Mimmo, i passi del nonno e l’agricoltura organica rigenerativa

Cara Irene, oggi ti racconto Domenico De Martino detto Mimmo, che prima di fondare la sua azienda agricola di cose ne ha fatte tante, perché le strade della vita sono piene di curve e sassi, e ci vuole il tempo suo prima di imboccare quella giusta.
Mimmo ha 48 anni, ha conseguito la maturità scientifica nel 1995, vive e lavora a Montesano sulla Marcellana ed è sposato con Eleanna Gargiulo.
“Vincenzo, stiamo insieme da quasi 30 anni”, racconta. “Abbiamo due splendidi figli, per essere più precisi una figlia, Elenya, che ha 23 anni ed Emanuel, che ne ha 19 e ha fatto quest’anno la maturità scientifica. Mia madre si chiama Rosanna Vassallo e mio padre Giuseppe De Martino. Settimio Vassallo era invece mio nonno e Luisa Petrizzo mia nonna, è necessario che in questa storia ci siano anche loro.”

MI PIACE, NON MI PIACE
“Mi piace molto tutto quello che ha a che fare con il pensiero, nel senso che mi piace ragionare sulle cose, mi piace tanto capirle e scoprirne di nuove interfacciandomi con persone che mi possono raccontare le loro esperienze. Se ci pensi è attraverso le loro esperienze che possiamo provare a immaginare come può essere la loro vita, come si svolge quotidianamente e via dicendo.
Anche le cose che, forse, mi danno più fastidio sono comunque legate al pensiero: il pensiero falso, il pensiero ipocrita, il pensiero che approfitta dell’altro. E poi anche le cose banali e stupide.”

UNA FAMIGLIA CONTADINA
“Fin da piccolo ho avuto in testa l’idea di poter fare tante cose, ciclista, poeta, falegname, cacciatore. Diciamo che non avevo una vocazione precisa, ho sempre immaginato di voler e poter fare tante cose e non mi sono mai fissato su una cosa specifica.
Sono vissuto in una famiglia molto normale, i miei nonni erano contadini e abitavano a 20 metri da casa nostra, la casa di mio padre, dove sono cresciuto. Oggi vivo nella casa di mio nonno, che è venuto a mancare nel 2000.
Nelle famiglie come la nostra quando non c’era la scuola un po’ per gioco, un po’ per obbligo e un po’ per necessità si veniva iniziati al lavoro molto presto.
Mio nonno mi ha insegnato a guidare il trattore, o comunque me lo faceva spostare, quando avevo 6-7 anni. Il trattore rosso del nonno ce l’ho ancora, ogni volta che lo metto in moto mi vengono un sacco di ricordi e di pensieri. 
Comunque non la pensare come una cosa strana, nelle vite come le nostre era così, in parte è ancora così, si comincia presto, già da piccoli si dà una mano nella raccolta delle patate, dei pomodori, di quello che di volta in volta c’è da raccogliere.
E poi per quanto mi riguarda c’era l’amore per il trattore, ma in fondo quale bambino non si innamora del trattore?
Il mio rapporto con il lavoro già da piccolo era questo, praticamente ogni estate eravamo, volenti o nolenti, indirizzati al lavoro. E diciamo la verità, non era sempre una cosa piacevole, perché c’erano che gli amici ti venivano a chiamare per andare in giro con la bici, o per andare al fiume, o andare in cerca di ciliegie e mentre loro partivano per queste avventure tu dovevi stare là, sotto al sole, perché c’erano da raccogliere le patate e altre cose.
Con questo non è che voglio stare qui a dirti che ho vissuto un’infanzia infelice o chissà quanto complicata, solo che c’erano dei momenti in cui, anche se non ti andava, dovevo lavorare. È una cosa che fa parte della mia vita e della mia storia, la storia della mia famiglia.”

LE VIE DEL LAVORO
“Sono 6 anni che faccio l’agricoltore nella mia azienda, ma prima ho fatto un bel po’ di altre cose.
Un poco prima della maturità ho iniziato a lavorare come cameriere in un grande locale a Montesano che faceva tanti matrimoni all’anno, esiste ancora.
Il modo più rapido per iniziare a guadagnare piccole cifre era quello, fare i camerieri e mi ricordo che eravamo assegnati a pane e acqua, significa che dovevamo passare per tutti i tavoli e non far mancare il pane e l’acqua, credo che all’epoca ci davano 15.000 lire al giorno.
Fare il cameriere nel frattempo che andavo a scuola mi permetteva di togliermi qualche sfizio in più, di essere più autonomo per le spese mie.

Finito il liceo ho avuto un periodo di forte crisi, non avevo ben chiaro che cosa fare, se andare all’università o invece no.
La verità è che da una parte non sono stato indirizzato più di tanto dalla mia scuola, e dall’altra non c’era qualcosa che mi appassionasse veramente, che mi motivasse al punto da farmi scegliere un percorso piuttosto che un altro. E dato che non mi andava di far spendere soldi ai miei genitori senza concludere niente ho finito per aprire una società per la vendita di macchine agricole. Avevo come socio un mio parente che era tornato con una grande voglia di riscatto dal Sud America dove aveva dovuto vivere per oltre 10 anni a causa di una storia complicata che aveva avuto qui.
Non lo so, forse l’avevo fatto più per dare una mano a lui, per cercare di aiutarlo a costruire una nuova possibilità, che per una mia reale convinzione, sta di fatto che non era quello che volevo fare, e così è durato poco, un anno e mezzo o giù di lì. Come lavoro lo trovavo molto noioso, la vendita non faceva assolutamente per me.

Non ti ho detto ancora che mio padre è meccanico, anche se adesso è in pensione, il mio lavoro successivo è legato a lui. Siamo negli anni 90, quando c’è stata la  liberalizzazione delle concessioni per la revisione dei veicoli, e così mio padre, io e altri soci mettiamo su una nuova società, più grande, con due centri di revisione e tantissime macchine revisionate ogni anno (rilasciavamo un bollino della motorizzazione che lo attestava quando l’esito era positivo), e ci mettemmo a fare questo lavoro.
Per qualche anno le cose sono andate bene, a tratti benissimo, pensa che erano così tante erano le auto che controllavamo ogni giorno che la notte dormivo e sognavo che facevo revisioni.
Con il passare degli anni però le cose sono cambiate. Un po’ il lavoro è diminuito, anche se comunque si lavorava, un po’ di più la società veniva gestita in maniera approssimativa, c’erano cose che non mi tornavano, dividendi alla fine dell’anno non ce n’erano, lavoravo per lo stipendio e non mi ci vedevo per tutta la vita a fare quel lavoro.
Per carità, era un buon stipendio, però non riuscivo a trovare un senso in quello che facevo, avvertivo una forte sensazione di inutilità. A questo aggiungi che mio padre a un certo punto ha cominciato a soffrire di bipolarismo, con fasi di forte depressione che continuano ancora oggi,  e così ho fatto un altro salto mortale senza rete di protezione e sono uscito dalla società.

Il passo successivo è stato il lavoro in una concessionaria auto, stavo all’accettazione. Per fortuna dopo la società di revisione avevo trovato lavoro immediatamente, però anche lì mi sentivo molto stretto, era la prima volta che lavoravo come dipendente e forse il mio approccio al lavoro non era quello classico del dipendente. Per la verità con il datore di lavoro non avevo problemi, li avevo invece con gli altri dipendenti, per loro era una specie di animale strano, perché il mio approccio è dare tanto all’imprenditore per fare in modo che lui, per il lavoro che faccio, dia tanto a me, invece la prassi era fare poco perché tanto si era sottopagati. A me questo non andava, così ancora una volta il tutto è durato pochissimi mesi.

Nel corso dell’anno successivo ho provato ad avviare un’attività di import – export con il Senegal ma quando ho capito che per farla funzionare avrei dovuto vivere sei mesi all’anno qua e sei mesi là non me la sono sentita, i figli crescevano, ho lasciato anche questa avventura e mi sono messo a fare lavori vari. È stato il periodo in cui ho dato una mano in una falegnameria, ho dato una mano nell’installazione di impianti elettrici, ho fatto il muratore e il manuale,  ho comprato una macchina che faceva la sabbiatura con la quale pulivo diverse superfici, travi in legno, termosifoni, macchine d’epoca.
Anch que non si guadagnava male ma era un lavoro brutto, sporco e cattivo, c’erano momenti in cui sabbiavo e piangevo. Sono andato avanti così quasi 3 anni, ma anche questo non poteva durare. Avevo intorno ai 40 anni e mi sono trovato in una situazione veramente critica, con la famiglia che cresceva, il mutuo sulle spalle e io che non stavo bene nemmeno fisicamente pensa che quando facevo quel lavoro due o tre giorni di fila mi mancava anche l’aria.

Per non farla troppo lunga, dopo aver lasciato la sabbiatura, avevo quasi mollato gli ormeggi.  Facevo lavori di comodo, cercavo e trovavo qualcosa per andare avanti, ma ero molto sfiduciato, non avevo la forza di fare più niente.
Per fortuna mia moglie e di mia madre mi hanno dato supporto, sostenuto, spronato a fare qualcosa di mio, e a quel punto finalmente ho capito che dovevo tornare alla terra, all’agricoltura, in pratica da dove ero partito.

L’ORTO FAMILIARE, IL NONNO E I PASSI
Per la verità nel corso degli anni mi ero sempre dedicato a un orto familiare. Tornare alla terra, riprendere in mano gli attrezzi, ricordarmi come il nonno usava il motocoltivatore (un attrezzo che ha due piccole ruote e una fresetta dietro che serve per passare fra le piante per togliere l’erba) mi faceva stare bene, mi faceva tornare alla mente una cosa che mi emozionava tantissimo, che da piccolo mettevo i passi come li metteva lui, in pratica seguivo il motocoltivatore e mi veniva in mente come lui posava i passi. Quanti ricordi, i tanti pomeriggi passati insieme nell’orto, non solo togliere l’erba ma tutto quello che bisognava fare.
Metti insieme questo mio rapporto di fatto di fatica e affetto con la terra, la spinta di mia moglie e mia mamma a riprendere in mano la mia vita, la disponibilità di finanziamenti dell’Unione Europea e mi sono detto che, se proprio mi dovevo dedicare a qualche cosa, dovevo tornare alla terra. E così ho fatto, nonostante il parere contrario di mia madre, di mia moglie e dei miei familiari, che è vero che mi avevano spinto a essere di nuovo reattivo ma associavano la terra a una vita brutta, con tanto lavoro e pochi risultati.
Vuoi sapere invece che pensavo io? Che produrre cibo buono per me, per la mia famiglia e per chi vuole condividere questo mio progetto era un nobile per cui spendersi e per cui vivere, e così ho iniziato la mia nuova vita.

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CASELLE IN PITTARI, IL PALIO DEL GRANO E IO
La passione per la terra è anche alla base delle mie connessioni con Caselle in Pittari e il Palio del Grano. È proprio durante un palio che conosco Jairo Restrepo Rivera, l’agronomo colombiano che va diffondendo l’Agricoltura Organica e Rigenerativa (AOR), una pratica che aiuta noi agricoltori a renderci indipendenti dall’utilizzo di fattori di produzione esterni e le persone a recuperare un’interiorità sana a partire dall’alimentazione. Ricordo che fu invitato da Antonio Pellegrino a partecipare a una presentazione e per me fu veramente un incontro importante.
Non ti nascondo che partecipai con un pizzico di saccenterìa, pensavo ‘ma come, deve venire l’agronomo dal Sud America a insegnarci come si fa agricoltura quando già il nonno di mio nonno era agricoltore?’ 
Invece dopo averlo ascoltato per un paio d’ore iniziai a riflettere su tante tante cose su cui non avevo mai riflettuto.
Pensai che avevo visto fare, che avevo imparato delle cose che sapevo replicare, e che però non mi creavo più di tanto il problema del perché, del cuore. Tieni presente che al tempo io non facevo ancora l’agricoltore, curavo soltanto il mio piccolo orto, sto parlando del 2010 credo, mentre l’azienda l’ho aperta nel 2017. Come ti dicevo per è stato un incontro molto importante, ho cominciato a riflettere su cose a cui prima non pensavo, è come se la mia passione per la terra avesse fatto un salto di qualità. Sta di fatto che ho cominciato a documentarmi e non è un caso che quando ho pensato di avviare l’Azienda Agricola De Martino ho iniziato a fare corsi di agricoltura organica rigenerativa in giro per l’italia.

LA MIA AZIENDA E L’AGRICOLTURA ORGANICA RIGENERATIVA
A essere onesto fino in fondo, per come la vedo io, l’agricoltura non è mai rigenerativa al 100 percento, nemmeno quella organica rigenerativa che facciamo noi. Fondamentalmente, è per questo che cerchiamo di rigenerare il suolo, le pratiche di agricoltura rigenerativa a questo ambiscono. Non è neanche tanto una questione di riposo, sono tante cose, l’utilizzo di macchinari più leggeri per la lavorazione, l’incremento della sostanza organica nel suolo, l’abolizione della chimica di sintesi che va a distruggere tutto ciò che sono i microrganismi all’interno del terreno e utilizzare solo sali solubili, dato che nel sale non si può sviluppare la vita. E poi naturalmente non utilizzare pesticidi, non utilizzare prodotti sistemici e cercare di disturbare quanto meno è possibile il suolo. Dopo di che se proprio proprio qualche volta vuoi cercare di ingoraggiare il terreno puoi farlo inoculando dei microrganismi, facendo dei preparati, utilizzare i vermi, il lombrico compost è una di queste buone pratiche.
In pratica quando ho aperto l’azienda ho deciso di seguire questi principi, mi sono detto faccio agricoltura all’interno della filosofia e dei parametri che mi erano stati ispirati da Rivera e che ho approfondito con la formazione. Mi sono mosso dall’inizio in questo modo, la mia azienda nasce prorpio così, mi attivo, chiedo e ottengo dei finanziamenti proprio per fare questa cosa specifica. A proposito del finanziamento c’è da dire che quando participi a un bando europeo sei costretto, diciamo così, a essere immediatamente produttivo. Sei costretto perché hai spese da affrontare, tanti compiti da assolvere, tante domande a cui rispondere, tante cose da imparare strada facendo. Ti faccio un esempio semplice al limite della banalità. La prima volta che ho comprato le buste per andare a consegnare le verdure, i pomodori, le piccole cose che riuscivo a produrre, ci ho messo un anno per consumarle. Adesso le compro e le consumo in un mese, anche meno.
Detto questo, aggiungo che dopo tanto lavoro, da un certo punto in poi, lazienda‘ comincia a diventare sostenibile, non si diventa ricchi però si riesce a mantenere dignitosamente la famiglia. Non so se posso dire che questa volta ci sono riuscito, dipende da cosa significa riuscire, però sono passati sette anni e stiamo ancora in piedi, e penso che questo qualcosa vuol dire.

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UNA BATTAGLIA DIFFICILE
Come ti ho detto già all’inizio ho dovuto affrontare una battaglia difficile assai, le stesse persone che mi hanno aiutato a credere nelle mie possibilità pensavano che la strada che avevo intrapreso non andava bene, l’idea che mi mettevo con la zappa in mano non entusiasmava nessuno, mi ripetevano tutti che avrei potuto fare tanto altro.
Però per fortuna abbastanza presto si sono ricreduti tutti, mia moglie adesso lavora con me e mia mamma è felicissima. In particolare mia moglie si occupa della distribuzione e della vendita, mentre i nostri figli per ora fanno altro.
Ti confesso che un po’ mi dispiace, però non li costringo, alla fine è giusto che si scelgano la loro via. E poi sono consapevole che come vita non è facile, come lavoro non è facile. Un poco ci spero ancora, mi auguro che un giorno vorranno avvicinarsi a questo mondo, però devono decidere loro, lo devono fare con passione, perché altrimenti diventa un carcere e non va bene.
Diciamo che per ora i nostri figli non partecipano però si rendono conto che funziona, se ne rendono conto anche a tavola, dal cibo che mangiano. Il 90% di quello che mangiamo lo produco io, prima della peste suina tenevo anche i maiAli, poi qualche gallina e dunque le uova, e il pane. Mangiamo il nostro pane, della panificazione si occupa mamma, che tenuto conto anche della depressione di papà fa tanto, anche troppo.
Come diceva mio nonno a casa nostra i cassoni del grano devono stare sempre pieni e io sono tornato a riempire i cassoni, mamma mi dice addirittura con un’abbondanza superiore rispetto a quello che facevano i nonni, che però, devo essere onesto, erano allevatori, avevano 15 mucche. Non è nelle mie corde fare l’allevatore, io faccio il contadino, faccio ortaggi, cereali, patate, grano. Sì, pure il grano, che poi faccio trasformare in pasta, faccio fare la pasta secca, a tavola mangio la mia pasta, anche per questo posso dire che il 90% di quello che mangio lo produco io.

IL MIO LAVORO DI OGNI GIORNO
Nel mio lavoro di ogni giorno seguo le stagioni. Coltivo, raccolgo, uso e vendo quello che la terra mi dà.
Le mie giornate iniziano sempre molto presto, tra le quattro e mezzo e le cinque.
Come dice una mia carissima amica, noi che la lavoriamo incorporiamo l’energia che c’è nella terra. Così d’inverno, quando di energia ce n’è di meno, pure noi siamo meno energici e le giornate vanno più tranquille; c’è l’umido, il freddo, va tutto molto più lento. 
Poi, mano a mano che arriva la primavera, il suolo si riscalda, le radici cominciano ad attivarsi e la natura a rifiorire.
Per me a tavola il periodo più bello è la primavera, del resto basta guardarsi intorno e godere del rigoglio delle piante, dei boschi, c’è l’energia che si espande tutto intorno e quindi anche in noi, e così funziona anche per le altre stagioni.
Tornando alla mia giornata, in questo periodo mi sveglio ancora prima la mattina per avere un poco di tempo da dedicare a me. La prima ora, ora e mezza della mattina la dedico a me, cercando di fare anche un poco di ginnastica per evitare dolori. Esco intorno alle 6 e inizio con un giro di perlustrazione per vedere quali sono i problemi che possono avere le piante, se hanno bisogno di acqua o di altro. In pratico inizio con la routine quotidiana, dopo di che vado a fare colazione da mamma, che abita a pochi metri, dall’altra parte della strada.
Dopo la colazione inizia la giornata vera e propria, che nei periodi più caldi come questi finisce alle undici e mezza, mezzogiorno, quando torno a casa per riprendere il lavoro intorno alle quattro, quattro e mezzo, fino a quando c’è sole, c’è luce. Questo accade sempre, pure di inverno, quindi d’estate lavoro fino alle nove di sera, d’inverno fino alle cinque e in primavera e autunno fino a quando è.

VORREI INCONTRARTI FRA 30 ANNI
Vuoi sapere come mi piacerebbe che fosse la mia azienda fra trent’anni?
Per prima cosa mi piacerebbe avere terreni miei e non in fitto come adesso molti di quelli che coltivo adesso. Non si può applicare un processo di agricoltura organica regenerativa per un periodo così breve di gestione dei terreni, diventa molto complicato se non sai se rimani.
Sì, mi piacerebbe progettare e realizzare un’azienda organica rigenerativa come si deve, che preveda bosco, pascolo, alberi da frutto e alberi da biomassa, un bel forno dove si fa il pane e anche animali che pascolano, dalle pecore, alle galline, alle mucche. Lo so che prima ho detto che non sono portato per l’allevamento, ma in realtà è il sistema stalla che non mi piace.
Secondo me uno dei più grandi errori che l’umanità ha potuto fare è stato quello di prendere gli animali e toglierli dal loro habitat naturale, che erano i pascoli, e portarli dentro le stalle. L’animale al pascolo è importantissimo per la rigenerazione dei terreni. Quando la mucca strappa un ciuffo di erba lo fa in un punto ben preciso del colletto e la saliva che rilascia sul taglio cicatrizza e stimola la pianta alla ricrescita. Di più, la mucca quando sta nei pascoli fertilizza e semina pure, perché cammina e nella sua merda ci stanno pure i semi di piante che ha mangiato da un’altra parte.
Sì, personalmente sono convinto che uno degli aspetti più brutti dell’evoluzione della nostra agricoltura sia stato proprio quello di aver portato gli animali nelle stalle. E considera che prima la concentrazione di animali era molto più piccola per gli spazi che erano a disposizione, mentre adesso, con tutte queste grandi stalle con centinaia e centinai di animali ammassati siamo messi veramente male.

CI VUOLE UN CAMBIAMENTO CULTURALE
Il punto è che nessuno di noi, da solo, non va da nessuna parte. O comunque il cambiamento non può essere solo singolo, individuale, bisogna cambiare a livello di comunità, a livello culturale, ci vuole un approccio con la terra e i suoi prodotti molto diverso da quello che abbiamo.
Per em questo è un passaggio indispensabile, cruciale, come umanità non ne possiamo fare a meno.
Se la prima causa di inquinamento al mondo è la produzione di cibo vuol dire che in qualcosa di importante abbiamo sbagliato. Il modo in cui mangiamo è sbagliato e il modo in cui pensiamo è sbagliato.
Un suolo povero genera intelletti poveri, con un suolo che a livello microbiologico e a livello minerale è ridotto ai minimi termini non può essere altrimenti. Se mangiamo male, pensiamo male e viviamo male.

CHE COS’È IL LAVORO
Sai perché tutte le mattine mi alzo e vado in campagna, quale valore trovo nel mio lavoro?
Fondamentalmente perché non riusco a vivere senza lavoro, il lavoro è una condizione essenziale della mia vita, e come puoi immaginare il fattore principale non è quello economico, non sto pensando ai soldi ma al senso della vita.
Naturalmente non è un processo lineare, come si dice dalle nostre parti non è facile.
Dato che sono un essere umano ci sono giorni in cui non vorrei fare assolutamente niente, ci sono i periodi di pieni di stress e di preoccupazioni, ci sono le annate che vanno male, però il lavoro è il lavoro, serve ad avere un posto nel mondo, per dare un senso alla alla vita, qualsiasi cosa ognuno di noi faccia. Almeno per me è così.


 
POST SCRIPTUM
Cara Irene, potrei dire con cognizione di causa che certe cose accadono per genio e per caso, o che sono profezie che si autoavverano, sta di fatto che pochi giorno fa, a commento della bella storia di Nicolangelo Marsicani, ho condiviso sui miei social questa piccola riflessione: “Per fare bene le cose ci vogliono la testa (quello che sappiamo), le mani (quello che sappiamo fare), e il cuore (la passione e l’impegno che mettiamo in quello che pensiamo e facciamo). Perché se si fa senza pensare si fanno guai, se si pensa senza fare si perdono possibilità.”
Rileggendo l’intervista di Mimmo, a partire dal collegamento tra il pensiero e ciò che gli piace e non gli piace, non ho potuto fare a meno di ripensarci. Il fatto è che Mimmo e Nicolangelo non sono soli. In questi quattro anni che vivo qui a Caselle in Pittari, nel Parco Nazionale del Cilento, del Vallo Di Diano e degli Alburni, il basso Cilento, ho conosciuto e raccontato decine di persone che non solo fanno cose buone e belle, ma le pensano anche, ne hanno consapevolezza.
Non solo non sono poche amica mia, ma potrebbero prefigurare una dimensione “generale” e “politica” dell’impresa che potrebbe avere caratteristiche interessanti per il futuro di questo territorio.
La mia giovane e brava amica e ricercatrice Maura Ciociano, che lo scorso mese ha presentato il caso “Jepis Bottega” nel corso del Festival del Lavoro nelle Aree Interne, promosso da Civiltà Appennino, Rubbettino Editore, RESpro e altri, mi ripete da allora che ha voglia di allargare, di approfondire il discorso, e che vrrebbe farlo insieme a me.
Non lo so, forse per me è un lavoro troppo impegnativo e di certo il mio “me” narratore ha preso da tempo il sopravvento sul “me” sociologo, comunque vediamo, mai dire mai. Intanto, se vuoi, al minuto 48 di questo video puoi ascoltare l’intervento di Maura. Alla prossima.

CREDITS
Le foto e il video di questa storia sono stati selezionati dai contenuti social di Domenico “Mimmo” De Martino e dal sito di Azienda Agricola De Martino.