere sempre troppo pieno, siamo quello che credono nel futuro, nei giovani e nei meno giovani. Siamo quelli che credono nell’informazioni della rete, ma ancor più credono nella conoscenza, condivisa, amplificata, collaborativa.
Noi siamo quelli che non hanno orari, che si accendono, e la loro mente pensa, di continuo, a tutto, il migliorabile. E lo facciamo con perseveranza. Senza mollare mai. Noi non molliamo mai. 
Noi crolliamo, ma non molliamo. Siamo quelli dalle occhiaie, dalla pelle pallida. Siamo quelli spettinati, che si rasano per non doversi pettinare. Siamo quelli che si nutrono a bibite, cioccolatini, caffè doppi, acqua frizzante e pizza, fredda, ai pepperroni.
Noi siamo quelli che non faranno mai la differenza. Perché noi, non vogliamo fare la differenza. Noi siamo quelli che mettono in condizioni gli altri, studenti, aziende, consumatori, di fare la differenza. Di essere delle persone migliori, degli adulti migliori, nel caso di studenti. Delle aziende migliori. Dei consumatori migliori. Noi siamo quelli che respirano e vivono di emozioni. Un giorno, l’altro e l’altro ancora. Noi siamo quelli là. Quelli che non si fermano mai.

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Ecco caro Diario, questo è un poco di Filippo Giustini e un poco delle connessioni che abbiamo attivato fin qui, che poi magari altre ne verranno, vediamo, ma se lo vorremo veramente certo che sì.
Un’ultima cosa prima di lasciarti, ieri mi ha scritto questo: “Scusami Vincenzo, ho trovato un piccolo refuso, una N al posto di una M, e ho corretto, ti riallego il file”. Gli ho scritto di non preoccuparsi, che me la sarei vista io, solo che ho riletto il post e non l’ho trovato.
Come dici? Perché non l’ho chiesto a lui? Perché per ora lo lascio così, perché pure questo fatto di rileggere e trovare il refuso è un racconto, mi sembra un peccato toglierlo.

Post Scriptum
Si intitola Marchisoro è un sogno, se lo leggi capisci meglio anche il titolo.