Caro Diario, Laura Bertolini è entrata nella mia vita social non molto tempo fa, grazie a un commento in risposta a un comune amico, Tiziano Arrigoni. Da allora, ogni tanto, compatibilmente con le 9 ore di fuso orario che dividono l’Italia dalla California, facciamo due chiacchiere via chat, proprio come è successo qualche giorno fa, quando le ho chiesto se aveva una poesia dedicata al grano da poter pubblicare nei miei racconti.
Trascorso qualche minuto, Laura mi ha risposto che no, non ce l’aveva, ma l’ha fatto con parole così delicati e gentili che ho deciso di respingere il sonno e continuare a chattare, e a un certo punto lei mi ha scritto «se mi dà un indirizzo mi fa piacere inviarle due miei libri autoprodotti», e così le ho segnato la mia mail e lei mi ha risposto «non mi occupo di ebook. Sono antica, artigiana del libro di carta; mi serve un indirizzo fisico, glieli invio via Amazon, glieli porterà il postino.»
Come dici amico Diario? Via Amazon potevo farmeli arrivare anche da me? E certo, glielo ho scritto anche, come sai mi fa particolarmente piacere acquistare libri di amici, ma lei mi ha risposto così: «io sono un’umile poeta (poetessa, sente come suona a trombone? No, io sono un flautino da gnomi campestri, va bene Poeta, che già ha il femminile incluso). Sono un’artista un po’ particolare. In che senso non lo so, ma so che in me c’è una bestiolina che ogni tanto si sveglia e mi dice cosa devo scrivere. Mi stravolge i sensi, mi lascia a terra mezza morta, mi fa sudare proprio dai pori della pelle! Ecco che per me scrivere una poesia é un lavorONE, ma se non è ben fatto che lavoro è?! Non si preoccupi glieli mando io, se li compra lei deve pure spendere per leggermi.»
Caro Diario mi devi credere, io era da un po’ che ci pensavo, ma quando mi sono reso conto che Laura non è poeta solo quando scrive poesie ma è poeta sempre, sì sì, hai capito, non fa la poeta è poeta, non ho resistito e le ho chiesto se voleva raccontarsi qui, spiegandole che molte delle mie storie nascono così, da una cosa letta o detta, per genio e per caso.
«Sono una specie di rabdomante, un cacciatore di daimon», ho aggiunto, «e l’idea di raccontare il lavoro del poeta mi piace un sacco, anzi me lo racconta lei, che dice?»
Cosa è successo dopo cerco di dirtelo in fretta: lei è stata contenta, mi ha chiesto di sentirci via mail «perché qui scorre tutto così velocemente da ridurre le conversazioni a un flusso spontaneo ma poco ragionato», mi ha scritto il suo indirizzo e io le ho inviato le mie domande che poi come sai più che domande sono una sorta di guida per spiegare cosa mi piace raccontare.
Prima di farti leggere il fantastico racconto di Laura – non dire finalmente che tanto ti ho sentito – devo aggiungere un’altra cosa che mi ha scritto via chat e che mi aiuta a spiegare meglio in che senso – per me – lei non fa la poeta ma è poeta.
Eccola: «Caro Vincenzo, le arriveranno due separate spedizioni (non so come mai) quindi riceverà prima I colori dentro, che è il mio lavoro preferito ma anche l’ultimo in ordine temporale e, successivamente, le verrà recapitato Extreme Fishing, che è una raccolta. La differenza tra i due lavori, al di là del fatto che sono stati scritti in anni diversi, é che I colori dentro è un vero e proprio progetto, con una logica ed un organizzazione intenzionali. Anche Extreme Fishing ha un movimento e quindi una storia, ma è come una scatola piena di cose.»
Ecco, passo la parola a Laura, torno alla fine per due righe due di commiato.
«Caro Vincenzo, sono Laura Bertolini, ma al mio paese e dintorni sono sempre stata riconosciuta come Laurina. Laurina, per almeno trent’anni, è stato molto più che un nome e cognome. “Ina” perché sono piccolina, “una miniatura”, mi dicevano da bambina.
Fin dalle elementari ho dimostrato una particolare sensibilità, mista a curiosità, per il prossimo mio e per tutto ciò che componeva lo spazio a me circostante: umani e animali, alberi, fiori, terra, mare e pure le pietre se avevano una forma in cui io potessi vedere un senso.
Tutto mi parlava, anche il vento aveva una voce. Ero una bambina capace di vedere oltre la semplice materia e di sentire cose che andavano oltre il semplice udibile.
C’era mia nonna materna, garfagnina doc., che forse aveva un mio simile DNA ma dilatato in una donna enorme che a me sembrava grossa come un armadio. Mi raccontava dei buffardelli, degli spiriti dei boschi, del malocchio e della buona sorte che arrivava solo dopo averlo disfatto. Si metteva in cucina con un piatto colmo di acqua e brontolava alcune parole mentre faceva cadere delle gocce di olio che si dilaniavano appena sfioravano il pelo dell’acqua: “eh bimba, tu hai il malocchio, ma ora ci pensa la nonna!”. Non c’era niente a cui non credesse e se un vento, o un albero, mi parlavano, lei mi suggeriva di ascoltare.
Abitava in Garfagnana, dalle parti della casa del Pascoli. Quella casa l’ho visitata quando avevo da poco imparato a scrivere. Dentro quella casa, quel giorno, mi sono ritrovata sola e nei miei ricordi vivi c’è questo poeta che mi mette una mano sulla testa e mi dice “Scrivi le tue poesie. Scrivi”. Solo che Pascoli era morto nel 1912 e io nascevo nel 1978. Niente di strano per mia nonna, gli spiriti dei morti parlano ai bambini e anche a certi adulti speciali.
Di fatto ho iniziato a scrivere poesie quando avevo 8 anni e questi spiriti continuavano a parlare e io, come mi aveva insegnato mia nonna, ascoltavo, sentivo e scrivevo. C’era in me anche una fissazione strana, come una memoria viva che non apparteneva a niente di realmente tangibile: mi ricordavo di una tribù, di gente che viveva libera e che io conoscevo.
Mio padre, pacifista e dalla parte degli animali, operaio dello stabilimento siderurgico di Piombino, mi insegnava ad avere rispetto di tutti e a lottare non solo per me stessa ma anche per gli altri, amava dilettarsi nella pittura e nel disegno. Da bambina lo vedevo poco, ma capivo che c’era il lavoro salariato ma che non si doveva mai perdere il contatto con il lato artistico che è in noi, quando c’è. Lo vedevo poco, ma ricordo di aver raccolto molte piume di uccelli, legni e molti altri piccoli tesori, quando camminavamo insieme in riva al mare o nella pineta. Non ho mai neanche pensato che le piume potessero portare malattie o che non si potessero toccare, non ho mai pensato che un sassolino brillante fosse meno importante o meno bello di una pietra sull’anello in vetrina dall’orefice. Mio padre crede nelle piccole cose, credeva anche alla mia tribù e non a caso aveva dipinto un piccolo nativo americano come regalo per la mia nascita.
Tutto ha una logica in questo mio mondo Vincenzo.
Mia mamma ha sempre avuto il ruolo enorme di caregiver, cioè colei che si prende cura: la casa, me, ma soprattutto gli anziani della famiglia di mio padre, perché lei dalla Garfagnana era scesa fino al mare! Una cosa molto grande per una che aveva avuto sei fratelli, cresciuta nella mezzadria di un paesino sperduto sulla montagna, con il padre ed un fratello morti tanto presto.
Lei è la figlia della nonna Elvira che, per dirla tutta, si chiamava Elvira Zulima Luigia e aveva pure due cognomi! Quella mia nonna, che per me era una specie di guru, era stata per lei una madre severa e piena di problemi.
Mia mamma vide il primo gabbiano e pensò che fosse una poiana, il falco che sorvola le lande da cui lei veniva. Stare sulla costa per lei rappresentava un grande avanzamento di status, ma la sua educazione a fare, lavorare, provvedere alla cura di chi aveva bisogno, era la cosa che portava in valigia più di tutto il resto.
Mia mamma si è sempre data da fare. Con me ha giocato poco, magari in casa mia non esisteva la lettura e di roba culturale ne girava davvero pochissima, ma ho imparato cose ben più grandi in questo rimanere umili e onesti. La lettura, la cultura si imparano anche dopo e i paroloni servono a poco se si han solo quelli. Comunque questo fatto che mia madre spicciasse casa e poi corresse a fare le commissioni per gli altri, lasciava me un po’ per conto proprio, ma non ero mai sola perché c’era con me tutto il mio mondo fatto di cose animate e di suggestioni.
Mio nonno paterno invece, che morì presto e mi rimasero tutte le lezioni da finire, mi insegnò la musica. La musica sul pentagramma, che lui conosceva bene perché suonava la tromba ed era anche presidente della banda cittadina! Ci sono finita anche io in questa banda, portando l’orgoglio di questo nonno altissimo che non c’era già più. Non ho mai amato la divisa, non mi è mai piaciuto marciare, non sopportavo di dover suonare quel flauto in prima fila, ma la musica, il ritmo, la melodia mi sono entrate dentro così presto. Oggi ho un orecchio musicale che mi fa stare male ad ogni nota stonata e purtroppo ne sento tante, anche metaforicamente parlando.
Non ti ho ancora detto Vincenzo che devo avere qualche bel difetto di discalculìa, nel senso che i numeri mi si ammonticchiano a caso nel cervello, non mi riesce di contare e vado in pappa di fronte a qualsiasi calcolo matematico, ma non fu un problema per la mia maestra elementare che, a soli sette anni, mi fece leggere Il Piccolo Principe e mi disse che a me la matematica non sarebbe mai servita. “Tu scriverai poesie da grande”, mi diceva così e mi faceva leggere le poesie di poeti grandi, c’era anche Pascoli e la sua cavallina storna, c’era Carducci con quella pargoletta mano e quella nonna Lucia e io piangevo, le sentivo tutte quelle parole, mi tremava il cuore. La mia maestra mi insegnò l’analisi logica e grammaticale che io recepivo come se fossi un genio precoce, mentre i numeri, oddio quelle tabelline! Potevo recitare a memoria tutto il V Maggio, ma la tabellina dell’8 e del 9 erano angosce senza fine e occhi ribaltati fino alla resa.
Alle scuole medie ero nella classe dei figli degli ultimi, quelli che beati loro saranno i primi … ma in realtà nessuno arriva primo se parte svantaggiato e lo si fa sentire tale.
In me quei professori vedevano solo limiti e che scrivessi bene, che scrivessi poesie bellissime, non potettero negarlo ma dissero a mia madre: “questo signora è un dono di natura, per il resto è appena sufficiente”.
Un dono di natura. La natura, vedete, la mia Madre Terra che mi aveva dato in dono la poesia. Con questo bollino, potevo starmene in ultima fila insieme a quello che oggi è un mio amico tossicodipendente. Quando lo vedo, lui che è sempre più marcio, mi dice ancora: “eri l’unica in quella classe che mi voleva bene”.
Io volevo sempre bene a tutti e le ingiustizie mi facevano salire in piedi sui banchi e picchiare i pugni sui tavolini. Mi sarei fatta pestare pur di difendere il diritto di un altro e così venni pure etichettata come testa calda rivoluzionaria, anzi, per usare un termine affibbiatomi da uno dei professori universitari quando studiavo per diventare Assistente Sociale “sanguigna”. Mi disse così, che sono sanguigna. Non è una cosa brutta, no? Se c’è sangue significa che sono viva. Appena sufficiente, ma ero anche quel prodigio che spiazzava gli adulti ai concorsi di poesia, la Laurina che scriveva poesie e lasciava tutti a bocca aperta. Tu vacci a capire qualcosa.
Oggi ho 40 anni e scrivo ancora poesie, perché su una cosa avevano ragione quelli delle scuole medie: la poesia mi appartiene per natura.
La poesia sono io, quel “sanguigna” è poesia perché essa mi scorre nelle vene e mi fa funzionare il cuore, perché è la chiave che mi spalanca tutte le porte del mondo visibile e invisibile, perché è la mia casa, la mia prateria, il mio bosco.
La poesia è la mia pelle, corre e scorre in e da ogni mio poro.
La poesia abita dentro ai miei occhi neri, è il sapore delle mie lacrime, la nota della mia voce, mi esce anche quando mi arrabbio forte, o quando accarezzo un gatto, ma non mi lascia sola neanche quando me la prendo con lei, quando le dico che non serve a niente essere poeta, che rimarrò sempre mediocre per colpa sua e lei mi guarda, da dentro di me, mi prende la testa tra le sue mani trasparenti e mi dice di avere fiducia in lei.
L’amore per le arti mi ha portata anche verso il teatro: ho studiato recitazione sia nella scuola Artimbanco del Comune di Cecina, sia all’Ordigno di Vada, fino ad arrivare a Lucca, dove ho fatto parte di una scuola dove ho perfezionato la tecnica e la dizione.
Ho lavorato su Brecht, Santa Giovanna dei Macelli che ho sentito così simile a me per attitudine e coraggio, sia quando sono entrata a far parte dell’Opera da tre soldi messa in scena al teatro Goldoni di Livorno sia pure con una piccola parte.
Ho fatto parte di una compagnia teatrale che si chiamava La Soffitta, ho avuto il piacere e l’onore di conoscere studiosi della maschera come Mastropasqua e il maestro artigiano Ferdinando Falossi che mi ha parlato tanto del grande Carmelo Bene, di realtà tribali che egli stesso ha vissuto in prima persona, ricollegandosi alla mia passione innata per i Nativi Americani e che mi ha incitata a seguire le inclinazioni personali senza timore di essere semplicemente quella che sono, restando creativa, facendomi sentire nel giusto pur essendo diversa dalla massa.
La mia identità di singola che ha qualcosa da dire e da dare a tutto il gruppo. Così è stata la mia formazione artistica, che successivamente è servita nel mio mettere in piedi reading poetici, dove da sola leggo al pubblico qualcosa a cui io stessa ho dato vita. Niente di quello che ho sperimentato e vissuto, benché avesse avuto un inizio e una fine, è andato mai perduto. Gli strumenti che ho acquisito nei primi 20 anni di vita mi sono serviti a diventare una poetessa indipendente che, dopo aver sperimentato il lavoro edito da alcune piccole case editrici, ha potuto decidere e scegliere di restare leale all’autenticità di un lavoro che si evolve e muta in maniera autonoma rispetto alle tendenze, cresce e matura come cresce e si irrobustisce una pianta selvatica.
Mi sono inventata e reinventata, ho abbracciato le sfide della vita, mi sono mantenuta con lavoretti saltuari, mi sono laureata come Assistente Sociale, ma non ho mai perso di vista la mia identità di poeta.
Mi sento poeta nell’eccezione più primordiale e non vedo la mia vita personale distinta da quella artistica, non scrivo per essere vendibile; io scrivo perché vivo e la mia poesia è tutto ciò che voglio si sappia di me.
Rifiuto e ho rifiutato molte proposte editoriali perché le ho ritenute inammissibili. Troppe volte un giovane autore si trova coinvolto in pubblicazioni dove si richiede il pagamento da parte dello scrittore, ma dopo i vent’anni e diverse esperienze ho sentito l’esigenza di essere un’artista indipendente.
Il mio è un vero e proprio essere e non potrà mai essere un mero apparire. Ben volentieri ho collaborato gratuitamente ad alcuni progetti artistici e sono stata selezionata e pubblicata con singole poesie, ma per il resto ho scritto e stampato da sola. Ho regalato le mie poesie scritte su pezzi di carta, ho partecipato a concorsi piazzandomi quasi sempre tra gli autori scelti e segnalati, ne ho anche vinti (recentemente quello legato all’horror festival FIPILI 2016 “La paura fa novanta righe” e quello di MDS editore “Dipendenze”2017) e visto che, da una certa data in poi, ho preferito essere artigiana dei miei libri cartacei, questi premi in denaro mi hanno permesso di dare piccoli contributi a chi ha lavorato per me e per la pubblicazione dei miei libri.
I miei due libri Extreme Fishing (una raccolta uscita nel 2012) e I colori dentro, edito nel 2016, sono state le mie due soddisfazioni più grandi. Ho amato molto la libertà di poter disporre e di poter decidere in prima persona riguardo alle mie poesie, le copertine come collaborazioni (Sara Bergomi per l’illustrazione di Extreme Fishing e Lorenzo Lessi per la fotografia di copertina di “ I colori dentro”), il magistrale lavoro di design dell’americana Adriana Macias e la bellissima prefazione di I colori dentro a cura di Eleonora Manca visual artist e poeta, hanno dato valore aggiunto alle mie poesie. Sono riuscita ad inventarmi intere serate di reading poetico, anche grazie al supporto della giornalista Silvia Trovato, grande amica, sempre disponibile ad aiutarmi con i comunicati stampa attorno al mio Comune di nascita, ho portato le mie poesie nelle piazze, negli eventi, ospite di altri artisti come la scorsa estate con Giovanni Krinner (pittore) e Beatrice De Laurentiis (pitto-scultrice), mi hanno aperto le porte di locali e salotti letterari (come quello curato da Rossana Fatighenti per Tocca le Stelle a Montenero), giardini poetici e borghi.
Ho sperimentato la poesia anche con la musica, nel progetto Lesta Sinutre, insieme a Davide Salvatori (frontman e chitarrista dei Cromosauri, un gruppo toscano di musica rock-grunge).
Se è vero che queste per il mondo sono piccolissime cose, credo fermamente nella sacralità di ogni singola esperienza nella venerabilità della bellezza in qualsiasi sua forma.
Questo mondo, sempre più fruitore rapace della bellezza e sempre meno consapevole di come coltivarne i semi, ha bisogno del battito d’ali della poesia scritta bene.
La poesia vibra, scorre, connette le persone, dà voce al sentimento, provoca emozioni vive. Io sono solamente un tramite.
Ho lasciato la mia Toscana, ma resto ad essa ancorata con tutte le mie radici. Oggi vivo negli Stati Uniti, a Davis, in California perché ho seguito un grande amore. Parlo di un caso tutto italiano, un ricercatore laureato a pieni voti, uscito dall’esperienza del Sant’Anna a Pisa, costretto ad emigrare fino in America per poter fare ricerca con uno stipendio che gli permettesse di vivere. Lavoravamo in due, io per una Cooperativa sociale e lui come ricercatore al CNR con assegno di ricerca. Riuscivamo a malapena a pagarci l’affitto e la spesa di tutti i giorni. Siamo venuti negli Stati Uniti come si parte per un’esperienza temporanea, credevamo di rientrare presto in Italia, con un bagaglio di vita in più, io poi che non capivo una parola d’inglese, mi immaginavo inserita e con una lingua in più per poter scrivere e condividere in maniera internazionale ma riportando questa ricchezza nella mia terra nativa.
Dopo quasi 10 anni siamo ancora qui, l’Italia non offre posizioni lavorative, non è possibile tornare indietro. Io non mi sento ancora inclusa in questa società (e forse non lo sarò mai), se non per il fatto che ho incontrato davvero “la mia tribù” e ho avuto l’onore di essere stata adottata da un gruppo di Nativi Americani, con cui mi incontro e prendo parte a cerimonie e preghiere.
Mi dico che c’è un senso a tutto, che bisogna sempre seguire i segnali dell’Universo.
Mia figlia, nata a Dicembre del 2012, è bilingua, ha la mamma poeta e il padre Ingegnere ricercatore nelle telecomunicazioni, ha una storia, che inizia prima di lei, che la mette dentro a due culture diverse ed è speciale anche per questo. Io sto lavorando ad un nuovo libro, una raccolta di sillogi, che vedrà come tema centrale il viaggio. Benché rimanga affezionata all’autoproduzione, questo lavoro sarà quasi sicuramente edito da una casa editrice Toscana, di quelle a cui si arriva solo e soltanto per merito e non certo pagando.
Una mia poesia è stata tradotta e pubblicata nell’antologia per Davis nel 2011, ma è stato un caso particolare perché, ad oggi, preferisco la sonorità della lingua italiana e non sempre la poesia tradotta in Inglese mi dà le medesime vibrazioni.
Per questo motivo continuo a rivolgermi all’Italia, anche se questa mia vita all’estero contamina inevitabilmente i temi trattati e anche il linguaggio poetico che, di tanto in tanto, si arricchisce di qualche parola straniera.
Rimango ancorata alle mie radici, alla mia tradizione, ai sapori e agli odori della mia terra, della mia infanzia, del mare che non è Oceano e ci si può nuotare nudi.
La mia libertà non scende facilmente a compromessi, il raziocinio viene sempre dopo l’istinto per me. Forse per questo mi prendo cura dei fiorellini intorno casa, forse per questo rimango ad ammirare il volo degli uccelli, forse per questo rispondo “Poesia” alla domanda “cosa fai nella vita?”, forse per questo non capisco perché ad essa segua la domanda “Si, ma cosa fai per vivere?” “Scrivo”.
Non riesco a vedermi in altro modo. Quando scrivo sono in contatto con la mia pancia, con le mie viscere. Necessito di spazio, di solitudine. Scrivo spesso durante la notte e rileggo di giorno, sento come una gestazione dentro di me e quando la parola è scritta è un momento che si chiude, lasciandomi priva di forze e stanca.
Non sono uno di quei poeti che scrive poesie tutti i giorni; io scrivo solamente in momenti speciali nei quali mi disconnetto anche dalla mia essenza fisica. Vado oltre, in altre dimensioni, dove le immagini e le voci si manifestano e a me non resta che scrivere e scrivere ancora.»
Ecco caro Diario, questa è lei, che io mi sono commosso per la bellezza con cui ha raccontato la sua vita attraversata dalla poesia. Per il resto ancora solo una curiosità, quando le ho scritto di mettersi a lavorare perché con le cose che mi aveva scritto in chat mi aveva fatto venire una voglia matta di voglio leggere la sua storia vuoi sapere cosa mi ha risposto? Questo:
«Ho già chiamato una babysitter per intrattenere la bimba di 5 anni mentre io scrivo in pace e mi presento a lei come si deve. Se mi metto a fare una cosa la devo fare bene o niente. Tra domani e Martedì cerco di finire il tutto! I CAN DO IT!.»
Basta. Ti ricordo solo che se vuoi leggere alcune delle sue poesie le trovi qui mentre la sua pagina social la trovi qui e ti saluto.
Post Scriptum
Scusami amico Diario, ho scritto a Laura chiedendole se possiamo darci del tu, dopo aver letto la sua storia è come se si fosse creata un’intimità, il lei non mi sembra più adatto alle nostre conversazioni.