Caro Diario, è accaduto durante la notte meravigliosa che dedichiamo ogni anno al lavoro narrato, anche se io me ne sono accorto solo qualche giorno dopo, leggendo questo post di Mirella Vilardi: «L’Oltrepò, che di solito narra, suo malgrado, molte storie di lavoro, di viti da “sgarzolare”, in questa stagione, di umori di cantine vecchie e nuove, di acacie e api che ne fanno miele, di salumifici, di boscaioli e conciatori, se ne stava dietro i vetri della cantina Riluce, pronto a farsi spettatore dei nostri racconti di lavoro.» E dopo il post la foto che vedi in fondo.
Ora io non lo so tu che cosa avresti fatto, io ho scritto un messaggio a Mirella e l’ho invitata a raccontare la storia della sua notte. Lei lo ha fatto, e io sono contento assai.
«Non lo so che fine ha fatto “Le isole si accendono”, l’iniziativa che aveva acceso la fantasia, e con essa, la curiosità, l’emozione, nel giardino di Elsa Morante sull’isola di Procida, al solstizio d’estate 2006. Sono ormai trascorsi dieci anni ma spesso sono ritornata con la memoria all’impatto emotivo di trovarmi in vacanza con mio figlio che in spiaggia leggeva L’isola di Arturo, alla scoperta casuale dell’evento che, ci dissero, quell’anno aveva raccolto una trentina di adesioni. Isole ovunque sparse nel mediterraneo, negli oceani, anche nelle città (mi fecero impressione la Norfolk Street di New York, Ortigia, la sarda Isola San Pietro e altre che non ricordo). Oltre le letture, i canti, la musica, sotto i grandi limoni procidani, mi aveva entusiasmato proprio il senso di coralità, l’idea che, contemporaneamente, in diversi posti circondati dal mare, stava succedendo la stessa cosa.
La stessa eccitazione, quasi smania, mi ha preso quando la mia amica Tina Magenta mi ha proposto di partecipare alla Notte del Lavoro Narrato. Ohi, qui non solo ci sarebbe stata l’unanimità di luoghi diversi che, contemporaneamente, sarebbero stati teatro dello stesso evento, ma in quella notte – quella prima della festa del lavoro – si sarebbe parlato, per l’appunto, di lavoro.
Di lavoro – come fine, come problema, come senso della vita, come realizzazione, come pienezza o vuoto assoluto – mi sono sempre occupata, sotto il punto di vista letterario e anche reale. Avevo solo tre o quattro anni quando papà partiva dal nostro paesino arroccato sull’Appennino del Sud verso la Germania, dove, nel mio immaginario, gli alberi producevano pepite d’oro ed era per questo che papà ci mandava i soldi in posta ogni fine del mese, mica a spaccarsi la schiena come facevano le donne e gli altri rimasti in paese, raccogliendo olive e fichi, o ghiande per i maiali.
Il lavoro, con alberi di pepite o di noci, per buona parte della mia vita è stato legato all’idea del raccogliere qualcosa che la terra produceva. Tutto il resto erano attività fasulle, né avrei mai potuto credere possibile che, un giorno, mi sarei guadagnata da vivere scrivendo. Con le parole. Anche se … anche se di raccogliere non ho mai smesso.
Nella bassa valle Scrivia, dove ho vissuto la seconda parte dell’infanzia e l’adolescenza, in estate raccoglievo patate, cipolle, piselli, fagioli e aglio. Con quest’ultimo avevo imparato a farne trecce e mazzi bellissimi che si esponevano alla sagra a fine agosto. Poi, in Oltrepò, ho cominciato a raccogliere uve, tra un redazionale e un articolo da collaboratrice “esterna”. Ho raccolto lenticchie a Ventotene, nell’ultima vacanza su un’isoletta, con levataccia alle quattro perché quelle sono fragili e vanno raccolte prima che il sole le scaldi facendole disperdere sul terreno. Raccolgo noci sulle stradine di campagna, quando porto a spasso il cane, raccolgo tarassaco per le frittate, punte di ortica per il risotto, raccolgo interviste, impressioni, commenti. Insomma, io raccolgo.
Trovarci per la notte del lavoro narrato in una cantina mi è sembrato naturale da queste parti. La cantina e tutto ciò che vi avviene dentro e intorno, sono la carta d’identità di questo luogo di collina dove, negli anni, ho raccolto amici che producono vino, ognuno con una storia alle spalle, da quelli eredi di dimore storiche che ancora si fregiano d’essere «conti» o «marchesi» a quelli che hanno ereditato pochi ettari da nonni contadini e parsimoniosi. Ho raccolto confidenze e sfoghi di giovani che lottano contro il precario benessere raggiunto dai genitori per migliorarsi, per perfezionare tecniche che, ai vecchi, sembrano allucinazioni.
A parlare nella cantina c’erano altri raccoglitori come me. Giorgio Mercandelli, il titolare di Riluce, ha raccolto l’eredità del padre e se n’è andato a fare vino su altre colline, secondo una filosofia che gli fa intravedere la bevanda di Bacco come derivante dal futuro più che dal passato. Sonia, la sua compagna, traduce romanzi o articoli in più lingue e raccoglie similitudini, parole intraducibili, ora anche erbe, uva, ortaggi, per la condivisione del progetto di «consumare ciò che si produce». Graziano Bertelegni ha raccolto la disperazione e la rabbia di Roberto, partito per Londra, un poco contro voglia ma con la valigia colma di attese. Loredana raccoglie erbe e fiori, ne estrae colori con cui tinge tessuti naturali e ne confeziona sciarpe, abiti leggeri, evanescenti, nelle tinte giallo ramato (dalla cipolla), rosa (dal melograno), blu (dall’indaco), rosso (dalla cocciniglia), fino al nero più nero (dalle galle di quercia). Michele Sangineto ha raccolto infine disegni di Leonardo, ne ha realizzato i modelli di strumenti musicali medievali, altri hanno suonato, cantato, sempre con la terra – e il lavoro ora duro, ora lieve, che comporta amarla – come protagonista. Terra e raccolto. Ecco, direi che sono state queste le due parole chiave della nostra prima notte del lavoro narrato.»