Natale Russo, operaio elettrico

Natale Russo era un operaio elettrico, con la sua bella tuta blu con le due tasche grandi in petto e sopra in alto a sinistra il nome della ditta. Quarantadue anni trascorsi a portare la luce nelle case della gente – che ai suoi tempi era normale che un lavoro ti accompagnasse per tutta la vita -, e mai una volta che avesse accettato una regalia, nonostante si trattasse di una consuetudine abbastanza comune. C’erano colleghi che un poco qua e un poco là mettevano da parte un piccolo carusiello (salvadanaio; gruzzoletto) che a fine mese faceva comodo perché come si sa nelle case operaie tra figli, affitto e spese è normale che i soldi non bastino mai. Natale no, lui al massimo accettava un caffè, la mattina, o una presa (un bicchierino) di anice al pomeriggio, dopo colazione, che era la sua maniera di definire l’ora di pranzo.  Per lui quello era il suo lavoro, era pagato dalla ditta per farlo e bisognava farlo bene, che non è che quando prendi il treno dai la regalia al macchinista o quando compri il pane la dai al panettiere – così diceva ai colleghi che a volte si lamentavano di questo suo modo di fare.
Intendiamoci, non è che a Natale il carusiello non avrebbe fatto comodo, con una moglie e sei figli le necessità erano tante e i soldi della ditta di certo non bastavano, ma per questo Natale quando si toglieva i panni dell’elettricista, in pratica la sera dopo le cinque, il sabato e qualche volta anche la domenica, si metteva quelli del muratore, dell’imbianchino, del piastrellista, dell’idraulico, del riparatore di elettrodomestici, che per fortuna sapeva fare bene tante cose, e andava avanti fino alle nove e mezza, alle dieci di sera, a seconda della tipologia di lavoro e dei tempi che aveva pattuito per portarlo a termine.
 A un certo punto la vita, che lei ti toglie e ti dà senza darsene pensiero, gli aveva portato via Maria, che per fortuna si erano sposati che avevano 19 anni e perciò i figli erano già tutti adulti, perché altrimenti chissà se ce l’avrebbe fatta. Perché anche se non ci piace la verità è che quando muore qualcuno nelle case dei ricchi ci si può dedicare soltanto al dolore, non è obbligatorio pensare ad altro anche se poi succede perché i soldi mettono le persone uno contro l’altro, mentre nelle case dei poveri non si può fare, si devono fare i conti per forza con le conseguenze pratiche, anche se questo Natale non l’avrebbe mai ammesso, che lui era fatto così, proprio non ne voleva sapere di considerare i soldi una cosa importante, diceva che l’unica cosa che vale veramente nella vita è l’amore, l’amore che hai per le persone, l’amore che hai per il mondo, l’amore che metti in quello che fai.
Rimasto solo, che si a un certo punto i figli prendono ciascuno la propria strada, Natale decise per prima cosa di cambiare casa, che in quella dove stava proprio non se la sentiva di rimanere, e così affittò due stanze, cucina e bagno a un paio di isolati di distanza da dove stava Pasquale, il terzo dei figli. La seconda cosa che decise fu che lui la fine del pover’uomo non l’avrebbe fatta. Su questo punto qua, che poi non era mica solo questo, era irremovibile: non c’è niente di male a essere un uomo povero ma essere un pover’uomo proprio no, dunque nella sua nuova casa niente elettrodomestici, cucina e tutte quelle cose che l’avrebbero spinto a chiudersi dentro, perché lui la mattina avrebbe fatto colazione al bar, a mezzogiorno avrebbe mangiato alla trattoria del suo amico Gennaro e la sera sarebbero bastati due biscotti o una frutta, che alla sua età tutto quello che mangi di sera ti fa soffrire di notte, almeno lui così diceva. La terza cosa fu che lui nella sua nuova casa sarebbe stato felice, con il suoi libri da leggere, che lui era sempre stato un uomo curioso e adesso finalmente per leggere aveva tutto il tempo che voleva, e le sue cose da scrivere – appunti personali, riflessioni, qualche frase o massima tratta dai libri che leggeva – che questa era stata una scoperta recente, dovuta al figlio più grande, l’ingegnere, che gli aveva fatto trovare la scatola con il computer il giorno della pensione con sopra appoggiato un foglio dove aveva scritto in bella evidenza «è venuto il momento di imparare a usare anche questo nuovo attrezzo». La quarta e ultima, quella che poi in realtà per lui era la più importante di tutte, fu che doveva fare qualcosa per tramettere ai più piccoli il valore e l’importanza del lavoro.
Non è che avesse un’idea precisa di come fare, ma adesso una cosa che non gli mancava era il tempo e così ci pensò e ci ripensò fino a che non si convinse che la cosa migliore era parlarne con Enrico, il figlio del suo amico Federico, che lui faceva il preside della scuola media del quartiere e se vuoi parlare con i ragazzi è difficile trovare un posto più adatto di una scuola. Fu così che la sera stessa gli telefonò e qualche giorno dopo lo andò a trovare per dirgli del suo progetto e del perché pensava che fosse importante raccontare ai ragazzi che tutte le cose che abbiamo intorno – il pane, le patatine fritte, i vestiti, i quaderni, i telefonini, i computer, la televisione, la metropolitana -, non arrivano dal cielo né sono il frutto di qualche potente magia, ma esistono solo grazie al lavoro delle persone, donne e uomini normali che ogni mattina si alzano e con la loro dedizione e le loro capacità fanno si che ognuno di noi possa fare tutte le cose che fa e usare tutte le cose che usa.
Chiunque avrebbe capito che dietro la semplicità delle parole di Natale c’era un concetto importante, Enrico più di tutti, che lui se ne accorgeva ogni giorno parlando con i figli che l’idea del lavoro e del suo valore si stava perdendo, che a contare era solo l’oggetto e il suo possesso e, cosa ancor più grave, che troppo spesso era il possesso dell’oggetto a determinare l’identità e il valore di chi lo possedeva. Quante volte l’aveva sentito dire: «quello è uno buono, ha il Rolex», o «ha le Hogan», o «ha la Jeep»; sì, quella di Natale era decisamente una buona idea, e così tempo poco più di una settimana e il consiglio di istituto approvò la proposta di istituire un Laboratorio dei Mestieri che sarebbe stato aperto per 6 ore a settimana – 3 ore il Martedì e 3 il Giovedì – e avrebbe coinvolto 20 ragazze e ragazzi dalla prima alla terza media. A dirigere il laboratorio, assieme a Giulio Acampora, un giovane prof. di Matematica aspirante scrittore, ci sarebbe proprio stato lui, Natale Russo.
Quelli che vennero dopo furono quattro anni molto belli per Natale, che insegnò tante cose ai ragazzi e molte altre ne imparò prima di raggiungere la sua Maria, che a volte per fortuna non c’è bisogno di fare nulla, solo dormire, sognare e volare via.
A scuola invece da allora non hanno mai smesso. Giulio non è più giovane ma è ancora lì e dopo gli anni di Domenico adesso c’è Sofia, una delle prime ragazze della terza media, che nel frattempo è diventata architetto e ha messo su un FabLab, il FabLab di Natale, proprio così l’ha chiamato, che ha avuto tanti riconoscimenti in Italia e anche all’estero e quest’anno avrà bisogno di altri giovani di valore per portare avanti i propri programmi.
Sofia non ha mai tempo per niente, ma per il Laboratorio dei Mestieri si, che adesso ci sono tante richieste e bisogna fare una selezione per individuare i ragazzi, prima di tutti quelli che vivono in famiglie a basso reddito, che poi lei quando arriva il primo giorno non si scorda mai di dirlo che questa possibilità la devono a Natale, operaio elettricista, che nella vita ha amato tante cose, più di tutte Maria, il lavoro e i suoi figli.
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