Caro Diario, questa volta le cose che di solito ti racconto all’inizio te le dico alla fine, prima leggi la storia di Antonio Perreca, l’ho incontrato qualche giorno fa a Bacoli al Parco Cerillo e ho deciso che nelle mie storie di #lavorobenfatto una persona così non poteva mancare. Buona lettura.
«Caro Vincenzo, penso di dover iniziare dal momento cruciale della mia vita, la nascita di mia figlia Lucienne. Tieni presente che quando scopro che la mia ragazza aspetta una bambina io ho 19 anni e lei 17 e che proprio qualche mese prima si era discusso di qual era il mio pensiero nei confronti dell’aborto.
Ci tengo a precisare che non sono contrario alla scelta per principio, né sono contro chi la fa, i miei ragionamenti riguardavano me stesso, ritenevo di non essere una persona che poteva prendere una decisione di questo tipo, sostenevo che se fosse capitata a me una cosa del genere avrei accettato il verdetto della vita. Quando dalla discussione teorica mi ritrovo a dover prendere delle decisioni concrete non cambio idea, decido di rispettare il mio valore, aiuto con tutto le mie forze affinché nasca questa bambina, dunque mi sposo e decido di lasciare momentaneamente l’università, perché la mamma andava al liceo e doveva completarlo. Lasciare l’università ci poteva stare, mentre essere bocciata al liceo no, perciò si decise che fossi io ad accudire la bambina per permettere alla sua mamma di continuare il liceo, in pratica ho fatto il mammo per 3 anni. Ribadisco però che per me il distacco dall’università era una sospensione, un ritardo, non un abbandono.
Ecco, per me è lì la mia nascita, in quel momento non nasce solo mia figlia, nasco pure io, nel senso che cambiano tutta una serie di meccanismi nella mia testa, comincio a sviluppare un insieme di pensieri che sono legati alla volontà di essere un bravo padre: qualunque cosa facessi avevo come referente questa bambina appena nata.
Sì, dovevo e volevo essere un bravo padre, si era attivato in me un meccanismo che con il tempo mi porterà a stare fuori dal contesto in cui vivevo, ma su questo tornerò più avanti.
La logica suggeriva che in base alle condizioni del momento la mia storia dovesse essere scontata: andare a lavorare nella fiorente attività di famiglia della mamma di Lucienne; ma per quanto fosse sostenuta da esigenze di tipo economico e da una cultura radicata quella logica era incompatibile con i processi mentali che stavo sviluppando.
Lo ripeto, fare il padre con una sicurezza economica pareva un’opportunità irrinunciabile, perché non approfittarne? Perché quel contesto non mi rappresentava.
Vedi, le mie domande in quel frangente erano più o meno di questo tipo: questa via mi rappresenta? È qualcosa che mi fa essere la persona che voglio essere oppure no? In quel contesto posso dare il meglio di me stesso oppure no? E se non dò il meglio di me stesso, se non sono realizzato e felice, come posso essere un bravo padre?
Mi dicevo che essere un bravo padre vuol dire insegnare la felicità; essere genitore significa questo, mi ripetevo, insegnare a mia figlia la felicità. Non posso insegnare a mia figlia soltanto come attraversare la strada o come si fa il letto, tutte cose necessarie per carità, ma un genitore deve insegnare qualcosa di più. Ma se capisco che il mio compito è insegnare a mia figlia la felicità, come passo farlo se prima non sono felice io? Ho una vita intera davanti, devo smettere di sognare oppure no? E se smetto di sognare, sto creando le basi per la mia e la sua felicità?
Come è evidente le mie non sono domande facili, decidere di continuare a studiare invece di lavorare e fare carriera nell’attività di famiglia ha delle conseguenze, tieni presente che all’epoca non potevo comprare neanche un gelato a mia figlia, e la mia risposta a quelle domande mi colloca automaticamente al di fuori del contesto.
Per me qualunque lavoro merita rispetto quando è fatto con amore, ed io ero alla ricerca della mia via, sentivo il bisogno di fare ciò per cui ero nato, non potevo adattarmi ad un contesto eventualmente imposto. “Così non riuscirò ad essere un bravo padre”, mi dicevo, “nel lavoro devo trovare il mio posto, quello che mi è più congeniale”.
Vedi Vincenzo, io a 20 anni sognavo innanzitutto di essere laureato. “Avere una bambina non significa che adesso non posso sognare più”, pensavo, “no, è all’incontrario, proprio perché ho una bambina devo sognare di più, devo ribaltare la cosa”.
Ecco, è questo il processo che si è attivato nella mia testa mentre stavo a casa a fare il mammo, mia figlia non mi ha tarpato le ali, mi ha fatto sognare di più.
In estrema sintesi il mio punto di vista si può riassumere così: crea la tua felicità, così la condividi almeno con tua figlia e vai per la tua strada.
In buona sostanza il mio era un investimento, che certo mi faceva pagare un prezzo alto in quel momento – vivevo alla giornata, portavo a casa giusto i soldi necessari per il sostentamento, non è che mi potessi permettere chissà che cosa – ma quello era il mio momento di costruire, stavo investendo sul mio futuro, sulla mia felicità e dunque sulla felicità di mia figlia.
Sì, è vero, non avevo la possibilità di comprare una TV, ma ero dinanzi ad una scelta: per comprare la TV avrei dovuto in quel momento rinunciare a valori più importanti per mia figlia, e la mia scelta è stata ovviamene quella di rinunciare alla TV. Come vedi, questa creatura che neppure mi parlava era diventata la mia linea guida, tutto quello che facevo era basato su questa domanda: sarò un bravo padre? Pure quando tenevo un dubbio, quando mi chiedevo faccio questo o faccio quest’altro, mi dicevo cosa penserà di me Lucienne se faccio in questo modo o se faccio in quell’altro?
Mia figlia era il mio faro. Lei mi dice sempre che io sono il suo faro e io le rispondo ogni volta “sì tu il mio faro, perché è grazie a te che scelgo di essere migliore ogni giorno”.
Quindi continuo i miei studi, che diventano più difficili perché devo lavorare di più per il mantenimento e tutto il resto, e naturalmente anche la mia vita si fa più complicata. Da ragazzino alle prese con la genitorialità posso dire di essere cresciuto insieme a mia figlia; con lei mi sono formato e con lei ho condiviso pensieri e valori, cosicché anche la separazione dei suoi genitori non è stata la negazione del valore del matrimonio ma piuttosto la sua enfatizzazione: il significato del matrimonio è nell’amore, l’amore come presupposto indispensabile.
Vincenzo mi devi credere, ho avuto tutto il mondo contro, solo mia madre mi disse “ti riaccolgo in casa se vuoi studiare, capisco la situazione”, ma come ti ho detto sono andato avanti con i miei studi, anche se più a rilento.
Mia figlia intanto cresce, resta con la mamma però abbiamo la condivisione 50 e 50, al tempo vivevamo a 3 km di distanza, quindi un giorno sì e uno no stava con me, e io quando stavo con lei non rispondevo neppure a telefono, mi dedicavo a lei completamente. È vero, il mio tempo per lo studio si era allungato, però ero un padre consapevole.
Vado avanti, faccio teatro, coltivo anche qualche hobby, non voglio rinunciare a sognare e a fare cose.
Alla voce lavoro per 8 anni faccio il cameriere, di notte, fisso, dalle 18:00 di sera alle 5:00 – 6:00 del mattino, dormo 3 -4 ore a notte e un giorno a settimana recupero un po’; i giorni che non ho Lucienne alle 9:00 vado a lezione.
Ricordo che ero incazzato, avevo la grinta che mi veniva dall’essere incazzato.
Mentre io vado avanti mia figlia alimenta l’hobby della recitazione, ti anticipo che a settembre sarà a Venezia, al Festival del Cinema, percorrerà il red carpet, è nel cast de Il Sindaco del Rione Sanità il film di Mario Martone tratto dalla famosissima commedia di Eduardo De Filippo.
Il mio punto resta sempre quello, continuare sulla mia strada, una strada non priva di difficoltà piccole e grandi, grandi come l’incidente quasi mortale di cui è vittima mio fratello.
Rimane in coma per 30 giorni, estrema unzione, organi da donare e tutto il resto, e invece grazie a Dio si riprende, e io ho cominciato a portarlo in giro per gli ospedali in ogni parte d’Italia, perché ha dovuto subire decine di operazioni. Ricordo che i miei genitori si erano affidati completamente a me, mi dicevano “fai tu”, dovetti decidere pure se fargli fare un’operazione che poteva portarlo alla morte, per fortuna che è andata bene, e comunque io in questi infiniti giri tra gli ospedali avevo sempre con me quaderni e libri, mentre lui, poverino, si lamentava, io studiavo, cercavo di capire la formula di elettronica, di fisica.
Adesso dimmi tu Vincenzo, ma secondo te che cosa c’è dietro tutto questo? Secondo me c’è la voglia, la determinazione. Ancora una volta stavo soffrendo perché stava succedendo tutto questo, perché andavo in giro per l’Italia insieme a mio fratello, perché tra un viaggio e l’altro dovevo lavorare di più perché andare in giro costa.
Comunque mio fratello si riprende, ringraziando Iddio, continuiamo ad andare avanti, fino a che a 31 anni – il tempo passa amico mio – quando mancano pochi mesi alla laurea, perdo mia madre a causa di un tumore galoppante. Se ne va in pochi giorni, all’improvviso.
Vincenzo, ho visto chiudere gli occhi di mia mamma il giorno di Natale del 2005, lei che sognava il figlio laureato non lo ha potuto vedere. Ecco, a quel punto mi è venuta la voglia di mollare, lì mi sono detto “io mi fermo, è arrivato il momento, nun se po’ ffà cchiù niente, non si può fare più niente”. Mi ripetevo “ma come, mia madre che non ha mai trascorso un giorno in ospedale muore così, nell’arco di pochi giorni?” Ero incazzato assai, devastato di rabbia, e invece ancora una volta qualcosa succede, ancora una volta anche grazie a mia figlia, che a questo puno della storia ha 10 anni, perché vedi Vincenzo, alla fine anche l’incazzatura è energia, uno che sta incazzato pensa quanta energia ha. In ogni caso per me è stato così, pensavo “sto così incazzato che potrei buttare giù un albero e pure una casa, ma se tutta questa energia la convertissi in qualcosa di positivo? Se questa incazzatura me la portassi in qualche cosa di produttivo?” Mi sono detto proprio così, “io sto troppo incazzato, devo scaraventare questa mia incazzatura nelle cose che faccio”, e così a una settimana dalla morte di mia mamma ho cominciato a scrivere il primo capitolo della tesi e 6 mesi dopo mi sono laureato.
A proposito, non ti ho detto ancora che tre mesi prima della laurea faccio domanda per un dottorato di ricerca a Birmingham, la invio oltre il limite di scadenza, però faccio lo stesso la domanda, alle 3 di notte. Due giorni dopo, il mio supervisore di tesi stava parlando con Birmingham, volevano me, gli dicevano fatelo laureare subito perché lo vogliamo da noi, quindi mi laureo sapendo già che devo andare in Inghilterra, scelta resa possibile anche grazie alla madre.
A questo punto la domanda diventa: visto che tengo un rapporto così bello e solido con mia figlia, andare in Inghilterra cosa significherà, perderla? Non ha significato questo, piuttosto si è evoluto in un altro modo il nostro rapporto, ci hanno aiutato i social, il fatto che tornavo a casa ogni 10 – 15 giorni, insomma a 32 anni inizio il mio dottorato, quando tanti mi dicevano è troppo tardi per te, come puoi pensare di avere il dottorato, di iniziare il dottorato a 32 anni?
Sai io cosa rispondevo? “Mi pagano, potrebbe essere come un’esperienza in un’industria, però io con il dottorato posso crescere, posso incrementare il mio bagaglio culturale nel campo delle onde gravitazionali di cui faccio parte. Il dottorato mi porterà, con tanti sacrifici, a essere felice, a essere nel punto dove io voglio stare”.
Perché sì Vincenzo, penso si sia capito, questo processo di ricerca della felicità non va confuso con una vita tutta rosa e fiori. Chi mi ha conosciuto negli anni di Birmingham mi ha visto spesso sofferente, perché la felicità richiede sempre un prezzo. Non è che sono andato lì e stavo sempre sorridente, ho buttato il sangue, stavo da solo, vedevo i bambini dalla finestre e mi piangeva il cuore perché pensavo a mia figlia, però sapevo che stavo lì perché mi stavo costruendo, che quella era la preparazione al mio sogno e che quella preparazione richiedeva un prezzo, quello di stare da solo, di stare lontano da eventuali amori, un prezzo che io ero disposto a pagare perché per me la felicità non ha prezzo.
A mio avviso tutti coloro che raggiungono la felicità hanno pagato un prezzo, non è gratis la felicità. In fondo non è difficile da capire: se tu hai un muro e al di là di quel muro c’è la felicità, quel muro è un ostacolo, ora però degli ostacoli che cosa ce ne facciamo?
Per me gli ostacoli non stanno lì per fermarci, stanno lì per formarci, questo è quello che penso io. Chi si ferma vuol dire che non ha un sogno abbastanza grande, o comunque non lo ritiene abbastanza grande da alimentarlo.
Per me funziona così: io ho un sogno grande, lo alimento, e allora quell’ostacolo che sta lì mi fa crescere e mi forma, io lo supero, riaggiorno i miei limiti e sono una persona migliore, sofferenza inclusa, perché la sofferenza ci rende migliori. Sì, la sofferenza secondo me non va sprecata, va utilizzata. È sempre una decisione nostra, siamo noi che decidiamo di usarla per essere migliori. Io ho sofferto, devo trarre vantaggio dalla sofferenza, l’ostacolo mi è servito per migliorarmi.
Scusami se mi ripeto ma per me gli ostacoli sono un’opportunità per essere migliore. Se ci pensi sarebbe triste percorrere una strada senza ostacoli, sarebbe come vivere una vita al di sotto delle proprie possibilità, perché i tuoi limiti non li testerai mai.
Io l’ostacolo lo voglio, perché mi porta a spingermi sempre più avanti, perché se sto facendo una cosa e salto l’ostacolo vado oltre. Per me si rimane sempre giovani fin quando abbiamo obiettivi, un sogno senza obiettivi rimane solo un sogno.
Dopo Birmingham vengo chiamato all’Università di Trento come ricercatore, mi offrono un contratto di 4 anni, ma dopo 3 – 4 mesi dall’università di Syracuse, USA, uno dei capi fondatori di Ligo, collega di Kip Thorne, mi chiama al cellulare e mi dice tu hai fatto il dottorato a Birmingham, noi stiamo avviando una nuova equipe, abbiamo un milione di dollari da spendere nella ricerca, abbiamo un nuovo professore che non potrà stare qui tutto il tempo, vuoi venire per allestire il gruppo, il laboratorio?
Al primo giro rispondo che in italia ho una fidanzata, ho mia figlia e insomma l’America è un po’ troppo lontana. Loro mi richiamano, alzano l’offerta, mi dicono che mi danno uno stipendio così, un ufficio con queste caratteristiche, danno il lavoro alla mia fidanzata, trovano la scuola per mia figlia, insomma mi propongono di tutto, mi sento proprio voluto, ne parlo con mia figlia, che al tempo ha 16 anni, taglio il contratto di 4 anni con Trento e me vado negli Usa.
Sì, vado in America, comincio a lavorare sul serio, ma veramente sul serio, e soffro veramente tanto, in un modo disumano. Guardavo persino le persone sui balconi quando facevano le grigliate, perché in America l’ho sentita in maniera diversa la solitudine, non come le altre volte, mi sono sentito davvero solo, a meno 26 gradi, mi sono trovato lì con le paure che puoi avere perché il lavoro è nuovo, si aspettano da te chissà che cosa e tu ti chiedi se sarai all’altezza delle aspettative, senza avere una persona con cui confidarti.
Naturalmente vado avanti, procedo, con mia figlia il rapporto ancora una volta si evolve, paradossalmente diventa anche più bello, ci incontriamo in varie parti del mondo, lei viene negli Usa, io torno spesso, fa parte del mio contratto, in media ogni 3 mesi sto qua.
Quindi faccio il mio lavoro, quel milione che ci era stato assegnato ci viene tagliato appena arrivo, diventa mezzo milione di dollari. A quel punto che cosa avrei dovuto dire?, “non posso più fare quello che mi chiedete”? No, scopro invece che negli Usa ci sono degli scassi tipo quelli delle auto dove le università americane buttano tutti i vecchi strumenti, penso di andare a fare la spesa lì e trovo strumenti perfettamente funzionanti. Alla fine i 500 mila dollari me li faccio bastare, ne spendo 400 mila per la precisione, faccio comunque l’esperimento che devo fare, bloccare delle masse sospese non con l’elettronica ma con la forza della luce.
Per sommi capi funziona così: tu hai due specchi e la luce che va su e giù, dunque gli specchi che tu appendi si dovrebbero muovere, invece si bloccano. Proprio così, se manipoli la luce nel modo giusto blocchi gli oggetti solo con il laser, è una figata pazzesca, tu spegni l’elettronica e gli specchi si bloccano, e tutto questo l’ho fatto con mezzo budget.
Nel frattempo con mia figlia, con la quale continuo ad avere una vita parallela, viviamo una nuova sfida. Lei in quel periodo fa scuola di recitazione con Mimmo Borrelli, con il quale deve fare il primo spettacolo da co-pratogonista. Il problema è che lo spettacolo è il giorno prima del suo esame di maturità.
Per me qui ritorna una questione di approccio culturale, non è un semplice fatto: concentrarsi solo ed esclusivamente all’ esame di stato al fine di ottenere un buon voto finale, oppure dedicarsi anche al suo sogno?
Lucienne è combattuta, in crisi, parliamo via Skype 3 ore, io già avevo il mio punto di vista, però la faccio parlare e chiudiamo la telefonata con me che le dico “senti, ti devo fare una domanda, tu pensaci, richiamami domani, non c’è bisogno che mi rispondi ora. Ma nel tuo cuore tra anni ti rimarrà più il 100 oppure l’emozione per esserti esibita in questo spettacolo? E se tu perdessi l’anno? Io ne ho persi tanti di anni. Ora tu hai tutti 9 e 10, se non prendi 100 e prendi 90 pensi davvero che sarà un dramma, che non troverai un lavoro per via di questi 10 punti?
Mi richiama dopo due ore e mi dice “Papi, ma tu poi mi giudicherai se non prendo 100?” Le rispondo che la giudico se prende 100 e non fa il teatro, “per me puoi anche perdere l’anno”, concludo.
“Ma come papi”, fa lei, “tu sei un’universitario e mi dici questo?, ma già, tu sei tu, sei papi”.
Sì Vincenzo, sono un accademico, ma non seguo la regola dell’università, seguo la regola del cuore.
Comunque Lucienne decide che vuole farlo lo spettacolo, che vuole rischiare, dopo di che va sui giornali, è contenta, “sono la donna più felice del mondo” mi dice a un certo punto, poi va a fare l’esame e prende pure 100.
Il passo successivo è l’iscrizione all’università, tutta l’estate a parlarne, della serie mi conviene fare questo, mi conviene fare chimica, mi conviene fare giurisprudenza. Vincenzo, era il “mi conviene” che non andava.
Mi conviene fare cosa?
Io le dico “Lucienne, ti rendi conto che stiamo ragionando male? Il punto non è che università fai, chimica, legge o matematica, il punto è chi vuoi essere. Tu devi rispondere a questa domanda, chi voglio essere io domani, non che università devo fare, perché se tu rispondi alla domanda chi voglio essere ti viene in automatico quale università scegliere sempre che tu voglia fare l’università, perché anche questo io non lo dò per scontato”.
Lei a questo punto mi dice che vorrebbe fare la scuola di recitazione che si trova a Milano, la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, però ci sono quasi 700 iscritti e solo 14 posti, è difficile.
“Ma è quella la cosa che ti rende felice oppure no?”, domando, e lei risponde “sì, magari ci provo”. “No no no”, insisto io, “non è che ci provi, è una cosa che ti rende felice, o no?” E allora lei dice “mi iscrivo a chimica però mi voglio preparare per questa scuola”, e allora ricomincia la crisi.
Per me non è detto che si debba fare l’ Università, bisogna essere innanzitutto felici, io sono semplicemente un genitore, non posso stabilire quello che deve fare, non c’è l’ho questa arroganza, questa presunzione, è lei che deve capire quello che vuole fare. Come fa un genitore a stabile per il proprio figlio quello che deve fare, come se avesse la sfera di cristallo, ma che ne sai tu se quella è la cosa migliore per lui o per lei? Ma perché, leggi il suo cuore? Ma perché, sai poi il mercato come si evolve? Se fa giurisprudenza guadagnerà più soldi. Ma secondo te uno può guadagnare soldi facendo cose che non gli piacciono? Come fa? Si deve svegliare la mattina e dire “mannaggia adesso vado a lavorare?”
Il successo non può essere legato a quello che guadagno, il successo per me è svegliarsi la mattina e fare ciò che ti piace, guardare l’orologio come lo guardo adesso io”.
Funziona proprio così Vincenzo, quando facevo il cameriere a un certo punto guardavo l’orologio e non vedevo l’ora di tornare a casa, oggi guardo l’orologio penso “mannaggia, sta passando il tempo, Madonna mia, io voglio continuare a lavorare”.
In pratica lo guardo all’inverso l’orologio, voglio che la giornata non finisca, la mattina quando mi sveglio, anche se sono stanco, non vedo l’ora di andare in laboratorio, e quando sto in laboratorio non voglio uscire. Questo per me è il successo, e come fai a farlo se lo fai per i soldi?
Io non guardo manco i soldi che mi danno per quello che devo fare, lo stabilisco una volta quando firmo il contratto e poi basta, non voglio aumenti, non voglio niente, mi dovete far lavorare, devo stare lì.
Tornando a Lucienne, a un certo punto mi dice “papi mi preparo, ho risposto alla mia domanda, mi sento me stessa sopra un palco”.
“E allora devi andare”, le faccio io, “potrebbe non essere questa la scuola, però tu hai individuato quello che vuoi fare”.
Va a fare il concorso e lo vince, è la prima. Viene presa al volo, sfascia un teatro per interpretare la parte che ha portato, butta tutto per terra, perché lei nella vita è dolcissima però sul palco è incredibile. La prendono e quindi si trasferisce per tre anni a Milano.
Mia figlia oggi ha un conto in banca pari a quello che ho io e tiene 24 anni, se pure vogliamo guardare questo parametro che a me non interessa, perché non è quello l’importante, non può essere quello.
Perché mia figlia ha il conto in banca? Perché ha lavorato in teatro, ha fatto tournée con Martone, il film con Martone, perché sta alimentando il suo sogno, anche se il mercato non sarà favorevole lei è comunque una che si è spinta oltre, che si è messa alla prova, è una che dice “Papi, come sono felice”, pensa come mi sento io.
La figlia che ti viene a dire “papi come sono felice” ti aiuta a credere di essere stato un bravo padre o che almeno qualcosa ha funzionato, perché io sono felice come lo è lei, sono felice per me, sono felice per lei, soprattutto la vedo come una persona che sta dove deve stare, non mi interessa il conto in banca, mi interessa che lei si sveglia la mattina con una grinta da paura, con una luce bellissima. È luminosa mia figlia, e perché è luminosa? Perché è felice, per quello, perché è piena di amore. Naturalmente qui ti ho detto delle domande e dello spirito che avevo e ho io, poi se sono stato e se sono un bravo padre non lo so, questo puo’ dirlo solo Lucienne, forse. In ogni caso per me è l’amore la chiave di tutto, l’amore per il lavoro, l’amore per i propri figli, l’amore per la propria compagna.
Da quando sono tornato all‘Università di Trento ho un ruolo diverso, ma sono contento le stesso.
Alcune cose sono cambiate, negli USA se dovevo spendere 10 mila dollari facevo un click e il giorno dopo mi arrivava quello che avevo ordinato, in Italia per spendere 2 euro del mio budget è un macello, ci vuole l’avvocato, il notaio, il ministero, puoi uscire distrutto per delle sciocchezze. Però a Trento ho una carica e un ruolo che mi piace un po’ di più, sono responsabile di un laboratorio delle onde gravitazionali che è tra i più avanzati per le sue tecnologie, loro mi hanno detto tu vieni e noi costruiamo con te e intorno a te questo laboratorio, ho a disposizione 100 metri quadri e 500 mila euro da investire.
C’è da dire anche che sono vincolato alle collaborazioni con Ligo e Virgo sulle onde gravitazionali, lavoro per loro, venendo a Trento in pratica continuo il lavoro precedente, dagli Usa mi sono portato il lavoro in Italia. In più, essendo il responsabile, oltre a questo posso fare anche altro, per esempio costruire in proprio oggetti e tecnologie che sul mercato costano tanto. Per farti un esempio, un oggetto che a comprarlo costa diverse migliaia di euro secondo me si può costruire con poche centinaia di euro, naturalmente con la stessa efficienza e gli stessi risultati.
Lo faccio non solo per usare meglio le risorse che ho a disposizione, ma anche perché voglio capire il meccanismo, perché posso guidare la precisione, perché posso avere il totale controllo. L’idea è di fare un bel progettino, di trovare un tesista che ci lavora con la mia guida 10 mesi e se ci viene bene la brevettiamo pure questa cosa.
Come vedi torniamo sempre là, se hai l’obiettivo lo raggiungi, non esiste il non si può fare, non è nelle mie corde.
Sulle onde gravitazionali a Trento sviluppiamo la tecnica che poi va a Virgo a Pisa e a Ligo negli Usa per le loro antenne di 4 km per 4 km e di 3 km per 3 km.
L’obiettivo in questo caso qual è? Queste tecniche servono per rendere gli strumenti più sensibili per captare le onde gravitazionali, che noi chiamiamo suoni dell’universo.
Perché sono importanti? Perché gli strumenti devono essere sensibili? Perché vogliamo captare onde che stanno più lontano, e quelle più stanno lontano e più sono piccole e più richiedono strumenti sensibili per essere captate.
Non è banale come sembra, perché più sei sensibile più senti tutti i rumori, non è che prendi solo quello che ti serve, prendi tutto, come per esempio questo martello che non ci dà tregua e che ci costringe ad urlare. La sensibilità è fare in modo che i rumori si abbassino e il segnale aumenti, in maniera tale da sentire onde gravitazionali sempre più piccole e più lontane.
In pratica, se saremo bravi saremo in grado di andare più lontano nella distanza e più indietro nel tempo, perché capteremo segnali che provengono da più lontano e che quindi sono stati generati più tempo fa. Questi segnali, questi messaggi, ci danno informazioni importanti sull’universo, sulla sua origine e sulla sua formazione.
Il mio sogno è arrivare all’origine dell’universo. Adesso stiamo a poco meno della metà ma ogni anno miglioriamo, ogni anno captiamo segnali sempre più piccoli e più lontani, dal 2030 in poi secondo me possiamo arrivare all’origine. Io lavoro per questo, per catturare segnali sempre più lontani e sempre più indietro nel tempo, lavoro per spingermi più lontano e tornare più indietro, bello no?»
Caro Diario, eccomi, adesso che l’hai letta te lo posso dire che per me la storia di Antonio Perreca e del suo rapporto con la figlia Lucienne è di una bellezza sconvolgente, di mio voglio aggiungere solo quattro cose, e dopo averci pensato un po’ ho deciso di farlo attraverso alcuni dei libri che sono stati importanti nella mia vita, un po’ perché mi piace farlo e un po’ perché quando ero ragazzo i libri – a parte quelli di scuola – non erano un bene fondamentale, non potevano esserlo, perché i soldi erano pochi e i libri non è che li puoi mangiare o indossare, e poi facevano polvere come diceva la nostra meravigliosa mamma contadina quando io e mio fratello Antonio abbiamo cominciato a comprarli, che da noi non c’era spazio per la polvere, in mano a nostra madre la casa alla voce pulizia sembrava uscita da uno spot di Carosello.
1. Il primo libro è Il Tao della fisica, di Fritjof Capra. Avevo 14 anni ed è stato il mio primo viaggio alla scoperta di concetti come la velocità della luce. Me la ricordo ancora l’emozione quando ho letto che il segnale di una stella che dista 4 anni luce dalla Terra impiega 4 anni ad arrivare ai nostri occhi e ho capito che avrei potuto vedere nel cielo una stella che non c’era più da tre anni e non vedere una stella che era nata da tre. Se più avanti nella mia vita ho potuto incontrare Stephen Hawking, Carlo Rovelli e Kip Thorne lo debbo a quell’emozione. Detto ciò, mi tocca aggiungere che non è solo e neanche principalmente per la fisica che sono partito da Capra, ma per la citazione con la quale si apre il libro, che secondo me ha parecchio a che fare con il pensiero di Antonio Perreca:
2. Il secondo è Il codice dell’anima di James Hillman. Dell’impatto potente di questo libro sulla mia vita e sul rapporto con i miei figli ti ho parlato più volte, ma anche in questo caso il punto sono le connessioni con la visione di Antonio, e perciò me la cavo pure qui con una citazione tratta dalle epigrafi a mo’ di prefazione con cui l’autore apre il volume. È di Jung, e recita così:
“In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata”.
3. Il terzo è Viaggi e avventure della Serendipity di Robert K. Merton ed Elinor G. Barber, ora tu lo sai quanto mi sia piaciuto studiare e lavorare intorno al concetto di serendipity, ma ancora una volta ti invito a stare sul punto, perché il mio incontro con Antonio Perreca è stato davvero serendipitoso, come te lo spieghi altrimenti il fatto che proprio nei giorni in cui sto leggendo Viaggiare nello spaziotempo di Kip Thorne mi capita sotto gli occhi la pagina di Cronaca Flegrea dove leggo questo:
Quello che è successo dopo te lo puoi immaginare, ho chiamato Cinzia e le ho detto che il prof. che ha fatto da portabandiera per l’Italia alle Universiadi è di Bacoli, che è un fisico, che ha collaborato con Kip Thorne alla ricerca che poi gli è valso il Nobel Prize per la Fisica 2017, dopo di che le ho chiesto se si poteva liberare e fare una corsa per arrivare in tempo al Parco Cerillo, dove un’ora e mezzo dopo Antonio sarebbe stato premiato dal Sindaco Josi Della Ragione. Il passo successivo è facile da indovinare, ho sentito il discorso di Antonio e ho deciso che lo dovevo raccontare.
4. Il quarto e ultimo è Novelle Artigiane, quando Antonio mi parla della necessità di spingersi oltre i propri limiti gli leggo le righe che seguono, le trovo molto in sintonia con quello che mi sta raccontando:
Conclusa l’intervista mi sono ricordato che al Bar/co Cerillo c’era ancora una copia del mio romanzo e gliel’ho regalata con tutto il cuore.
Ecco amico Diario, direi che mi posso fermare qui, spero di non essere stato troppo lungo, però la storia di Antonio mi ha detto veramente tante cose, considerala un omaggio alla sua fisica, ai suoi sogni e alla sua filosofia.