ANNO DI GRAZIA 2054, 6 AGOSTO, CASA CROCCIA
Michele è in attesa di collegarsi con New York. In occasione del suo 80° compleanno, il fondatore de La Pietra Azzurra sarà ospite di Diane Nyt Fox, conduttrice del più importante talk show degli Stati Uniti. Mancano due minuti alle 23:00, ora italiana, quando la giornalista appare sul grande schermo. I saluti, un veloce controllo della qualità audio e video e si comincia.
Diane Nyt Fox: Buona sera maestro, comincerei dal suo libro, “Impasto Pizze, Sforno Storie”. Un libro per certi versi profetico nel quale racconta di pizzaioli che fanno i testimonial per catene di pizzabot. Di bracci meccanici che sono convenienti perché sostituiscono il lavoro di tre persone e però lavorano impasti “morti”, nel senso che sono sempre uguali, hanno caratteristiche che non cambiano nel tempo, cosicché quello delle otto di sera è uguale a quello delle dieci e a quello di mezzanotte. E di tanti bravi pizzaioli che invece, nel corso di una serata, sanno cogliere questi cambiamenti e fare le rettifiche che servono per ottenere una pizza di ottima qualità, i pizzaioli come lei e i suoi figli che continuano a fare ricerca e a portare a tavola un prodotto di prima scelta. Alla fine, a precisa domanda, “Michele, detto tutto questo, ma secondo te avremo ancora qualche speranza di mangiare una pizza come si deve nel 2050?”, lei risponde “se Dio vuole, sì.”
Ecco, adesso che il 2050 è alle spalle e queste cose sono già accadute, lei è ancora convinto che ci sia futuro per la pizza di alta qualità?
Michele Croccia: Buona sera a lei. La mia risposta oggi è “dipende”. Se c’è futuro per il mondo, se c’è futuro per noi umani allora c’è futuro anche per la pizza. Vede, io è da quando ho aperto la mia prima pizzeria, quasi 60 anni fa, che sono convinto che il discorso è più ampio della pizza. È un discorso che riguarda la terra, il cibo, i produttori, i trasformatori, i consumatori, i futuri possibili e desiderabili. E sono almeno 40 anni che in ogni parte d’Italia e del mondo in cui mi trovo parlo e sento parlare di sostenibilità, di salvaguardia del pianeta e di altre cose così. Il problema sa qual è?
DNF: Immagino di sì, ma me lo dica lei.
MC: Il problema è che continuiamo a parlare troppo e a fare troppo poco. Non a caso, quello che nel 2022 era un auspicio oggi è una vera e propria urgenza. Io sono solo un piccolo tassello di un puzzle enormemente grande, ma quando ho cominciato a raccontarmi come pizzaiolo contadino, che questo ero e questo sono ancora oggi, l’ho fatto con la consapevolezza che il racconto doveva essere aderente alla realtà, che quello che dicevo doveva essere confermato ogni giorno da quello che facevo. È questo che nella mia vita ha fatto la differenza.
Sostenibilità, ambiente, cibo buono e sano non possono essere soltanto parole, devono rappresentare il nostro esssere, il nostro sangue, il nostro cuore, il nostro stile di vita.
DNF: Va bene, questi sono i suoi valori e la sua storia, quelli che ha condiviso con la sua piccola comunità cilentana, Caselle in Pittari. Possiamo dire anche che è il senso del suo luogo natìo, la Creta. Però ho una domanda: come fa a fare il “pizzaiolo contadino” chi sta a Milano, a Parigi, a Londra, qui a New York? Nel suo Cilento è facile, ma nelle grandi metropoli come si fa?
MC: Mi perdoni ma penso che la prima discriminante non sia questa.
DNF: E qual è allora?
MC: Crederci, essere soggetti reali del cambiamento, dire le cose per farle, non soltanto per apparire. Non si può parlare di sostenibilità, di filiera agricola, di produzione propria con un campo di 10 metri quadrati. Così non è sotenibilità, è insostenibilità, sono parole al vento, è comunicazione e basta. Oggi sostenibilità vuol dire per prima cosa essere consapevoli che una buona parte, o comunque troppa parte, di quello che abbiamo fatto fin qui è solo un’operazione di facciata, che in quanto tale non va nella direzione giusta.
DNF: E quale sarebbe secondo lei la direzione giusta?
MC: Quella che ci fa ritornare sui nostri passi, che ci porta a credere in quello che facciamo, a lavorare e vivere ogni giorno in maniera sostenibile. È un cambiamento di approccio non semplice ma assolutamente necessario. Dopo di che è vero che non sempre ci sono le condizioni per utilizzare i prodotti della propria terra ed essere pizzaioli contadini, ma crederci vuol dire anche fare sistema con chi lavora la terra nel rispetto delle regole della sostenibilità. Persone e imprese così ci sono dappertutto, nel Cilento, in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. E parlo di regole che sono anche di buon senso: perché io che lavoro nel Cilento dovrei usare il grano che viene dal Canada? E naturalmente vale lo stesso all’incontrario.
DNF: Lei in pratica sta dicedo che si può fare sistema, costruire reti di produttori e di distributori di vicinanza che operano al di fuori delle logiche di sfruttamento e di dominio delle grandi multinazionali della produzione e della distribuzione?
MC: Esatto. E aggiungo che ci sono esempi di questo tipo che si perdono nel tempo. Per esempio in Italia i monti frumentari, o monti granatici, sono nati centinaia di anni fa con lo scopo di distribuire ai contadini poveri, con l’obbligo di restituzione, il grano e l’orzo che serviva per la semina. Naturalmente io sono felice e orgoglioso che nella mia piccola Caselle in Pittari ci sia la Copperativa Monte Frumentario Terra di Resilienza, ma so anche che il punto è fare in modo che quelle che fin qui sono eccezioni diventino regola, si facciano, per l’appunto, sistema.
Ancora una volta è anche una questione di buon senso. Che senso ha utilizzare prodotti che per arrivare da me devono fare tantissimi chilometri quando nella mia terra ci sono in abbondanza prodotti di ogni tipo, dai formaggi ai salumi, dagli ortaggi al grano? Per carità, posso anche fare una pizza con prodotti nazionali o internazionali, ma deve essere l’eccezione, la regola rimane quella di utilizzare e valorizzare prodotti di alta qualità il più possibile vicino a noi. Alla fine se uno che arriva dagli Stati Uniti viene a mangiare la pizza nel Cilento vuole trovare prodotti del Cilento non degli Stati Uniti, quelli li tiene già ogni giorno a casa sua.
Per me, quando parliamo di cibo, bisogna prima di tutto valorizzare il nostro, il nostro di ogni luogo non solo del Cilento. E sia chiaro che va fatto non per essere chiusi ma per essere sostenibili, per valorizzare le differenze, valorizzare la diversità. In questo, il Cilento è fortissimo, perché ha tanti prodotti da poter valorizzare e dunque ognuno può specializzarsi e valorizzare i prodotti che ha più vicino nei periodi in cui sono disponibili. Anche in questo caso: qual è l’esigenza di mangiare un’insalata di pomodori a gennaio invece che nei mesi estivi quando i pomodori sono al massimo della loro espressione?
DNF: Lei sta parlando di un’agricoltura che rispetta i cicli naturali e i tempi di lavorazione.
MC: Sto parlando di un’agricoltura che rispetta la terra, i suoi cicli, il suo bisogno di diversità e di riposo. Non si può continuare a sovraccaricare continuamente di prodotti un pezzo di terra e a riempirlo di additivi. Sono pratiche che non ci portano da nessuna parte se non alla distruzione.
DNF: Lei ha ideato una sua teoria che ha definito dei cinque cerchi: Creta, Caselle in Pittari, Cilento, Campania, Italia. Anche il grano che utilizza è italiano, è così?
MC: Si, è così, ma non è una teoria, è l’approccio che usiamo io, mia moglie e i miei figli. Ribasisco che è un approccio di cultura non di chiusura. Io non denigro il grano canadese, se fossi vissuto e avessi lavorato come pizzaiolo in Canada avrei utilizzato il grano canadese, scegliendo naturalmente quello con le caratteristiche giuste per portare in tavola un prodotto sostenibile e di grande qualità. Sostenibilità e qualità che il grano che dal Canada arriva in Italia, così come le banane che dal Sud America arrivano in Italia, per definizione non possono avere. Non lo dico io, lo dicono i fatti.
DNF: Se dovessi riassumere in una sola frase ciò che ha detto fin qui direi che si predica bene e si razzola male. È d’accordo?
MC: Certo. E aggiungo che non ce lo possiamo più permettere. Il momento di predicare bene e razzolare bene è adesso, altrimenti “sostenibilità” resta solo una parola, solo immagine. Penso sia venuto il momento di alzare la voce, perché sono troppi quelli che si lavano la faccia, si truccano, con la parola sostenibilità. Se ci continuiamo soltanto a ripetere sostenibilità, sostenibilità, sostenibilità la nostra amata Terra finisce male.
DNF: Bisogna crederci. Fare. Cambiare. Tornare a dare senso alle parole. Nel tempo dell’immagine bisogna smetterla di fare le cose solo per immagine. È questo il suo messaggio?
MC: Non penso di avere messaggi da dare, sono stato e rimango un pizzaiolo contadino, adesso che sono vecchio ancora di più. Dico però che bisogna smetterla con i discorsi sulla sostenibilità in cui si arriva preparatissimi e si dicono cose bellissime che però non si fanno. Questa non è sostenibilità, è bla, bla, bla. O ci credi veramente e lo fai o stai zitto. Pe me questo è, e non vale solo per la sostenibilità, vale per tutto, per la visione, la leadeship ecc.
DNF: Può fare un esempio per chi ci sta guardando?
MC: È un piccolo esempio personale, molto piccolo, non so se va bene.
DNF: Anche molto piccolo va bene.
MC: Grazie. Quando nel 1997 ho aperto La Pietra Azzurra, a Caselle in Pittari la pizza si mangiava solo il sabato e la domenica, qualche volta il venerdì. Si pensava che durante la settimana non era pensabile tenere la pizzeria aperta perché economicamente non era sostenibile. La spesa non valeva l’impresa, come si dice. Io fui il primo a decidere di aprire tutti i giorni e non le nascondo che più di una persona, nella nostra comunità di 1800 anime copresi i vecchi e i bambini, pensò “ma dove vuole andare questo pazzo”. 25 anni dopo a Caselle, sempre con gli stessi abitanti se non di meno, c’erano tre pizzerie dove si mangiava la pizza tutte le sere. Non so se mi sono spiegato.
DNF: Si è spiegato a tal punto che proverei a collegare la visione alla sostenibilità, che dice? Per esempio, aveva previsto anche che, come poi è avvenuto, nei menu delle pizze ci sarebbero state meno pizze e più stagionalità?
MC: Alla mia età la presunzione è un peccato mortale, perciò le dico solo la verità. Già 30 anni fa, in una conversazione con un mio caro amico che se fosse ancora da queste parti oggi avrebbe 99 anni, a sua precisa domanda avevo risposto che nel 2054 la maggior parte delle aziende avrebbe lavorato con questo appoccio. A pensarci bene, anche nella parte del libro che lei ha citato all’inizio, quando parlo del costo della pizza che sarebbe stato maggiore, ragiono in questa direzione. Ricordo che parlai di una pizza che sarebbe costata 50 euro, e con l’aggiunta di una birra di qualità oggi stiamo lì. Il fatto è che lavorare bene, sostenibile, è diverso da lavorare male. E aggiungo che anche a questo proposito, già allora, c’era un ragionamento più ampio da fare.
DNF: Vale a dire?
MC: Vale a dire che al tempo in cui ne parlavo con il mio amico io e tanti altri come me pagavano 2000 euro o giù di lì per uno smartphone che a chi lo produceva, a dire di suoi colleghi giornalisti del tempo, costava, complice il feroce sfruttamento del lavoro compreso quello minorile, poche decine di euro. E poi ci ponevamo il problema se una pizza o un primo piatto passava da 12 euro a 14. Non le sembra un modo di pensare e di vivere assurdo?
DNF: Detto così è innegabile. Nella parte ricca del mondo avremmo sicuramente potuto e dovuto mangiare di meno e meglio. Mi sento di dire che anche qui il ruolo delle multinazionali del cibo e della distribuzione è stato molto negativo e ha generato nuove malattie sociali come per esempio l’obesità.
MC: Già. Solo un modo di pensare e di vivere senza senso ti può portare a spendere 2 mila euro per un telefonino e risparmiare sul cibo a discapito della qualità. Alcune cose sono cambiate ma è ancora troppo poco.
DNF: Già, un mondo migliore ci vuole mi viene da dire. Ci vuole sia nel senso che è necessario sia nel senso che ha bisogno di noi, della nostra intelligenza, della nostra capacità di cambiare.
MC: Ci vuole un mondo fondato sulla qualità. A partire dai valori, dai sentimenti, dai rapporti umani e anche dal cibo. Un mondo nel quale, come ho già detto, in ogni periodo dell’anno si mangia soltanto quello che c’è. Quando ci stanno i broccoli si mangiano i broccoli, quando ci stanno i pomodori si mangiano i pomodori, quando ci stanno i peperoni e la ciambotta si mangiano i peperoni e la ciambotta. Alla fine non è così difficile, non bisogna aver studiato un trattato sulla stagionalità per capirlo.
DNF: Giusto. Propongo di fare un passo indietro, o anche di lato per tornare al robot che fa le pizze di cui ha parlato nel suo libro e chiederle del suo rapporto con la tecnologia. In che modo la tecnologia ci ha aiutato, se ci ha aiutato, in direzione della stagionabilità, della qualità, dell’equilibrio, della sostenibilità? Scavando nella sua vita e nella sua storia mi sono fatta l’idea che lei è stato anche un innovatore. Penso al forno rotante nella sua pizzeria di Caselle, al Lieviti Lab, alle macchine tecnologicamente avanzate che ha saputo padroneggiare, ai sensori che ha messo nel campo per monitorare la siccità e non sprecare l’acqua, alla piattaforma sulla quale i suoi clienti potevano seguire il processo di crescita di ogni singolo prodotto da quando veniva piantato fino a quando veniva raccolto. Ritorno alla domanda: in che modo la tecnologia può essere uno dei muri maestri della sostenibilità? Come può aiutarci a migliorare il mondo?
MC: Le rispondo con un altro piccolo esempio tratto dal passato, mi viene più facile parlare di quello che è successo già. Più o meno 30 anni fa presi l’ultimo trattore, ultimo nel senso di modello di ultima generazione, a quel tempo disponibile sul mercato. Perché lo feci? Perché rispettava di più e meglio le regole della sostenibilità: minori emissioni di CO2, minore tempo di lavoro, minore fatica fisica, minor tempo di guida, maggiore riposo e dunque maggiore benessere per me. Il tutto continuando a produrre prodotti di altissima qualità in quantità giuste. Anche su questo bisogna che siamo chiari, perché non è che il fatto che uno acquista un mezzo con tecnologia più avanzata lo obbliga a produrre in quantità industriali. Bisogna produrre il giusto, quello che serve, e bisogna farlo sostenendo il proprio benessere e quello del pianeta, consapevoli che se prima servivano due giorni per fare un lavoro, dopo si fa in mezza giornata. E che questo significa ancora una volta minore inquinamento, meno fatica, più tempo da dedicare alla propria personalità, migliore qualità della relazione con il cliente.
DNF: Dunque più che “avanti” tutta possiamo dire uso intelligente e consapevole della tecnologia?
MC: Si, lo possiamo dire, e la storia dei sensori di cui lei ha parlato prima lo dimostra. In quella scelta ci fu un aspetto di condivisione di determinati valori che non va sottovalutata, perché in quel modo riuscimmo a raccontare in maniera autentica quello che facevamo, il nostro lavoro di ogni giorno.
DNF: Quindi lei pensa che la visione abbia che fare con l’autenticità, con il racconto?
MC: Non lo so, non mi faccia domande troppo difficili. Penso semplicemente che tutto si tiene, che ogni cosa è legata alle altre. Anche le nostre parole, se le sleghiamo, le isoliamo, automaticamente viene a mancare qualche tassello. Il mosaico che abbiamo da comporre deve puntare a fare stare bene il pianeta e noi con lui. Solo se ognuno di noi fa le cose che deve fare e le fa nella maniera giusta potremo vivere in modo migliore in un mondo migliore.
DNF: Che poi se capisco bene è anche il senso del lavoro fatto bene, quello fondato sulla consapevolezza che se ognuno fa bene quello che deve fare, tutto funziona meglio.
MC: Esatto. Anche perché tra un lavoro fatto bene e un lavoro fatto male, il lavoro è lo stesso ma cambia il risultato, che non è poco. Perciò quando si fa qualcosa tanto vale farla bene dall’inizio, perché se la fai male costa di più, non solo dal versante del lavoro.
DNF: Molto bene, mi sembra che questa nostra chiacchierata stia producendo qualche buon frutto. L’ultimo tema che vorrei trattare riguarda la relazione con chi viene a mangiare la pizza. La domanda è: che cosa trova oggi, nel 2054, una famiglia che viene a mangiare la pizza a La Pietra Azzurra di Caselle in Pittari, di Sala Consilina, di Milano, di Londra, di New York?
MF: Trenta, quaranta anni fa le avrei risposto che trova un’esperienza, oggi no. Esperienza è un’altra parola molto abusata, perciò oggi le dico che trova odori e sapori che non ci sono nelle buste preconfezionate di pillole che si usano sempre più di frequente a pranzo e a cena. Che trovano un profumo di verità. Che a gennaio trovano solo quello che c’è e a luglio quello che c’è a luglio. A gennaio la pizza con i pomodori freschi non c’è, ci sono i broccoli saltati da gustare con la salsiccia. E a luglio non ci sono i broccoli. Se una cosa non ci sta, non ci sta, punto, e io a tavola non te la porto. Sembra una cosa piccola, e invece è grande assai, presuppone un cambiamento di mentalità fondamentale.
DNF: E se le dico che io con le pillole che sono certificate e non fanno male posso mangiare i pomodori tutto l’anno, lei che cosa mi risponde?
MC: Non le rispondo niente, lo lascio fare alla sua bocca, alla sua lingua, alle sue papille gustative. Se abbiamo questi recettori c’è un motivo, non crede? Certo, possiamo decidere di non usarli fino a quando non serviranno più e magari neanche si riprodurranno più, nel nostro processo evolutivo come specie è già successo. Ma questo per me significa cambiare alcuni caratteri fondamentali della nostra umanità, vuol dire ancora una volta che stiamo andando nella direzione sbagliata. Direi che è una questione di logica.
DNF: Questo suo ragionamento mi piace. Lei sta dicendo che i posti in cui si crede in quello che si fa, i posti che lavorano con un approccio sostenibile, vero, innovativo, visionario, che per fortuna nel mondo sono ancora tanti, sono per le persone e le famiglie che vogliono continuare ad essere umani e ad avere relazioni umane, quelle che cercano l’unicità e la qualità, accettano il limite e non vogliono sempre tutto.
MC: Esatto. Perché se non accetti il limite, se vuoi avere tutto, se vuoi mangiare qualsiasi cosa in qualunque periodo dell’anno di fatto non sei più umano.
DNF: Sono d’accordo. Il concetto di persone e famiglie che vogliono continuare a essere umane mi piace molto, penso che ci possiamo fermare qui. Grazie maestro Croccia.
MF: Grazie a lei, è stato veramente un piacere.
CARA IRENE
Buongiorno amica mia, per i suoi 50 anni Michele Croccia ha ricevuto in dono la storia numero 183 di Scritte, il progetto ideato da Giuseppe Jepis Rivello. Il manufatto narrativo in questione è una bellissima borsa dove Michele ha fatto tatuare le parole della sua vita, quelle che utilizza ogni giorno ne La Pietra Azzurra, quelle che porta con sé quando fa formazione o partecipa a eventi in Cilento, in Campania, in Italia e nel mondo. L’ultima volta è accaduto in Perù, a inizio novembre di questo declinante 2024.
La mia piccola idea è spuntata ieri mattina, mentre mangiavo kefir, cereali e noci: “adesso scrivo a Michele”, mi sono detto, “e gli propongo un gioco di quelli che abbiamo fatto con le bambine e i bambini di quarta elementare di Follonica insieme alla maestra Costantini. Anche a 50 anni Michele continua a coltivare il suo lato bambino, a prendersene cura, potrebbe anche funzionare”.
Per farla breve gli ho scritto, gli ho detto della mia idea e gli ho chiesto se aveva voglia e tempo per giocare un poco con me. Mi ha risposto che a lui la voglia e il tempo per giocare non manca mai e così sono salito da lui, ci siamo seduti e abbiamo cominciato a giocare. La storia che hai appena letto è il risultato di questo nostro gioco, spero ti sia piaciuta e che tu sia rimasta sorpresa, anche la sorpresa fa parte del gioco.
TANTI AUGURI A TE
Gli amici e le amiche che hanno regalato la borsa Scritte a Michele per i suoi 50 anni sono Aurelio Abramo, Gerardina Falcone, Andrea Greco, Maria Loguercio, Gabriela Paradiso, Michele Pisano, Domenico Pisciottano, Antonella Mattia Raddi, Linda Speranza, Michelle Tiani Melogno, Marzia Torre. Amici e amiche, ma pure persone che lavorano o che hanno lavorato con lui, e penso che anche questo suggerisca qualcosa di assai significativo. Insieme al manufatto narrativo c’era anche una lettera dei suoi amici e delle sue amiche, ma quella Michele giustamente ha deciso di tenerla soltanto per sé.
IL MANUFATTO NARRATIVO
LE PAROLE TATUATE
LA LETTERA SCRITTE