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Caro Diario, penso che anche il lavoro ben fatto debba avere le sue leggi, per così dire, costitutive, quelle in cui una comunità si riconosce indipendentemente dalle differenze che la contraddistinguono su tutti gli altri piani, quelle a cui una comunità non può rinunciare senza mettere in discussione le ragioni stesse della propria esistenza. Con Antonio Russolillo e Rodolfo Baggio, che mi hanno aiutato, abbiamo voluto che fossero poche, chiare e brevi, un po’ come le leggi di Asimov relative alla robotica a cui ci siamo dichiaratamente ispirati. Buona lettura.
La legge numero zero del lavoro ben fatto
Il lavoro ben fatto non può fare a meno dell’amore per quello che si fa e del piacere di farlo.
La legge numero uno
Il lavoro ben fatto non può fare a meno dei diritti, della dignità, della soddisfazione, del rispetto e del riconoscimento sociale di chi lavora, indipendentemente dal lavoro che fa.
La legge numero due
Il lavoro ben fatto non può fare a meno dell’etica, della cultura, dell’approccio, del modo di essere e di fare fondati sulla necessità di fare bene le cose a prescindere, in qualunque contesto, pubblico e privato, perché se lo fai bene qualunque lavoro ha senso, purché questo non contravvenga alla prima legge.
La legge numero tre
Il lavoro ben fatto non può fare a meno dei doveri di chi lavora, del suo impegno a mettere in campo in ogni momento tutto quello che sa e che sa fare per fare bene il proprio lavoro, come persona e come componente delle strutture (associazioni, gruppi, comunità, società, ecc.) delle quali fa parte, con spirito collaborativo, indipendentemente dal lavoro che fa, purché questo non contravvenga alla prima e alla seconda legge.
GLI INTERVENTI
Antonio Russolillo
Caro Vincenzo, raccolgo con piacere il tuo invito e la sottintesa voglia di sfruculiarci.
Leggendo il modo in cui hai formulato le tre leggi, non posso fare a meno di ricordare, anch’io, il grande biochimico e scrittore (non solo di fantascienza) Isaac Asimov, e le celeberrime leggi della robotica, parola peraltro da egli stesso introdotta per la prima volta.
Chi ha letto Asimov sa che le leggi della robotica ad un certo punto diventano quattro.
Nel libro i Robot e l’Impero, alla fine viene introdotta la legge zero, legge che sovrintende alle altre, zero per mantenere lo schema che a legge con numerazione minore corrisponde valore maggiore.
Quindi io rilancio, se Asimov estende le leggi dall’uomo all’intera umanità – «Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno» -, noi come possiamo estendere le tre leggi del lavoro ben fatto? In che modo possiamo declinarla?
Le mie considerazioni, che lascio a chi vorrà raccoglierle, quale sfruculiamiento nidificato, sono le seguenti:
1. ritengo che il lavoro ben fatto non sia un limite a cui tendere ma una soglia da superare e da spostare sempre più avanti;
2. solo fissando nuovi obiettivi c’è la spinta propulsiva a migliorarsi come lavoratore ed evolversi come individuo;
3. l’evoluzione degli individui precede ed è indispensabile al miglioramento e all’evoluzione della società.
Per ora è quanto; con il tuo consenso e se raccogliamo ulteriori contributi direi di provare a coniare la Legge Zero del Lavoro Ben Fatto.
Rosario Pagano
Fondamentalmente è un gioco, hai ragione. Ma in fondo anche la vita lo è. Quindi anche il lavoro. Il trucco è prenderlo sul serio in ogni suo aspetto. E’ l’approccio con cui io mi pongo di fronte ad ogni difficoltà della vita, ma soprattutto del lavoro. Sfidare se stessi a migliorarsi, senza ansia da prestazione, senza pensare di voler vincere a tutti i costi passando sui cadaveri degli altri. Una gara leale in cui metti alla prova le tue capacità ed essere sincero soprattutto con te stesso per capire sempre di più chi sei. Conosci te stesso di socratiana memoria dovrebbe essere a fondamento di ogni cosa che fai. E le tre leggi del lavoro ben fatto (mi ricordano le tre leggi della robotica di Asimov che hanno fatto storia nella fantascienza e non c’è film o racconto che non ne tenga conto) dovrebbero essere fissate in ogni contratto, in ogni accordo, anche verbale, tra le parti che lo sottoscrivono o semplicemente stampate su un cartello esposto, a memento, da ogni lavoratore autonomo. Nel caso di contratto tra le parti è importante sia per il datore di lavoro sia per chi lo svolge. Mi batto da una vita, anche come piccolo sindacalista locale, per una maggior attenzione ed attuazione degli enunciati delle tre leggi e lo faccio non difendendo a priori una sola parte come spesso succede a sindacalisti che cercano solo approvazione dagli iscritti ma cercando sempre la giusta individuazione del problema sorto e, con il dialogo ed il rispetto, portarlo a soluzione.
La prima legge è un dogma che non ha bisogno di spiegazione o commenti. E’ il concetto di lavoro sine qua non ogni discussione è inutile. Io credo che chiunque lavori, pur inserito in questo contesto moderno di edonismo materiale, secondo me sempre esistito ed oggi solo accentuato dalla globalizzazione, non possa sfuggire alla soddisfazione di vedersi riconoscere, anche solo idealmente ed in modo temporaneo, una dignità, un valore sociale al proprio lavoro, qualunque esso sia. Battersi per questo dovrebbe essere molto più importante di ogni altra battaglia da fare, nella vita e soprattutto nel lavoro, tornando al gioco ed al bambino che c’è dentro di noi. I bambini sono molto seri quando giocano e nel contempo si divertono. La prima battaglia culturale da fare nel mondo del lavoro è ben precisa ed identificata. La voglia di lavorare e farlo bene, in qualunque contesto, pubblico o privato, deve essere il punto base, mettendoci tutto quel che abbiamo, senza lesinare alcunché. Base sulla quale poi rivendicare l’eventuale inosservanza delle altre due leggi del lavoro ben fatto. Come dire se io non mi sento a posto con me stesso, con quale faccia mi presento ad un tavolo di rivendicazioni. Di riflesso deve essere anche una specie di ricatto morale e sociale verso chi pensa di sfruttare, solo per interesse personale, un bisogno di persone che si portano sulle spalle l’handicap, pesante come un macigno, della miseria o del bisogno, elementi devianti e fuorvianti per tutte le componenti del mondo del lavoro. Infine, ultimo ma non meno importante, occorre sempre tenere presente che in ogni lavoro in cui siano previste interazioni con altri parti sia in un rapporto subordinato o di coordinamento, la collaborazione e la partecipazione è una attività fondamentale per un lavoro ben fatto.
Un’ultima cosa sull’anello debole della catena, secondo il mio parere, cioè il lavoro dipendente in cui è imprescindibile uno stato sociale di cui fa parte a pieno titolo il datore di lavoro, che dia garanzie di continuità al dipendente e di parziale copertura previdenziale. E facciamolo un lavoro ben fatto e condividiamolo da esempio per tutti.
Anna Ruggiero
Vincenzo, come sai condivido tanto del tuo pensiero, penso che ci aiuti a riflettere e a confrontarci. Condivido ancora di più queste tre leggi e la voglia di mettersi in gioco ogni giorno per far bene e far del bene che tu chiami #lavorobenfatto e io #economiadellafelicità. Perché se una società inizia a comprendere che le conseguenze delle azioni individuali sono elemento cardine dello sviluppo collettivo si innesca un meccanismo di crescita intenso e perpetuo. Non è cambiare un luogo, una persona. E’ fare bene quello che si fa creando tante occasioni che diventano un mare in piena di opportunità di lavoro e di star bene.
Filippo Esposito
Buongiorno Vincenzo,
mi piace molto questa favola che sta nascendo.
In questi anni ho conosciuto persona stupende che mi piacerebbe presentarti al più presto, così da far crescere sempre di più questa bellissima comunità del #LavoroBenFatto e fare in modo che la favola diventi realtà.
Arrigoni Tiziano
Ciao Vincenzo,
sono pienamente d’accordo sui fondamenti, anche per etica personale (se si può usare una parolona simile ), li ritengo anche una forma di resistenza civile alla cialtronaggine che spesso impera nel nostro quotidiano.
Faccio con dignità un lavoro ben fatto perché è giusto, quasi come un imperativo kantiano in senso lato. Ho letto e riletto il punto 3 e so benissimo che c’è il gioco di essere collegato ai precedenti, ma io parlerei anche della responsabilità del datore di lavoro pubblico o privato che sia. In un mondo mediocre non è che la deresponsabilizzazione del datore, dirigente o chi vuoi porti all’annullamento almeno del punto 2? Non dovremmo sottolineare anche la responsabilità etica del datore nel valorizzare, se così si può dire, i primi due punti e renderli effettivi?
Un dubbio, eh, che non inficia il valore alto dei primi due punti. Tienimi informato sugli sviluppi.
Primarosa Pia
Mah, per esperienza personale posso affermare che si può lavorare [ intensamente] e creare danno, perché ogni lavoro prima di essere iniziato deve essere “pensato” e capito, anche nella sua intrinseca utilità collettiva. Anche distruggere il patrimonio, inquinare, disinformare è “lavoro”, però è giusto il contrario del “lavorobenfatto”.