Fare bene le cose per cambiare le cose

ABSTRACT
Caro Diario, la tesi che presento in questo articolo propone di considerare l’approccio, il modo di essere e di fare che porta a fare bene le cose come il fattore unificante del processo di cambiamento culturale e sociale che ho definito lavoro ben fatto. E cerca di spiegare perché un lavoro ben fatto non sempre è riconoscibile dal risultato, ad esempio quando l’esito del proprio lavoro è interconnesso al lavoro di altri o quando c’è discordanza di punti di vista e/o di interessi circa la natura e le caratteristiche del risultato. Perché più si allarga la fascia di coloro che ogni giorno fanno bene quello che devono fare, qualunque cosa debbano fare, più si allargano le possibilità che a un lavoro ben fatto corrisponda un buon risultato. E perché fare bene le cose è un buon modo per cambiare le cose.
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ARTICOLO
Nel febbraio scorso, quando sono riuscito finalmente a farmi raccontare dal mio amico Gianni Tomo  la sua storia – se vuoi caro Diario la puoi leggere qui – lui ha insistito a lungo sulla difficoltà a indicare dei criteri oggettivi che potessero consentire di definire il suo lavoro di dottore commercialista come «ben fatto» e ieri su sua sollecitazione siamo tornati sull’argomento a commento di un articolo su Il Sole 24 Ore di Giovanni Negri dal titolo «Il consulente paga il parere sbagliato» che dava conto della sentenza 15107 della Terza sezione civile della Corte di Cassazione depositata Sabato 23 Luglio.
Pur non avendo io alcuna competenza di merito, intendo condividere con te una parte del dialogo avvenuto tra me e il mio amico perché mi pare da più versanti assai esplicativo della molteplicità delle connessioni, e delle contraddizioni, che intercorrono tra lavoro ben fatto e suo risultato.

Gianni: «Vincenzo, a proposito di #lavorobenfatto, di chiarezza del mandato professionale dei dottori commercialisti, di concretezza ed etica ti segnalo questo articolo. Per me il tema è obiettivi e risultati della consulenza e però anche certezza del diritto e dei diritti con il fisco. Come vedi continua a essere un azzardo pensare al mio lavoro come ben fatto.»
Io: «Gianni, la mia attività di ricerca riguarda il #lavorobenfatto non i #miracoli. Non a caso mi piace riferirlo prima di tutto all’approccio, perché per quanto riguarda il risultato bisogna fare i conti con tante variabili – le proprie capacità, gli strumenti che si hanno a disposizione, il contesto nel quale si opera, ecc -. Se considero tutto questo, compreso le domande che ancora oggi, di domenica mattina, ti stai facendo, mi convinco sempre più che il tuo è un lavoro ben fatto.»
Gianni: «Ti ringrazio, ma alla fine vedo che anche tu convieni che per noi commercialisti ci vuole un #miracolo. Anzi, come diceva Troisi, ci vuole un miracolo grosso perché quelli piccoli non bastano!»
Io: «Non ci provare, non convengo affatto con te. Il fatto è che tu continui a spostare l’accento dall’approccio al risultato, e questo non funziona. Il senso del mio lavoro è promuovere l’approccio e la cultura del lavoro ben fatto, di cui ti ritengo un ottimo interprete.»
Gianni: «Vincenzo, tu sei professore e questo si sa, ma il cliente vuole solo risultati. Approccio? Proviamo pure a discuterne, con te vado in capo al mondo, ma la vedo difficile.»
Io: «Gianni non sfottere. Primo, in quanto a prof. tu mi batti; secondo, lo so che il cliente vuole il risultato, e tu gliene dai uno migliore degli altri proprio perché hai questo approccio, ti fai queste domande, cerchi e trovi soluzioni ben fatte.»
Gianni: «Ammettiamo che funzioni come dici tu, rimane il fatto che se io o un qualunque altro collega non portiamo il risultato il cliente lo perdiamo.»
Io: «Come potresti scrivere tu nella prossima edizione del tuo libro questo pone a te e ai tuoi colleghi una questione di marketing, una ridefinizione della domanda e dell’offerta nel rapporto tra professionista e cliente.»
Gianni: «Tu dici che proprio perché non sempre è possibile garantire il risultato bisogna essere molto precisi sui caratteri della nostra prestazione professionale. Si, questo potrebbe essere un tema interessante per la categoria.»
Io: «Penso si! Alla fine quello che vendi davvero è la tua reputazione, la tua professionalità, il tuo approccio. Perché tu che puoi non ci scrivi un articolo?»
Gianni: «Prometto che ci penso.»

Detto della nostra conversazione, che spero sia stata per te interessante come lo è stata per me, ti ripropongo qui – prima delle due considerazioni due che mi riservo di fare alla fine – la definizione della parola «Approccio» contenuta nel dizionario del lavoro ben fatto:

«Avere l’approccio giusto vuol dire prima di tutto amare quello che si fa. È la passione con cui l’ebanista, il panettiere, il medico, il pastaio, l’architetto, il produttore di birra, l’apicoltore, l’ingegnere, il cuoco, l’insegnante, il pasticciere e qualunque altro lavoratore cerca di fare bene le cose che fa. La consapevolezza che ogni cosa che si fa è connessa a mille e mille altre e dunque, se la si fa bene, la si avrà fatta mille e mille volte bene. La capacità di fare qualunque cosa, piccola o grande che sia, come se in quella cosa si intendesse diventare il numero uno al mondo. Sì, il numero uno, non il due o il tre, perché nell’approccio non ci si può accontentare, bisogna condannarsi a essere il migliore. Poi magari non ci si riesce, perché il risultato non dipende solo da se stessi, perché conta da dove si è partiti, da quali opportunità realmente ci sono state date, fino a che punto gli strumenti che si avevano a disposizione erano quelli giusti, ma quando si è  giunti a quel punto il saper accettare un risultato diverso da quello che ci si aspetta, e magari si merita, è un pregio, non un difetto. Nell’approccio no, esiste solo una possibilità: cercare di essere il migliore.»

Le due considerazioni finali sono invece queste:
1. Il risultato non può essere l’unico criterio per valutare un lavoro ben fatto.  Per le ragioni che avete potuto leggere fin qui e perché si può avere un ottimo risultato anche facendo molto male una cosa. Proprio ieri ho rivisto la sintesi di Italia Germania 4 -3, sì, proprio la mitica semifinale di Mexico ’70. Ebbene, il tiro del 2-2 di Burgnich è chiaramente un tiro sbagliato, un tiro di sinistro svirgolato che spiazza il portiere. Eppure ha fatto gol, come succede tante volte nel gioco del pallone con un cross sbagliato o un tiro che sarebbe finito dieci metri a lato se a causa di una deviazione non fosse finito in rete. Naturalmente in quel contesto il gol è l’unica cosa che conta, a patto però di considerare che 98 volte su cento, o anche 99, il tiro sbagliato finisce fuori, perché altrimenti nessuno sprecherebbe il tempo ad allenarsi per imparare a tirare bene.
Quello che intendo sostenere insomma è che il lavoro ben fatto è un processo sociale, e cerco di spiegarmi meglio con qualche esempio. È evidente che se sono un bravo cuoco avrò più probabilità di restringere la forbice tra il mio lavoro ben fatto – l’arte del cucinare – e il risultato finale – la bontà del piatto che ho preparato -, perché nel processo del cucinare oltre alla mia bravura entreranno soltanto la qualità dei prodotti e la qualità delle tecnologie (pentole, fuochi, ecc.) che utilizzo. Se però sono un bravo architetto non è detto affatto che sia così, o comunque ci possono essere scarti assai consistenti tra la qualità del mio progetto e la qualità del prodotto finale realizzato, che una volta che ho letto che cosa dovevano essere le Vele di Scampia nella testa dei progettisti e che cosa invece sono diventate ti assicuro che per poco non mi sono messo a piangere. E se sono un bravo sindaco la forbice può essere ancora più larga, perché dovrò tenere conto della disponibilità di risorse – non solo economiche ma anche organizzative, sociali,  umane -, del senso civico dei cittadini, del ruolo delle imprese e dei sindacati e di mille altre cose ancora.

2. Dato il punto 1. le possibilità che abbiamo sono in ultima analisi due: la prima è quella di arrendersi, nelle mille più e meno complici forme in cui questo è possibile; la seconda è quella di alzarsi la mattina e fare bene quello che si deve fare, qualunque cosa si debba fare, dal punto di vista individuale «a prescindere» da quello che fanno gli altri, dal punto di vista sociale con la consapevolezza che tra le cose che mi tocca fare per fare un lavoro ben fatto c’è anche quella di fare qualcosa affinché l’area di coloro che fanno le cose ben fatte si allarghi sempre più, fino a farsi sistema. Si può fare, si fa. Con il confronto, con le proposte, con la lotta, con la partecipazione, con l’esercizio della responsabilità, con il voto e in mille altri modi.
È in questo quadro la consapevolezza soggettiva, la voglia e la forza di mettersi in gioco acquista valore sociale e diventa il fattore unificante del processo di cambiamento culturale e sociale che ho definito lavoro ben fatto. Perché più si allarga la fascia di coloro che ogni giorno fanno bene quello che devono fare, qualunque cosa debbano fare, più si allargano le possibilità che a un lavoro ben fatto corrisponda un risultato ben fatto.
Per me se vogliamo provarci veramente dobbiamo partire da qui, ma naturalmente questo è solo quello che penso io, se anche tu e i nostri lettori scrivete quello che ne pensate voi la discussione diventa decisamente più interessante. L’indirizzo a cui inviare le tue riflessioni è sempre lo stesso: partecipa@lavorobenfatto.org
Buona partecipazione.
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INTERVENTI
Fabio Cecere – Gianni Tomo
FC: Gianni ti segnalo la notizia di oggi 29 Luglio che ufficializza la proporo del 770.
GT: Grazie Fabio. A proposito di ‪#‎lavorobenfatto‬ e delle mie chiacchierate con Vincenzo Moretti, mettiamo ancora un po’ d’ordine: caro Vincenzo se il legislatore, dopo tanto discutere si decide soltanto il 29 luglio a dare proroga del termine di domenica 31 luglio, tu come la vedi? Che senso ha più ormai per chi, diligentemente, ha ormai già fatto tutto? E chi invece al contrario ha deciso già da giorni di rimandare, tanto, come al solito, la proroga prima o poi arriva? E’ anche questo un problema di approccio? Dal mio punto di vista, ancora a proposito di #lavorobenfatto, è la solita farsa, anche se noi continuiamo a provarci.
FC: Gianni, di fronte alle cose che avete analizzato tu e Moretti non che ci sia un gran che da aggiungere se non una valutazione – forse anche questa rilevante – del fattore tempo nella sua più generale accezione. Fammelo dire in questo modo: è possibile un lavoro ben fatto nel più breve tempo possibile o un lavoro ben fatto richiese necessariamente di avere il giusto tempo a disposizione? La risposta secondo me è semplice, è che forse bisognerebbe essere consapevoli che non esiste un lavoro ben fatto se non si ha a disposizione il tempo giusto per svolgerlo, un tempo che sembra ormai sembra invece mai sufficiente.
GT: Ottima riflessione Fabio, che mi spinge un po’ a rilanciare la palla e un po’ a tornare al punto di partenza: con scadenze sempre così incerte come si fa razionalizzare i tempi?

Gianluca De Cunzo
Parlare oggi di lavoro ben fatto mi sembra fondamentale. Affinchè un lavoro produca i risultati sperati è opportuno concentrarsi sulla qualità del lavoro che si svolge, soprattutto in questo periodo storico di crisi dove la concorrenza rischia di tagliarci fuori dal mercato. Per poter parlare di qualità però è opportuno tenere in considerazione alcuni ingredienti fondamentali, tra cui la retribuzione. A nessuno piace lavorare senza un adeguato corrispettivo e ciò produce sicuramente una forte demotivazione con il risultato che ne consegue, ossia scarsa qualità. Non a caso si assiste alle fughe di cervelli verso paesi dove il lavoro dei ricercatori (e non solo) è più apprezzato, più valutato e più pagato. Non vorrei buttarla in politica ma nel nostro paese mancano le politiche atte a favorire il lavoro. Gli imprenditori che spostano le aziende all’ estero lo fanno perchè in alcuni paesi la manodopera ha costi irrisori ed anche le relative tasse. Il risultato di questa operazione è che l’ economia tende a bloccarsi, in quanto con il trasferimento delle aziende all’ estero anche l’operaio perde il lavoro e non può acquistare cio che viene prodotto, per cui il danno è doppio. Se lo Stato intervenisse con delle politiche atte a favorire il lavoro l’imprenditore lascerebbe la sua azienda in Italia e l’ operaio italiano non perderebbe il suo impiego con la conseguenza più evidente che l’ economia continuerebbe a girare (in quanto lavoro posso spendere). Concludo dicendo che la qualità del lavoro è collegata anche alle aspettative economiche oltre che ovviamente alla passione, la quale ribadisco è fondamentale, ma se non adeguatamente ricompensata tende a finire.

Rodolfo Baggio
Le considerazioni di Vincenzo sono sempre stimolanti, e così è il suo scambio con Gianni sull’importanza dell’approccio. Credo non ci sia molto da aggiungere. Provo a dire qualcosa riferendomi all’individuo, per una volta, e non al gruppo o al contesto o al sistema sociale. Di questi ho già detto fin troppo, ora voglio ragionare in termini egoistici.
Il punto di partenza è uno psicologo ungherese dal nome impronunciabile: Mihaly Csikszentmihalyi. Emigrato da giovane in USA, dove insegna e ha fondato il Centro di Ricerca sulla Qualità della Vita della californiana Claremont University, è molto noto per i suoi studi sulla felicità e la creatività. Un suo articolo del 1997 dal titolo “Happiness and Creativity” comincia così:
«Le persone creative differiscono fra di loro per molti aspetti, ma sono accomunati da una cosa: amano quel che fanno. Non è la speranza di gloria o di ricchezza che li spinge, ma piuttosto la possibilità di fare un lavoro che piaccia. Interviste con ingegneri, chimici, scrittori e musicisti, storici e architetti, sociologi e fisici confermano che tutti costoro fanno quel che fanno principalmente perché si divertono. Eppure molti altri con le stesse occupazioni non provano piacere. Quindi dobbiamo assumere che non è cosa fanno quel che conta, ma come lo fanno. Essere un ingegnere o un carpentiere non è piacevole di per sé, ma se uno fa le cose in un certo modo, queste diventano intrinsecamente gratificanti».
La teoria generale di Csikszentmihalyi è che la felicità individuale sia uno stato nel quale esiste un «flusso» che porta a essere totalmente coinvolti e gratificati nello svolgimento di un’attività, tanto che nient’altro sembra importare. L’esser di buon umore, poi, secondo altri mette le persone in uno stato di apertura mentale che favorisce una visione estesa delle cose e delle situazioni, mentre diminuisce la capacità di focalizzarsi troppo sui dettagli. E questa capacità di connettere elementi diversi, a largo raggio, e di ampliare l’ottica favorisce atteggiamenti creativi. Una condizione altamente serendipitosa, ammesso di avere poi la preparazione necessaria per approfittarne (vedi pag. 5). Insomma, l’idea romantica che la depressione sia fonte di genio artistico parrebbe più una leggenda metropolitana che uno stato mentale davvero «creativo». Più di recente molti altri studi hanno riconfermato la relazione stretta fra il piacere di far le cose per bene e quelle doti di creatività che sono così importanti per un individuo e per l’intera struttura sociale nella quale egli vive. E, per di più, la relazione è bidirezionale e a feedback positivo. Capace quindi di creare circoli virtuosi che amplificano entrambe le caratteristiche.
In questi ragionamenti, per riprendere la discussione fra Vincenzo e Gianni, il risultato non è menzionato, o poco e come aspetto quasi secondario. Ciò che importa è l’approccio, è quello che fa la differenza, e una differenza significativa. Poi i risultati, come ben dimostrato e come noto, arrivano. Infatti è documentata l’esistenza di un chiaro rapporto fra la soddisfazione personale (felicità) e i risultati che si ottengono nello svolgere attività lavorative e non. E, contrariamente a quanto si credeva un tempo, e cioè che buoni risultati rendono felici, si è visto che è vero piuttosto il contrario: che felicità e benessere precedono il successo e ne sono elemento condizionante.
Quindi per chiudere il ragionamento: lavoro ben fatto – gratificazione personale – creatività – buoni risultati – gratificazione personale, e via così.

Marcella Carnevale
Sul fatto di metterci l’anima in quello che faccio non ho dubbi, per me non può essere che così, altrimenti la mattina non mi alzerei dal letto per correre in studio e cominciare la dura, quotidiana lotta con la burocrazia, l’amministrazione finanziaria, i clienti. Dico anche però che nessun lavoro come quello che facciamo io e Gianni è così indissolubilmente legato al risultato. Ci battono solo i medici, che hanno a che fare con la nostra salute, e però ai medici non si chiede il miracolo di farci guarire da una malattia gravissima, ci affidiamo a loro con speranza, ma poi contiamo sull’aiuto della medicina, dei nuovi farmaci, delle nuove tecnologie, mentre a noi chiedono il miracolo, sempre!! Il miracolo di scongiurare il controllo, il miracolo di farli stare negli “studi di settore” anche quando manca la “materia prima”, il miracolo di fargli avere il mutuo anche se non hanno un reddito sufficiente a ottenerlo. Tutti miracoli che non possiamo fare, compreso il miracolo di non far pagare troppe tasse neanche se decidessimo noi il “quibus”.
La mia insoddisfazione é data dal fatto che gli sforzi che faccio per cercare di fare tutto secondo le regole non sono visibili mentre un piccolo errore di distrazione che fai può far scaturire un avviso bonario che viene a galla l’anno successivo. Te lo garantisco Vincenzo, è una cosa che fa più male a me che al mio cliente, pensa che ho adottato una tecnica specifica per cercare di alleviare il mio dolore per aver commesso un errore: chiamo il cliente, gli dico che ho sbagliato e che pagherò le sanzioni. A quel punto tutti capiscono che errare è umano, non si sentono presi in giro e rimangono legati allo studio. Un discorso diverso è invece quando qualcuno cerca di addossarmi colpe che, sinceramente, non sento di avere, perché allora viene fuori la bestia che è in me, ma dal lato oscuro della mia forza magari ti racocnto un’altra volta.

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