Caro Diario, oggi ho pensato di leggerti un breve racconto, si intitola La cardarella, fa parte di Testa, Mani e Cuore, edito da Ediesse. Buona lettura.
Quelle come me la vita la passano per strada, in qualche galleria, in una cava di tufo, nei giorni fortunati anche in una bella via di campagna, avanti e indietro sulle spalle dei manovali, che quelli, una volta, venivano dal Sud Italia mentre adesso quasi solo dall’Africa e dall’Europa dell’Est. Per quanto sia difficile trovare un lavoro, neanche più i giovani meridionali vogliono farlo questo mestiere. Non è che gliene faccio una colpa, sul cantiere la giornata è pesante assai e poi anche gli africani e i rumeni non è che l’abbiano proprio scelto di abbandonare il proprio paese e i propri amici, magari dopo aver conseguito una laurea, per farsi trovare all’angolo di una strada con la speranza che un fetente di caporale li faccia salire su un pulmino e li porti in cantiere. A proposito, non mi sono ancora presentata, secondo il manuale del capomastro assistente edile sono un recipiente a due manici, a forma di cono tronco, più stretto sotto e più largo sopra, utilizzato in edilizia per trasportare sabbia, cemento, brecciolino e calcinacci vari. Per me è un’esagerazione, se qualcuno me lo avesse chiesto lo avrei detto subito di non sprecare tante parole per dire cardarella.
Sui cantieri di cose strambe se ne vedono tante, ti capita quello che porta in tasca l’ultimo modello di cellulare e quello che per non farsela sotto la fa in una bottiglia o in una scatola. Poi ci sono le cose normali, quelle che neanche ci fai caso perché ci sei abituato, e sono la maggior parte. E infine ci sono le cose che ogni tanto ci ripensi perché per qualche motivo ti sono rimaste come stampate nella testa. Accade a volte perché ti incuriosiscono, altre volte perché danno senso a qualche tuo pensiero, altre ancora semplicemente perché sono belle. Come quel maggio di due anni fa con Giuliano e Beppe nel cantiere di Quarto Oggiaro, alla periferia Sud di Milano.
Tra una palata e l’altra di sabbia, Giuliano raccontava di quando era stato a Canton, in Cina, e mentre parlava rileggevi nitido, sulla sua faccia ruvida, lo stupore che aveva provato tanti anni prima di fronte a quei palazzi in costruzione di venti, anche trenta, piani, abbracciati stretti dalle impalcature di bambù.
Beppe, il più giovane, lavorava e ascoltava. Solo ogni tanto, con la coda dell’occhio, sorprendeva Giuliano con il badile tra le gambe mentre accompagnava le parole con i gesti delle mani, ora a sottolineare la veridicità del suo racconto, ora a mostrare in che modo quei ponteggi gli davano l’impressione che da un momento all’altro avrebbero potuto accartocciarsi, ripiegarsi su se stessi come stremati, vinti da quella moltitudine di manovali che andavano su e giù, giù e su, con in spalla le loro cardarelle ricolme di sabbia e cemento.
«Perché sai, – diceva – da questo punto di vista in Cina è uguale identico che in Italia, anche lì i palazzi non li fanno mica gli architetti, che sono importanti, per carità, perché qualcuno che li progetta, i palazzi, pure ci vuole. Però vorrei vederli senza i manovali, i muratori, i carpentieri, i gruisti con il loro armamentario di cardarelle, cazzuole, badili, carriole, gru e compagnia cantante, come farebbero a tirarli su, i loro palazzi.»
«Com’era la poesia? – si intromise appena Beppe – Babilonia distrutta tante volte, chi altrettante la ricostruì? Ecco. Qui se non torniamo a leggere poesie non capiamo più nulla.»
Non so dire se fu per le voci sovrastanti del cantiere o per calcolata indifferenza, sta di fatto che Giuliano continuò a parlare come se niente fosse, anzi no, perché nel frattempo aveva assunto il tono di chi sta per svelare al mondo la scoperta del secolo: «Te lo giuro, li ho visti con i miei occhi i cinesi che portavano le cardarelle fino ai piedi dell’impalcatura a due a due, infilate alle estremità di una canna che tenevano con le due mani poggiata sulle spalle». Fu a questo punto che l’amico, con voce più ferma, lo interruppe di nuovo. «Al mio paese – disse –, ancora oggi i contadini e i fiorai portano al mercato i loro panieri con la frutta e i fiori alla stessa maniera. Secondo me è una pratica comune a tanti mestieri e diffusa in molte parti d’Italia, solo che queste cose qui nessuno le racconta e allora è come se non esistessero.»
Questa volta Giuliano non fece finta di nulla, anzi guardò Beppe con gli occhi strabuzzati. A confonderlo non fu il fatto di essere nuovamente interrotto, lui era un muratore, e i muratori questi problemi qui non hanno proprio il tempo di crearseli. Quello che lo scombussolava era il motivo per cui i contadini e i fiorai non esistono se nessuno li racconta. «Se uno esiste, esiste – pensava –, che c’entra il racconto?» Ora un altro al posto suo avrebbe cercato di capire meglio, lui invece no, ma non per supponenza o per non dare soddisfazione all’amico, che quando hai a che fare con il badile e la carriola queste sciccherie non te le puoi mica permettere, è che una volta che aveva deciso che una cosa non l’aveva capita metteva un punto e andava a capo. Era il suo modo di prendere la vita, che lui a farsi troppe domande proprio non ci si vedeva, che poi se uno ci riflette bene il problema non era mica suo, era di Beppe che nonostante gli studi aveva deciso di lavorare nel cantiere. Fu così che tempo un minuto e aveva già ripreso a raccontare, avanti, sempre come se niente fosse, che le cardarelle, sempre quelle dei cinesi, non facevano in tempo a toccare terra che già c’era qualcuno pronto a tirarle su, su, fino al piano stabilito.
«Utilizzano un sistema di carrucole – diceva – che così, a occhio nudo, sembra rudimentale, ma nella pratica fa arrivare in un attimo le cardarelle dove devono arrivare.» Fu in quel preciso istante che qualcosa gli dovette balenare nella testa perché lasciò cadere senza curarsene il badile, cosa che non ricordo di avergli mai visto fare prima, batté le mani per tirare via la polvere e la sabbia, tirò fuori la voce più solenne che aveva e finalmente annunziò: giuro che l’ho visto con i miei occhi, i palazzi possono essere costruiti anche senza le impalcature di metallo.
Beppe non ebbe bisogno di pensarci su, tra l’ironia e il risentimento scelse la tenerezza, perciò non disse niente, fece solo così con la testa, come fanno gli amici quando vogliono dirti è vero, è giusto, sono d’accordo con te.
Ecco, la vita di quelle come me è piena di storie così, storie di fatica, semplici, normali, storie belle. Belle come la soddisfazione che ho visto sul volto di Chaka, il ragazzo zulu – l’accento sulla u non ci vuole, deriva da «amazulu», che nella loro lingua significa «popolo del cielo» –, quando imparò a impugnarmi con la mano destra tenendomi con il dorso, a spingermi da terra verso l’alto con un gesto deciso, ad accompagnarmi appena con l’altra mano e ad appoggiarmi sulla spalla sinistra che già aveva fatto il primo passo verso il mastro muratore. Belle come l’euforia che mi prende ogni sera quando sento la voce del mastro muratore che dice «figliolo, pulisci la cardarella», a segnalare l’imminente fine della giornata di lavoro, che a noi cardarelle non ci si può mica lasciare sporche o, peggio ancora, incrostate. Perché solo se siamo in perfetto ordine possiamo essere utilizzate al meglio il giorno dopo. E perché ci piace proprio essere lasciate belle pulite, sistemate, che quando siamo trasandate noi sono trasandati anche quelli che ci usano e allora il lavoro non viene bene e se il lavoro non viene bene noi, quelli che lavorano e anche quelli che comandano non serviamo a niente, è come se il nostro domani lo rubassimo, e non è giusto.
Beppe dice che non c’è niente di male a fare una vita modesta, che a ben pensarci, con le dovute eccezioni, quello che ciascuno di noi fa dipende più dalle circostanze, dalle opportunità che gli sono state date, che dalla sua bravura. L’importante è non perdere mai di vista la dignità e il decoro, ma non solo a livello personale, che quello dovrebbe venire da sé, anche nel rapporto con gli altri.
Lo so, io sono solo una cardarella, ma la penso come Beppe. Proprio come lui. Uguale.