Cara Irene, ho dovuto fargli la corte per più di un anno, ma alla fine la mia costanza è stata premiata: sono riuscito a farmi raccontare da Mario Pellegrino la sua storia d’amore con il panettone. La curiosità era troppo e la domanda semplice come quelle che fanno i bambini, può succedre alla mia età: ma perché uno come lui deve perdere tempo, sonno e fantasia appresso al panettone? Capisci che Mario un paio di settimane fa, quando sono andato a trovarlo con la mia amica Benedetta, ha portato a tavola una polenta di farritieddu e una verza scottata e ripiena di patate, formaggio, pancetta e provola affumicata che, come diceva mia madre, poteva andare davanti a un Re? E vogliamo parlare dei cavatielli fatti al 100 per cento con le farine del mulino a pietra del Monte Frumentario? Dei fusilli e del ragù alle tre carni? Della crema di zucca e tortino di porcini? Dei ravioli e della carne cotta a bassa temperatura e poi servita in modo tradizionale? È meglio che mi fermo qui e ritorno alla mia domanda: ma perché si è fissato lui e il panettone? L’ho incontrato il giorno prima della mia partenza per Firenze direzione HIA – Hospitality Innovation Academy, se ti metti comoda ti racconto per bene quello che ci siamo detti.
Io: Ciao Mario, la mia domanda la conosci, finalmente ci siamo: ma perché hai preso questa capata? Perché ti sei messo in testa di fare questo benedetto panettone?
Mario: Allora prof., lo so che può sembrare strano, ma già quando mi metto a parlare di lievitati, di panettoni, del mondo della lievitazione in generale, mi emoziono. Magari già questa è una prima risposta, o mi sbaglio?
Io: Non ti sbagli.
Mario: Bene. Allora posso aggiungere che sono ancora un apprendista. Credimi, non lo dico per falsa modestia, è che sto ancora cercando di capire bene come si fa, come funziona tutto il processo.
Io: Se adesso che non hai ancora capito che non hai ancora capito fai un panettone fantastico, immagino che succede quando capirai.
Mario: Non scherzare. Io non me la sento di dire che faccio il panettone o, per meglio dire, il lievitato come comanda Iddio, o comunque come dico io. Il panettone richiede anni di esperienza, c’è tanto lavoro da fare prima di arrivarci. Mi hai fatto la domanda accetta la risposta: fare il panettone mi emoziona, è tutto qui, o quasi. Lo vedo ogni volta che ne parlo, con te o con altri amici: mi sento coinvolto, è una cosa che mi piace, che mi entusiasma. È stato sempre così, l’idea ce l’avevo già dall’inizio, dal periodo in cui feci il primo corso a Nola per entrare in cucina.
Io: Di quanti anni fa parliamo?
Mario: Di 15 anni fa, il periodo in cui è nata Laura, la mia prima figlia, alla quale, come sai, sono seguiti Andrea e Niki. È stata la nascita di Laura a scuotermi. Io prima stavo ai tavoli, anche se quasi non te ne accorgi il tempo passa, passava per me e, grazie a Dio, anche per mamma, insomma c’era questa esigenza in cucina e con il tempo anche io ho dovuto decidere di passare dietro ai fornelli.
Io: Mi sarebbe piaciuto arrivare qui nel pieno dell’attività di zia Grazia.
Mario: Non ti lamentare che anche io ti tratto bene.
Io: No scusa, che hai capito, tu non mi tratti bene, di più.
Mario: Fermati, sto scherzando, e poi mamma è un mito inarrivabile. Comunque in quegli anni con mamma in cucina c’era anche Angiolina, c’è stata tantissima gente con lei, non voglio dimenticare nessuno, non mi va di fare una scortesia a chi ci ha aiutato per tanto tempo, quindi Rosetta, Annina, Giuseppe, Giuseppina, mia sorella Antonia che lei c’è sempre, davvero tante persone. Quando poi il nucleo della famiglia si è ricomposto è nata l’esigenza che io prendessi in mano la cucina. L’’ho fatto per non perdere quella storicità, quella storia, quei piatti che mamma ha ereditato da mia nonna, la zia Filomena che dà il nome alla nostra attività da più di 90 anni. E così ho cercato di imparare, di guardare, di emulare, a volte anche di copiare. Però una copia intelligente, nel senso che ho sempre cercato di riproporre i nostri piatti in una dimensione contemporanea. I tempi cambiano, con i tempi le persone e con le persone i gusti. Per dirne una oggi ci sono un mare di intolleranze piccole e grandi, obiettivamente non ci può essere quella spontaneità che c’era nella fase precedente, anche per una questione di rispetto per chi si siede a tavola.
Io: Oggi quattro persone a tavola sono quattro esigenze diverse.
Mario: Esatto. Oggi c’è il vegano, il vegetariano, ci vuole un altro tipo di approccio alla cucina. Comunque, tornando al punto, con Laura è nata anche questa esigenza di prendere in mano la cucina. Perché proprio a quel punto non lo so, forse l’istinto paterno, tu lo sai da più tempo di me, si diventa padri e si diventa più maturi. Spinto da questa svolta paterna, diciamo così, comincio a frequentare la scuola di Gambero Rosso a Nola dove conosco tantissime persone, tra cui il mio amico chef Nicola Miele, che mi ha aiutato sempre nel mio processo di crescita, e il grande lievitista e pasticciere Antonio Masulli, che ancora oggi mi aiuta.
Io: Aspetta un attimo, torniamo al fatto che fin dall’inizio del tuo percorso in cucina i lievitati hanno avuto un impatto forte su di te. Confermi?
Mario: Confermo. Perché sai che cosa è successo? Che facendo questo corso ho visto come facevano il pane. Non lo so il motivo, ma mi è sempre piaciuto fare il pane e così ho iniziato a farlo qui al ristorante. A farlo in maniera amichevole, nel senso che non ho avuto nessuno che me lo insegnasse né mi ero confrontato con qualcuno che lo facesse per mestiere. Diciamo che ho iniziato questo percorso della panificazione senza studio, in un modo molto spontaneo.
Io: Scusa se ti interrompo ancora, ma proprio senza studio non credo. Penso sia più corretto dire che hai studiato da solo, da autodidatta. E che man mano che sei andato avanti ti sei confrontato con diversi colleghi. E visto che ci siamo aggiungo che ho dubbi anche sul fatto che non sai il perché di questa tua voglia, di questa tua passione. Scommetto che se scavi un poco tra i tuoi ricordi, un perché ti piace fare il pane, a che cosa è legata questa tua possione, qualcosa di più la trovi. E poi magari trovi anche qualche connessione tra pane e panettone, tra pane e lievitati, come dici tu. Penso a cose come tua nonna o tuo nonno che facevano il pane, al legame particolare che questa comunità ha con il grano e con il pane, non lo so, dimmi tu, mi sbaglio?
Mario: No, a pensarci bene non ti sbagli. Come sai siamo una famiglia molto numerosa, e questa storia comincia quando il nucleo dell’attività era nel centro storico, a Casalino Forgia. Al tempo i miei nonni avevano questa piccola bottega dove facevano da mangiare per le guardie, come venivano chiamati all’epoca i carabinieri, che stavano di fronte, e per qualche altra persona che di tanto in tanto arrivava. La notte nonna, che faceva fatica a dormire, si alzava e faceva biscotti e pane. Adesso che mi ci fai pensare può essere stato questo, ci possono essere stai i racconti dei miei cugini. Ci sono anche delle foto, perché c’era questa festa alla Madonna dei Martiri a Casaletto Spartano e loro andavano lì a vendere biscotti e pane.
Insomma è vero che nel dna della famiglia cis ono il pane, i biscotti, i lievitati. Ed è vero anche che quando ho iniziato il percorso dei lievitati il pane lo facevo già. Però, come ti ho detto, facevo tutto da autodidatta, senza confrontrarmi con dei professionisti, e quando è cosi le cose le fai sempre senza avere la certezza del risultato. Come si dice? A volte esce, altre volte no. Dopo di che è arrivato il Covid 19.
Io: Che è stato uno spartiacque che ha cambiato molte cose.
Mario: Esatto. È stato in quel periodo che, grazie a Michele Armano, un amico che, come te, scrive, ho conosciuto Carlo Di Cristo che è un professore universitario che insegna panificazione. Il confronto con lui mi ha aperto un mondo, quello del lievito madre.
Ci sono vari tipi di lieviti, però io ho iniziato a lavorare con quello liquido perché sono un poco indisciplinato e con il lievito liquido ti puoi permettere il lusso anche di non dargli da mangiare tutti i giorni. Ho iniziato a lavorare con quel tipo di lievito e ho cercato di capire un po’ come funziona.
Tornando alla consulenza con Di Cristo, abbiamo abbinato anche un confronto di panettoni, però lui usava il lievito chiuso in sacco. Sono sincero, con il lievito in sacco in quella fase non ci ho capito quasi niente e così a un certo punto ho lasciato stare. Non capivo come funzionava il sacco, non riuscivo a gestirlo, perché la gestione è importantissima. Ribadisco che questo dipende anche da una mia certa insofferenza per la disciplina, perché nel mondo del lievito c’è una disciplina ferrea a cui bisoogna attenersi.
Io: E poi?
Mario: E poi per un bel periodo sul discorso panificazione e lievitati ho continuato a lavorare da solo. C’era ancora il covid e io venivo nel locale e cominciavo ad armeggiare. Siccome era tutto chiuso, mi mettevo qui e non puoi immaginare gli impasti che buttavo, perché naturalmente, non sapendo bene come funzionava, non riuscivo a vedere quello che dovevo vedere. È stato così che ho deciso di contattare qualche amico pasticciere che aveva esperienza con i panettoni. Ho avuto tanti buoni consigli, Mario devi fare in questo modo, Mario devi fare in quest’altro, però diciamoci la verità, un conto è quando una cosa ti viene detta, un altro quando la vedi e un altro ancora quando la fai.
Insomma era evidente che avevo bisogno di un vero onfronto con dei veri maestri che hanno insegnato il mondo dei levitati a tanti pasticceri, anche qui nel Sud Italia, che adesso fanno i panettoni. Così quando lessi che i Morandin, mi riferisco a Morandin padre, Rolando, e alla figlia Francesca, facevano un corso di canditura a Bellaria, decisi di partecipare. Arrivati là siamo rimasti chiusi tre giorni in questo casale, tutti con mascherina e cose così, e abbiamo fatto questo corso fantastico di canditura, marmellate e altre cose di questo tipo.
In pratica lì ho iniziato un altro percorso, mi sono dedicato al mondo dei Morandin e quindi ho intrapreso quella strada. Perché alla fine ci sono diverse scuole di pensiero, il panettone secondo Morandin, secondo Di Cristo, secondo diversi maestri, adesso è inutile fare l’elenco che ne dimentico comunque qualcuno.
In seguito, tramite mio fratello, vengo a sapere di questo ragazzo che si chiama Ascolese e sta a San Valentino Torio e fa un panettone straordinario. Andiamo a incontrarlo, è un ragazzo disponibilissimo, mio fratello Michele come sai è un po’ più vulcanico di me, io me ne resto molto silenzioso, rispettoso, nel suo mondo. Quando si rivolge a me lo fa con poche parole, mi dice che il panettone è importante, ma la gestione del lievito madre è fondamentale. È preciso, seco: “se vuoi fare il panettone è fondamentale la gestione del lievito madre”, mi dice. Me ne torno a Caselle con questa frase, però poi, con il passare dei giorni, impegnato a portare avanti questa bellissima storia chiamata Ristorante Zi Filomena, un poco me la perdo, o comunque non le dò il peso che meriterebbe.
Io: Capita. Disincagliarsi dalla quotidianità non è mai facile, quando poi è una quotidianità che senti tua, che in molti modi ti appartiene, è ancora più difficile.
Mario: Penso che hai ragione, comunque io da una parte continuo a lavorare e da una parte continuo a stare con la testa lì. A un certo punto sento una mia cugina, pure lei appassionata di levitati, che mi dice che ha conosciuto un maestro molto bravo, si chiama Antonio Chiera. “Lo devi conoscere”, aggiunge, e così io le dico di contattarlo e di vedere se c’è possibilità che venga da me per una consulenza. La possibilità c’è, e quindi, siamo sempre nel mondo dei panettoni, arriva Antonio Chiera, maestro calabrese, anche lui una persona molto disponibile, alla mano. Arriva, porta con sé il lievito, che tiene a bicchiere, e mi fa “questo è il mio lievito”.
Come ti ho detto io venivo da un mondo in cui non puoi immaginare quante cose dovevo fare tutte le mattine, stendere il lievito, rimfrescarlo, mettere nell’acqua il bagnetto a 38 gradi per mezz’ora, acqua e zucchero, stavo impazzendo, ma quella era la scuola di pensiero che seguivo, se quello che viene fuori è un panettone del livello di Morandin tu stai lì, è evidente. Poi però ti confronti con il lievito in sacco di Di Cristo e infine arriva Chiero, che è proprio di un’altra scuola di pensiero. Anche lui rigido. Questa è l’acqua, questa è la mia farina e questo è il mio lievito. Rinfresca, bene, mettilo nel bicchiere, e al raddoppio impastiamo.
Dico veramente? Ma come è possibile? “Sì, sì,”conferma lui, “al raddoppio impastiamo”, mentre io continuo a vederla troppo semplice e continuo a ripetermi che non è possibile. Lui in qualche modo capisce quello che mi passa per la testa, e mi dice, “forse la vedi semplice, però devi farlo sempre. Quando raddoppia, o impasti o rinfreschi. Lo devi fare ogni giorno, non uno sì uno no, sempre.”
Ancora una volta, scuola di pensiero, quindi seguila e vai in questo altro mondo. Un mondo che però, devo dire la verità, è un po’ più comodo. In particolare a luglio e agosto, che per fortuna per noi sono due mesi molto impegnativi.
Io: Vediamo se ho capito: lo metti in frigo però al raddoppio lo devi impastare, altrimenti cambia. Giusto?
Mario: Giusto, però rimane comunqe un mondo di disciplina, e io come ti ho già detto ho un pizzico di allergia alla voce disciplina. Capita che quando lo vado a rinfrescare salgo su e me lo dimentico in macchina, un’altra volta lo brucio perché lo faccio arrivare a temperature troppo elevate. Poi una sera arriva un mio amico pasticciere, Leo, che sta con la squadra dello chef Matteo San Giovanni, Il mio amico arriva con con la fidanzata, è una sera tranquilla, mi fa piacere che lui sia venuto da Battipaglia. Mi metto a chiacchierare, arrivano persone, ovviamente sono operativo e mi dimentico che stavo rinfrescando il lievito sul bancone giù in sala laboratorio. Esco dalla cucina e dico a Leo che ho bruciato il lievito, lui scende con me, lo assaggia mi dice “no Mario, il lievito è ancora vivo. Fai così, non adesso, domani mattina: gli fai un bagnetto, acqua a temperatura, un po’ di zucca, mezz’ora e poi lo rinfreschi. Fai così per un po’ di giorni, vedi quello che succede, se non va te ne do un pezzetto del mio. Prof., a distanza di tempi mi emoziono ancora a dirlo: parto con un lievito che era secondo me era andato …
Io: … E lo hai resuscitato.
Mario: Proprio così, abbiamo risuscitato un lievito. La verità è che alla fine la gestione del lievito è semplice. Lo fai, lo rinfreschi e lo conservi. Basta questo. Però tutti i giorni. Perché il lievito è fatto di enzimi che hanno bisogno di zuccheri e perciò ogni giorno gli devi dare da mangiare. Però poi c’è un’altra cosa: non bisogna trattare il panettone, o comunque un lievitato, come tratti il pane, perché altrimenti il panettone non lo fai. Uno dei miei maestri che veniva dal mondo del pane me lo ha ripetuto mille volte: se vuoi fare il panettone come fai il pane sei fuori strada. In particolare sei non sei un grande tifoso della disciplina non devi trattare il panettone come il pane. Ci sto appresso già da diverso tempo, ma si può dire che da qui parte un nuovo inizio del mio percorso con i lievitati.
Io: Scusa Mario, ho una domanda. Quando, grazie al tuo amico Leo che viene a cena qui da te, ritorni a Morandin, il suo approccio ti sembra meno complicato di come ti era sembrato all’inizio?
Mario: Secondo me la tua domanda non coglie l’aspetto principale della questione. In realtà è una questione di passaggi, di step. Facciamo un esempio legato al tennis. Diciamo che tu giochi, hai sempre giocato, e ti senti bravo. Poi però ti confronti con il primo maestro, non rofessionista perché quella è ancora un’altra storia, e ti rendi conto che forse non sei così tanto bravo. Poi magari diventi più bravo del maestro e lo batti e ti senti bravo, però poi ti confronti con un professionista e di nuovo non ti senti così bravo. È la vita che è così, non so se riesco a spiegarmi.
Io: Ci riesci alla grande. Funziona come dice il grande Eduardo, nel senso che gli esami non finiscono mai.
Mario: Esatto! È così con tutto. Uno legge tanti libri e si sente un filosofo, poi incontra un filosofo e si rende conto che non è arrivato neanche a metà strada. A me accade così, vado avanti, vado avanti fino a quando non mi dico che non ho fatto ancora niente. Leo è anche lui della scuola di Morandin, ma in qualche modo me ne ha mostrato una versione semplificata, e anche questo aiuta. Il panettone per me è nato così, il levitato è nato così, con questa voglia di mettermi continuamente in discussione. Non ti nascondo che ci sono state pure diverse persone, compreso te, che lo hanno assaggiato e gli è piaciuto, e che anche queste sono piccole soddisfazioni che mi hanno motivato e mi hanno spinto a migliorarmi. Dopo di che io sono fatto in un certo modo, e fino a quando non lo farò in ogni particolare come dico io, lo continuerò a chiamare lievitato e non panettone perché non voglio offendere la maestria di chi lo fa da molti anni come si deve. Diciamo che so come usare la materia prima, e so che se vuoi fare un panettone degno di questo nome devi usare delle materie prime di prima qualità. Ci vuole il burro buono, ci vogliono i canditi di Morandin anche se ci sono anche altri canditori che sono bravi.
Io: Mario, ci vogliono i canditi come quelli che fai tu e che mandano al manicomio a me e a Cinzia.
Mario: Si, anche i nostri sono buoni, ci sono quattro giorni di lavoro per farli così: bisogna che uno si metta lì, poi c’è un processo di congelamento, poi si mettomo a bollire e poi e poi. Sì, ci vogliono quattro giorni.
Io: E poi e poi lo trovo bellissimo. Visto che ci troviamo, mi dici quali sono le diverse fasi che bisogna realizzare per fare il panettone? Diciamo dall’acqua e farina fino al panettone.
Mario: Lo so che sono ripetitivo ma per prima cosa ci vuole la gestione del lievito madre.
Io: Questa è la cosa principale.
Mario: È la cosa fondamentale durante tutto il processo. Ti ricordi di quella volta che mi hai trovato preso dai turchi perché avevo girato i panettoni e se ne erano scesi, in pratica li avevo persi?
Io: Forse non dovrei dirlo, ma mi ricordo bene, raramente ti ho visto così.
Mario: Gia. Comunque anche lì il lievito madre la fa da padrone, perché se non hai un lievito madre forte, che ti mantiene quella struttura, quel legame, finisce che i panettoni quando li metti in testa giù ti cadono. In pratica il panettone si inforchetta, si gira e per gravità non si sgonfia, rimane gonfio. Quando è stato così dalle 8 alle 12 ore tu lo vai a girare e ti resta a panettone. Invece se il lievito madre ha superato una certa temperatura, se ha perso di forza, se non è capace di tenere tutto insieme, dopo che in cottura si è gonfiato, perché si gonfia, quando lo vai a girare va giù, si sente proprio la botta quando cade a terra. La cosa per me ancora misteriosa è che a volte su 24 panettoni una parte se ne va e una parte resta.
Comunque non dipende solo dal lievito. Nel caso del panettone al cioccolato per esempio, può capitare che l’acidità del cioccolato non vada del tutto d’accordo con quella del lievito, perché sono due acidità diverse. Poi ci sono gli aspetti relativi a quando vuoi colorare il cioccolato, e poi c’è il burro. Non è facile fare un panettone, ci sono diverse cose che possono complicarti la vita.
Io: Oltre al panettone tradizionale e quello con il cioccolato, fai altri tipi di panettone?
Mario: Questa estate che avevo l’ispirazione ne ho fatto uno con albicocca e arancia. E comunque in generale mi piace sperimentare, vedere l’effetto che fa.
Io: Posso dire una cosa?
Mario: Tu puoi dire quello che vuoi.
Io: Tu continui a dire di te stesso che non sei un mostro di disciplina, ma se invece tu fossi semplicemente uno sperimentatore, un creativo? Alla fine se tutti fossero disciplinati si farebbero molto meno scoperte di quelle che si fanno. La vita è piena di cose fatte bene e che però a un certo punto cambiano, e tra le ragioni del cambiamento c’è anche l’indisciplina. Forse se Bohr fosse stato disciplinato la teoria dei quanti e la meccanica quantistica non esisterebbero, e in un certo senso la scienza e natura stessa sono indisciplinate dato che ci dicono che è giusta sia la teoria di Bohr che quella di Einstein, che tra loro si contraddicono, o aleno così sembra fino ad oggi.
Tornando a noi e al panettone che altrimenti ci viene il mal di testa, direi che per arrivare al risultato ci vuole sì la disciplina ma ci vogliono anche tanta creatività, tanto amore e tanta pazienza. E a questo proposito vorrei sapere da te qual è il momento più complicato e qual è quello più facile, quando fai un panettone.
Mario: Questa è una bella domanda. Ci sono due momenti, tutti e due del secondo impasto.
Io: Secondo impasto? E sarebbe?
Mario: Giusto, questo è un aspetto importante, bisogna soffermarci un attimo.
Allora, prima fase: prendo il lievito, lo rinfreso e una volta rinfrescato lo stacco, prendo 200 grammi e lo metto in un bicchiere a lievitare. In pratica una parte l’ho messa a dormire, a riposare, invece un’altra parte me la sono presa per lavorarci dopo. Tecnicamente deve essere lavorata per dieci ore e mezza, quindi dopo tre ore e mezzo di lievitazione, lo prendo e lo rinfresco con acqua e farina, gli ingredienti sono acqua, farina e lievito. Dopo di che lo chiudo e lo rimetto a lievitare per altre 3 ore e mezza, di nuovo lo rinfresco con acqua e farina e lo rimetto a posto. All’ultimo rinfresco aspetto che triplica e inizio il processo del primo impasto del panettone con acqua, farina, zucchero, burro e tuorli.
Il primo impasto è a posto, lo prendo e lo metto al riposo per 12 – 18 ore, ancora una volta il tempo che triplica. Quando è triplicato, diciamo la mattina dopo, arrivo, lo butto in macchina e procedo con il secondo impasto, la fase più delicata. Metto la farina nella macchina e incordo, metto l’acqua e incordo, poi inizio con zucchero e tuorli, aspetto che sia tutto giusto e ci metto il burro, dopo di che inizia la fase più complicata, quella relativa agli inerti, alle sospensioni, ai canditi. A quel punto tu vedi che si straccia mezzo mondo e vai nel panico. Direi che giustamente vai nel panico.
Certo, ti ripeti “tranquillo che ce la fai, non ci sono problemi”, però devi stare da solo, perché se hai qualcuno vicino te lo lo mangi. In questa fase non posso tenere nessuno vicino, a meno che non sia capace di stare da una parte e di non dire una parola qualunque cosa succeda, altrimenti è crisi nera. Bene, una volta che si ricompatta tutto, non ti nascondo che quando mi prende l’ansia lo prendo anche un poco prima che si ricompatti, perché l’ansia c’è sempre, inutile fare finta di no, lo prendo e lo butto di nuovo a riposare in un contenitore e lì divento ancora una volta poco disciplinato, non esiste 40 minuti, un’ora, io lo lascio lì, riposa, deve riposare, non ci sono tempi, a me non interessa, io lo faccio così.
Io: E poi?
Mario: E poi faccio una cosa che fa saltare un po’ tutti quando l’ascoltano.
Io: Cioè?
Mario: Me ne vado a giocare.
Io: A giocare a tennis?
Mario: Sì, devo staccare, perché altrimenti mi bevo il cervello. Naturalmente non lo faccio sempre però quando vedo che l’impasto è un po’ così mi dico che forse è meglio che mi stacco, anche se faccio una passeggiata va bene, comunque mi aiuta a staccare.
Io: E quando torni che succede?
Mario: Succede che butto il panettone, scusami, il lievitato sul banco, faccio le pezzature, mezz’ora, tre quarti d’ora, di riposo, prendo e li metto nei pirottini, i contenitori di carta. Li metto a lievitare 6-8 ore poi li prendo, li metto fuori, li glasso, faccio salire il forno a temperatura e inizio a infornare. Faccio 6 lievitati alla volta, non ne faccio 300, sono piccolo e non lo faccio per business, lo faccio perché lo faccio assaggiare al professore, lo faccio assaggiare all’amico. L’impatto è quasi immediato e l’amico cliente che ci viene a trovare quando sente quel tipo di leggerezza, quell tipo di profumazione e di fragranza dice “Mario, ne posso prendere uno?” e io sono contento, contentissimo, e rispondo “sì sì, certo che ne puoi prendere uno.”
Questo è prof., lo faccio perché mi piace farlo, perché è una cosa che sento dentro. E poi qui ci sono periodi in cui in cucina ci sono tanti tempi morti, quindi abbino, sperimento, non mi fermo.
Io: Ottimo! Per me va bene così, direi che abbiamo finito.
Mario: No prof., non abbiamo ancora finito, perché non abbiamo ancora parlato di Isabella. Perché se io abbino, sperimento, non mi fermo è anche grazie a lei, al suo modo di fare le cose e di stare al mio fianco, alla sua pazienza e al suo lavoro.
Io: Con me sfondi una porta aperta amico mio, è da tempo che penso di raccontare lei, il suo lavoro e i suoi cannoli con la crema pasticciera. Il fatto è che se tu sei difficile da acchiappare lei sguscia peggio di un’anguilla. Ma vedrai che prima o poi ci riesco.
Mario: Sono contento, adesso sì che possiamo dire di aver finito.