Gennaro Melillo e OMG!, uà e che pizza!

Cara Irene, la storia di Gennaro Melillo mi fa piacere che la leggi raccontata da lui, perciò per adesso ti dico soltanto che la prima volta che l’ho incontrato aveva 9 -10 anni e giocava a basket con mio figlio Luca, l’ultima volta invece un paio di settimane fa, nella sua pizzeria, OMG!, come puoi vedere dalla foto. Però ritorno alla fine del suo racconto, perché tengo pure io un po’ di cose che voglio condividere con te, compresa la storia dell’amico zio e dell’amico nipote. A dopo.

Caro Vincenzo amico zio, ho pensato di iniziare presentandomi alle tue lettrici e ai tuoi lettori, spero di non sbagliare.
Sono Gennaro Melillo, ho 40 anni, sono nato e cresciuto sui Quartieri Spagnoli e non ho scelto il lavoro di pizzaiolo, è stato lui che ha scelto me.
Il mio è un lavoro che ha bisogno di estro, fantasia, dedizione, sacrificio, studio, passione, impegno, per questo lo amo. Credimi, io penso veramente che non sono nessuno, ma allo stesso tempo so che posso essere chiunque io voglia essere, ed è questo che mi ha portato a diventare oggi un bravo pizzaiolo.
Dal punto di vista del carattere mi ritengo un sognatore, nel senso che ogni cosa che ho fatto, ogni strada che ho intrapreso nella mia vita, è stata dettata e guidata sempre da un sogno, cose come diventare un giocatore del NBA, un calciatore del Napoli, il campione mondiale dei Super Welter.
Oltre il sogno, quello che oggi posso dire con certezza è che questa parte della mia vita, quella legata allo sport, mi ha aiutato molto a stare dalla parte giusta, per certi versi lo sport mi ha salvato.

A 9 anni i miei genitori, Carlo e Anna, mi iscrissero a basket alla Partenope (anche se io volevo giocare a calcio), la mecca del basket a Napoli.
Mio padre, attualmente in pensione, è stato un gran lavoratore. Da lui ho imparato che certe decisioni, anche se difficili, si devono prendere, e che prima o poi si deve rinunciare a qualcosa per un bene più grande.
Anna, mia mamma, anzi “la” mamma, è sempre attenta e presente, anche quando non la vedi fisicamente; lei è quella che sa se sono triste o felice anche solo sentendo il suono della mia voce.
Sono loro i pilastri della mia esistenza, l’esempio costante che mi accompagna nel mio modo di vedere la vita, giusto o sbagliato che sia.

La scelta del basket fu dettata dalla voglia di tenermi fuori da logiche ed esempi negativi presenti nel quartiere, e insomma io, storto o morto, come si dice qui a Napoli, me la dovetti far piacere questa pallacanestro e quindi iniziai a giocare.
Con il senno del poi, posso dire che non vi poteva essere scelta più azzeccata: ancora oggi, dopo 30 anni, sono legato a un sacco di persone conosciute grazie al basket, persone alle quali voglio bene e che a loro volta mi vogliono bene: tuo figlio Luca, “Lucariello”, è uno di questi, nonostante molte volte ci giocavamo il posto in squadra, e quindi potevamo esserci antipatici, e invece abbiamo legato da subito e scelto di essere amici, e questa è una delle lezioni che ho imparato con questo sport, la lealtà e il rispetto.
Detto questo, crescendo purtroppo sono rimasto 1,76 cm e ti lascio immaginare, anzi no, lo sai dato che parecchie volte venivi a vedere le partite, la difficoltà fisica a dover affrontare giocatori di 20 o anche 30 centimetri più alti di me.
Comunque è una cosa che non mi ha mai spaventato. “Loro so più alti?”, pensavo, “e io ci metto più cazzimma”, nel senso sportivo naturalmente, nel senso che sentivo dentro di me che non dovevo mollare mai.

Quando ho smesso di giocare a basket sono passato alla boxe, forse ero più portato, dare e prendere pugni era un pezzo della storia mio quartiere, e poi affrontavo un pari peso, almeno fisicamente la lotta era più ad armi pari.
La boxe cosa mi ha insegnato? Che non bisogna mai abbassare la guardia, perché alla prima occasione, “bam” e ti arriva una botta tremenda, proprio come accade nella vita, o no? E poi che puoi fare le cose con superficialità. Oggi so che questo vale sempre, ma nel basket se ti allenavi male al massimo perdevi una partita o il mister ti teneva in panchina, nella boxe invece sono mazzate, e le mazzate fanno male.
Anche se sono due sport completamente diversi, uno di squadra, l’altro individuale, entrambi mi hanno insegnato che ci vuole tanto impegno se vuoi ottenere un risultato, e secondo me nella vita è proprio l’attitudine che poi diventa abitudine a fare le cose in un certo modo che ci porta al risultato.
Bisogna fare le cose nel modo giusto, nel modo migliore possibile ed è forse anche per questo che oggi sono quello che sono, abituato a combattere per arrivare ad un obiettivo, che magari non arriverà mai, ma il mood deve essere quello, ne sono convinto, anche per questo mi è piaciuto così tanto il libro che hai scritto insieme a Luca.

Ci tengo a ribadire una cosa: il fatto che io sia nato e cresciuto in un quartiere difficile – i Quartieri Spagnoli come li conosciamo oggi sono lontani anni luce da quelli che ho vissuto io – non è mai stato un alibi per me, e non ci tengo affatto a creare uno narrazione, a costruire uno storytelling sul pizzaiolo che nonostante sia nato in un quartiere difficile ora è un imprenditore che prova a emergere.
Io ho fatto, sto facendo, solo il mio dovere, niente di speciale, aiutato dalla mia famiglia, dallo sport e dalla scuola (come sai sono diplomato), tre cose sulle quali ancora oggi dovremmo puntare per costruira una Napoli diversa che non lascia le persone indietro.
Lo so, ora sembra che voglio fare politica, ma non è così, è solo che, cavolo, a me certe cose fanno proprio uscire di testa, perché mi rendo conto che cambiare una tendenza, un modus operandi, è tra le cose più difficili di questo mondo. Detto questo, aggiungo che però non smetto mai di domandarmi “che posso fare io?” E nel mio piccolo mi rispondo che posso agire nel modo giusto, oggi lo faccio io e magari domani un altro, poi un altro e poi un altro ancora e così magari, prima o poi, le cose si aggiustano, proprio come avete scritto tu e Luca ne Il lavoro ben fatto: “ognuno fa bene quello che deve fare e tutto funziona meglio”.

Ma torniamo alle pizze.
A 19 – 20 anni ho iniziato a lavoricchiare nel ristorante di un mio zio; ero alla cassa, ma come una sirena chiama a sé un marinaio con il suo canto ammaliante, così faceva il bancone delle pizze con me.
Fu insomma amore a prima vista, e così, con umiltà ed educazione, chiesi al pizzaiolo se aveva bisogno di un aiuto, aggiuggendo che nel caso io ero a disposizione.
Fortunatamente – non sempre i pizzaioli hanno piacere a insegnarti i loro segreti, in particolare 20 anni fa – Antonio mi prese in simpatia e pian piano mi aiutò a muovere i primi passi. Ricordo ancora quando “ammaccai” il primo panetto, sembrava avessi una dimestichezza tale, acquisita solo guardando migliaia di volte le mani di Antonio mentre lo faceva, che lui vedendomi così capace quasi mi cacciò dal bancone, pensando io avessi mentito sul fatto che non avevo mai fatto questo lavoro. Ecco, questa cosa me la ricordo ancora come se fosse ieri, ed è una delle cose che mi fanno pensare ed essere certo che è stato questo lavoro a scegliere me, si vede che lo tenevo nel sangue, proprio come i fuoriclasse.
Spero di non sembrarti presuntuoso perché in realtà uso questa parola non perché mi senta tale, ma per ribadire una cosa secondo me fondamentale, e cioè che anche quel mio “essere portato”, insomma l’essere naturalmente predisposto a fare questo lavoro, senza lo studio, l’impegno, il sudore, il sacrificio e tante, tante ma tante altre cose, oggi non potrei essere assolutamente il pizzaiolo che sono.
Scusami ma sento il bisogno di ridirlo dritto per dritto: il talento da solo non basta. Eh, sarebbe bello così, se tutto fosse così facile saremmo tutti calciatori, musicisti, astronauti ecc., e invece diventiamo quello che siamo solo se non ci arrendiamo mai, se non ci siamo mai arresi.
Da quel momento non mi sono mai più fermato. Sono volato anche a Londra per 8 mesi, è stato un periodo bellissimo, durante il quale ho vissuto la mia indipendenza per la prima volta a 360° gradi, della serie “se non mi cucino non mangio” e “se non mi rifaccio il letto non c’è nessuno che me lo rifà”. Diciamo che, non avendo fatto il servizio di leva, Londra è stato il mio passaggio definitivo nel mondo degli adulti, come diventare grande. Lo so, magari tu adesso stai pensando che questo con la pizza non c’entra niente, e invece c’entra, perché è stato grazie alla pizza che ho potuto vivere un’esperienza del genere.
Tornato in Italia ho cominciato a lavorare per grandi marchi: Vesi, Sorbillo, Federico Guardascione, ho aperto il locale di Patrizio Rispo, il Tucci’s. E così ho continuato a conoscere persone, migliaia di persone, ho fatto amicizia, stretto rapporti, vissuto esperienze indimenticabili, tutte cose che ricorderò sempre con gioia.

In tutto questo è nato mio figlio, che si chiama Carlo e oggi tiene 12 anni. Lui è la persona che ha cambiato la mia vita per sempre. Essere genitori è la cosa che più di ogni altra ti abitua a non mollare mai, ad avere un obiettivo, a resistere di più nel tentativo di raggiungerlo.
Come sai caro Vincenzo essere un bravo padre è complicato, e se sei un genitore separato tutto diventa ancora più complicato. Non vedere mio figlio quotidianamente, essere genitori a distanza, non è facile, io molte volte mi avvilisco e mi rattristo, poi per fortuna mi rinbocco le maniche e vado avanti. Penso che ci sono cose che non possiamo cambiare per forza a nostro piacimento, uno può sforzarsi tanto e mantenere la presa fino allo sfinimento, e invece quando è il momento di lasciare andare, di allentare la presa, bisogna farlo e cambiare piano di vita, io l’ho capito solo con l’età, però per fortuna l’ho capito.

È venuto il momento di parlarti di Silvia, la mia compagna, una donna che riesce a tenermi testa e a rompermela pure, in senso figurato naturalmente, ogni tanto. Conoscerla mi ha automaticamente innescato quel meccanismo che si era un poco arrugginito nel tempo, quella cosa che ti spinge a dare sempre e solo il massimo, in ogni occasione.
Lei è senza dubbio un’artefice fondamentale nella realizzazione del mio sogno, la persona che più mi ha spronato, incoraggiato, reso possibile quello che avevo nella testa e nel cuore da anni, forse dal momento stesso in cui stesi quel primo panetto sul bancone delle pizze a Piazza Sannazzaro.
Ci sono voluti due anni a costruire tutto, dal progetto alla ricerca degli arredi, ma adesso il sogno è partito, è diventato realtà.
A volte mi chiedo “ma che ci fa lei con me?”, siamo diversi e discordanti quasi su tutto, ma su una cosa importanti siamo simili, abbiamo un grande cuore.Oggi senza di lei molte cose non riuscirei a gestirle, perché si, magari sono molto bravo con le pizze, ma tante cose che ci sono dietro un’impresa non so ancora gestirle al meglio. E poi considera che anche se sono uno che quando si incaponisce tanto fa che arriva a fare quello che vuole, sono anche molto pigro, e quando una cosa non mi piace mi metto di traverso, anche se so che devo impararla. Mi devi credere, è peggio di una mazzata in fronte, diciamo che qui il titolo potrebbe essere “Ah l’amore che fa fare.”

Ed eccomi arrivato al punto, o per meglio dire a un punto: il primo settembre di quest’anno finalmente quello che ho sempre desiderato è diventato realtà, le porte di “OMG La pizza di Gennaro Melillo” si sono aperte e hanno dato così vita a tutto quello che da anni avevo dentro.
Vincenzo, in questo progetto ho coinvolto, insieme alla mia compagna, anche la mia famiglia.
Per cominciare mio fratello Emanuele, che gestisce la cucina e fa dei fritti che mi devi credere, creano davvero dipendenza; lui è da bambino che vede in me un modello da seguire, che poi, dico io, con tanti modelli ha scelto proprio me che sono una “capa” gloriosa. Insieme a lui mia sorella Ida, una testa peggio della mia che prima non aveva mai fatto questo lavoro e adesso con grande impegno, sacrificio e passione è un un po’ il mio asso nella manica, anzi no, il mio jolly: dove serve un aiuto là si lancia, senza tirarsi mai indietro.

Come puoi immaginare siamo molto legati, e il fatto che stanno condividendo il mio stesso sogno e ogni giorno sono lì a lottare, con me, per il mio stesso obbiettivo, mi rende felice e fiero di loro. È vero, molte volte ci urliamo contro, per fortuna non davanti ai clienti, ma siamo una famiglia, è la passione dei quartieri spagnoli che scorre nelle nostre vene, delle radici non si può fare a meno.

Io direi che ho finito, cosa posso aggiungere ancora? Forse che sono sempre io, Gennaro Mellillo, che amo la mia la mia famiglia, amo la mia compagna, amo mio figlio, amo il mio lavoro e avendo tutte queste cose con me non mi metto paura di nessuno. Non so quanto tempo ci vorrà, ma so che la mia pizza mi porterà lontano, dove io mi sono prefissato di arrivare, perché è quello che voglio fare da sempre, perché quando una cosa è più grossa di me mi gaso fino al punto di non tirarmi mai indietro. Sono come tuo padre che hai raccontato nel libro, caro Vincenzo, le cose le prendo di faccia, a costo di rompermi la testa, ma devo vincere io.
Può capitare che non ci riesco? Certo che può, ma te l’ho detto già, ormai a 40 anni l’ho capito, quando bisogna mollare la presa bisogna farlo, però questo non significa aver perso, significa soltanto trovare un altro modo, un’altra strada, un altro obiettivo e andare avanti. Penso che tu mi hai capito caro amico zio, quando si vive come vivo io, con le cose in cui credo io, con i valori che ho io, si puà perdere una battaglia, non la guerra.

Allora Irene, ti è piaciuta la storia di Gennaro? Spero di sì, comunque, se vuoi, puoi scrivere cosa ne pensi nei commenti, e come te lo possono fare le nostre lettrici e i nostri lettori.
Vengo al punto, al mio punto, che comincia con me che divento amico di Carlo, il papà di Gennaro, grazie al fatto che ci incontriamo alle partite dei nostri figli. Lui è dei Quartieri Spagnoli, io di Secondigliano, ci prendiamo subito, i nostri figli diventano amici e pure noi; anche se solo di pallacanestro, siamo amici veri.
Quando i nostri figli non giocano più anche noi non ci vediamo più ogni settimana, o quasi, però il mondo è piccolo, figurati Napoli, e così ogni tanto ci incontriamo a via Toledo, ed è sempre un piacere salutarci, fare due chiacchiere, qualche volte prendere un caffè.
Adesso non è che ricordo proprio bene, ma penso sia stato una di quelle volte che Carlo mi ha parlato, da padre a padre, del suo dispiacere per il fatto che Gennaro non ha finito la scuola, ha lasciato a due anni dal diploma. Io il ragazzo lo conosco, il modo in cui “saltava addosso” a quelli più alti di lui di 30 centimetri me lo ricordo, la sua voglia di fare bene, la sua “fame” me la ricordo, e così dico a Carlo, sempre da padre a padre, che forse questa cosa si può aggiustare, che magari si può iscrivere alla scuola serale, che io ho qualche amico che può indirizzarlo e spiegargli come funziona, che però il ragazzo deve essere convinto, insomma ci devo parlare. “Se è convinto ce la farà”, gli dico, “vuol dire che mi faccio dare il numero di Gennaro da Luca gli dico di venire a casa e ci parlo”. Così dico, così faccio e così va, perché Gennaro quando è convinto di una cosa ci riesce, e infatti si diploma, tutto come previsto. E mentre tutto questo accade io ogni tanto continuo a incontrare Carlo, continuiamo ad aggiornarci sui nostri figli, non solo Luca e Gennaro, anche Riccardo, Ida ed Emanuele, fino a che non incontro anche lui, Gennaro, in una pizzeria vicino al Suor Orsola Benincasa. È un incontro pieno di affetto e di gioia, è come se da lì in poi diventiamo amici in proprio, se si puà dire così. Ogni tanto ci scriviamo sui social, seguiamo un po’ delle cose che facciamo, negli anni lo vado a trovare in una o due delle pizzerie dove lavora, fino a che arriva il Covid, esce “Il lavoro ben fatto” scritto insieme a mio figlio, il suo amico Luca, e lui decide di leggerlo.

Ha inizio così una nuova e del tutto inaspettata tappa, almeno per me è così, della mia amicizia con Gennaro, se vuoi tutta la storia la puoi leggere qui, ti consiglio con tutto il cuore di trovare il modo e il tempo di farlo.
Il primo post è del 27 Maggio 2020, l’ultimo del 13 Luglio dello stesso anno, è così che comincia la storia dell’amico zio e dell’amico nipote, quando lui mi scrive che essere mio amico gli fa troppo piacere, anche se un po’ gli crea imbarazzo, perché io per lui sono come uno zio saggio al quale chiedere consiglio, e io gli rispondo che allora possiamo fare così, io sono l’amico zio e lui è l’amico nipote.

Ecco cara Irene, direi che mi posso fermare qua, la puntata successiva è quella a cui ho fatto cenno all’inizio di questo racconto, la visita con Luca e Cinzia in pizzeria, peccato che Riccardo non è potuto venire, ma non mancherà occasione. Se ti dico che è stata una serata troppo bella mi puoi credere, sulla bontà della pizza non dico niente, Gennaro è Gennaro, devi andare solo da lui a via Diocleziano e andartela a mangiare.

Caselle in Pittari, 3 Novembre 2023
Cara Irene, ho trovato su Garage Pizza un articolo di Antonio Fucito che racconta OMG! e le pizze di Gennaro e sono assai contento di condividerlo con te.
Le ragioni principali per cui sono contento sono due:
La prima è che Antonio Fucito è un blogger esperto della pizza che scrive su un blog dedicato alla pizza, perciò il suo articolo è molto più specifico, mi viene da dire anche tecnico, ci sono tante belle foto, insomma il suo racconto si abbina perfettamente al mio, e senza fare sforzo posso dire alle nostre lettrici e ai nostri lettori “leggete l’articolo di Antonio se volete saperne di più“.
Il secondo è più personale, perché anche se sono abbastanza sicuro del fatto mio ogni tanto pure mi assale la paura che qualche lettrice, o lettore, a volte possa pensare che i miei racconti e i miei giudizi possano essere condizionati dai miei rapporti con il protagonista della storia. Che ti devo dire, a leggere quello che ha scritto Antonio mi viene da dire che io mi sono mantenuto pure basso con i voti, e mi sta bene così. Alla prossima.