Caro Diario, è da un po’ di tempo che ci giro intorno, ma credo che su questa storia dell’uso consapevole delle tecnologie sia venuto il momento di tornarci su con forza, se non fosse che è una parola che detesto oserei dire con violenza.
Lo sai che sono anni che sto sul punto. Mi sono inventato A scuola di lavoro ben fatto, di tecnologia e di consapevolezza per portare la questione nella mia backdoor preferito verso il futuro, la scuola, ogni tipo di scuola, dalla prima elementare – spero quest’anno anche dalla materna – fino all’università. Con Colomba, Maria, Irene, Loredana, Francesca, e tante/i altre/i sono un sacco di anni che ci lavoriamo. Abbiamo scritto libri, report, articoli. Abbiamo partecipato a riunioni, incontri, convegni, conferenze. Personalmente ho lavorato con almeno una ventina di scuole di varie città italiane e ho incontrato più di mille ragazze/i di ogni età. Come se non bastasse, a un certo punto mi sono inventato pure, con scarsissimo successo, una petizione per l’istituzione di un internet consciousness day.
No amico Diario, non dirò mai che non è servito, perché è servito, serve, a noi e alle ragazze e ai ragazzi di ogni età con le quali interagiamo anno dopo anno, ho prove e testimonianze a mio favore, eppure mi sento come se da sopra Sant’Elmo volessi pescare i polpi a mare, uguale.
Stamattina la mia amica Stefania Zolotti, direttore responsabile di Senza Filtro – a proposito lo hai visto Vedi Napoli, il fantastico reportage di questo mese? – ha scritto su un social questo post: «A Bologna si è seduto accanto a me un ragazzo che non ha mai alzato gli occhi dal computer. Erano le 7 e lui sta ancora fisso a lavorare.
Mai vuol dire che non ha visto niente dal finestrino, non si è fatto bagnare nemmeno un pensiero dall’umidità dell’alba, nessun contatto dentro – fuori. Mi fanno più paura gli uomini che i robot.»
Come dici caro Diario? Certo che stiamo messi male? Alle voci aneddoti – esperienze ho pure io qualche cosa da raccontare. Ad esempio del ragazzino di terza media seduto su un muretto con una ragazza a fianco a cui una volta ho detto “ma invece di stare con la capa sul telefonino e le mani sulla tastiera perché non ti fai una chiacchiera con questa bella guagliona” e lui mi ha risposto “prof., ma io è con lei che sto parlando”.
Con gli aneddoti mi fermo qui, ciò che mi inquieta davvero è che questa volta non so che pensare e dunque non so che fare.
Sai, con il lavoro ben fatto è diverso, quando dico che l’Italia o la salva il lavoro o non la salva nessuno io sono convinto, lo so motivare, so spiegare cosa fare, come farlo e perché farlo.
In questo caso qui no. So che solo un sano e consapevole uso delle tecnologie ci può salvare dal grande fratello, so anche che non è questione di disintossicarsi, per me quello non basta, per me si tratta di ridefinire il paradigma tra l’uomo e la tecnologia e di rimettere al centro l’uomo e la sua capacità di pensare. Detto questo, non ho idea di come fare e, cosa per me ancora più grave, comincio a dubitare anche del perché farlo.
Certo, certo, l’educazione è importante, la cultura fondamentale, non lo dire a me che tanto lo so già, è per questo che vado in giro per le scuole di ogni ordine e grado e ho messo in piedi le cose che ti ho detto all’inizio. Non sarò mai apocalittico, continuo a essere convinto che le tecnologie – quelle digitali più di tutte – siano delle fantistiche moltiplicatrici di opportunità, molte delle cose che faccio da una vita su su fino alle recenti Novelle Artigiane non avrebbero letterarlmente potuto vedere la luce senza internet e i nuovi media. Però non mi piace neanche essere integrato, non intendo rinunciare a pensare e a farmi domande, da questo punto di vista resto fedele al mio “vecchio” Guccini, della serie “scusate non mi lego a questa schiera, morrò pecora nera”.
A proposito di domande, la settimana scorsa chiaccherando con il mio amico Matteo Bellegoni a un certo punto ci siamo domandati cosa succederà alla voce controllo – condizionamento quando il device di moda non sarà più lo smartphone ma un paio di occhiali o un casco.
Già, caro Diario, lo sai tu cosa succederà? Io no! E aggiungo anche che proprio io che sono stato sempre sto dalla parte di Neo, Morpheus e Trinity comincio a domandarmi se invece non abbia ragione Cypher.
Come dici amico Diario? Adesso sto esagerando? E perché, direi piuttosto che sto forzando il concetto fino al limite di rottura, però la domanda c’è.
Te lo ripeto: io lo so perché fare bene le cose è bello, ha senso, è giusto, è possibile e soprattutto conviene. Invece perché vivere a Zion e mangiare le proteine è meglio che vivere in Matrix e mangiare le bistecche non sono più sicuro di saperlo. Già! Perché se sono povero, non ho da mangiare, non ho bei vestiti, non ho i soldi per andare al cinema, al teatro e ai concerti e neanche per viaggiare non dovrei indossare un paio di occhiali e un casco e vivere la vita che vorrei?
A te basta rispondere perché in questo modo vivrei in un mondo virtuale e non reale? A me no. Innanzitutto perché dovrei saperlo. E poi perché proprio come Cypher anche se lo so non è detto che non sia disposto a fare a cambio, per un voto o per un piatto di pasta, chi può dirlo.
Dici che sono pazzo? E perché, ti sto chiedendo soltanto di pensarci su e di dirmi se hai qualche risposta alle mie domande, ma risposte vere, di quelle che cambiano le cose e i comportamenti delle persone, non quelle che ci mettono a posto la coscienza e non risolvono nulla.
Sì, è di questo che vorrei discutere, credo che lo dobbiamo alle generazioni che verranno, perché se continuiamo a far finta di niente lasceremo in eredità poco futuro e poca libertà.
IL MIRAGGIO DELLA TECNOLOGIA CONSAPEVOLE
di Laura Ressa
Caro Vincenzo,
sul tema della tecnologia e di quel che ci attende di qui a qualche anno poni un interrogativo difficile (2984). Trovare una risposta è un’impresa titanica perché significa in parte rinunciare a qualche nostra certezza, arrenderci all’idea che i cambiamenti che vivremo saranno cruciali e che rivoluzioneranno la nostra vita in modi che non vogliamo immaginare.
Ma devo dirti la verità: a me alcuni utilizzi delle tecnologia fanno paura già adesso, prima ancora che la realtà aumentata e l’intelligenza artificiale siano pienamente nelle nostre mani e sottoposte a usi e stravolgimenti.
La realtà è plasmata da noi, di qualsiasi realtà si tratti. Dunque le tecnologie del futuro per me hanno uguale probabilità di essere ben utilizzate o di rivelarsi un disastro. Dipende in gran parte da noi.
Oggi si parla di mondo connesso in continuazione, come se il mondo connesso sia di fatto un modo di vivere al quale non possiamo più rinunciare, nel quale siamo immersi e che ci riempie di così tanti stimoli da farci pensare che forse molto presto questa mole di stimoli non sarà abbastanza per noi. Ne vorremo altri, ne vorremo di nuovi e ne vorremo sempre di più.
Quindi mi chiedo: la tecnologia può essere consapevole? Io dico di no: la tecnologia, come ben sappiamo, è uno strumento e siamo noi a scegliere in che modo usarla.
Spesso ne facciamo un uso inconsapevole e altre volte riusciamo a mediare tra i nostri bisogni imposti e la razionalità. Ma in fondo ci sarebbe molto da dire anche sull’aggettivo “consapevole”.
Dovremmo partire chiedendoci: chi decide cosa sia “consapevole”? Chi conosce fino in fondo il significato di questa parola?
Per me dipende tutto dall’uso che si fa della tecnologia. Molti la utilizzano per ottenere attenzioni, ad esempio. Per questo scopo ogni mezzo è considerato potenzialmente lecito ma è difficile che ci si interroghi sull’immagine di sé che si fornisce nella rincorsa al soddisfacimento di quelle attenzioni. Ciò del resto avveniva già in tempi non sospetti, prima dell’avvento del mondo iper-connesso.
La differenza è che oggi abbiamo molti più strumenti e molti più ambienti digitali nei quali esprimere la nostra presenza, in modi che fino a qualche anno fa ci erano ignoti.
Se vogliamo esprimere le nostre competenze, scriveremo qualcosa in merito o mostreremo i nostri luoghi di lavoro. Se vogliamo mostrare dove ci troviamo e con chi, ci basterà un tag e una foto da postare sui social.
Di molte cose che facciamo o diciamo ci ripetiamo: in fondo non faccio nulla di male. Ed è vero: magari non facciamo nulla di male agli altri, nulla di male nell’immediato, ma non sempre siamo consapevoli dell’immagine di noi che diamo in mano agli algoritmi e ai fruitori dei contenuti. Al di là della spettacolarizzazione e della condivisione bulimica della vita privata, credo che nessun comportamento sia oggettivamente giudicabile.
Il tema dell’esposizione in pubblica piazza è solo un piccolo tassello del puzzle, ma sicuramente riguarda una fetta di quei mutamenti verso cui la tecnologia pian piano ci conduce.
Per noi è diventato normale, se non addirittura dovuto, entrare nelle case degli altri attraverso internet. Forse domani sarà facile entrare nella nostra stessa vita per mezzo di strumenti che ci consentiranno di percepire il mondo in modo nuovo.
La tecnologia non è etichettabile come oggettivamente bella o brutta, e anche i nostri comportamenti nei suoi confronti non sono nettamente buoni o cattivi. Possiamo dare interpretazioni personali, consci del fatto che possano essere sbagliate.
Cosa penseremmo se domani il nostro presente fosse racchiuso tutto in un’app e l’ambiente che ci circonda passasse solo dagli impulsi di un marchingegno tecnologico?
Anche qui torniamo al concetto di giudizio, sempre sbagliato e sempre inutile se il nostro intento è capire verso quale direzione la tecnologia ci condurrà e se saremo in grado di guidarla anziché subirla.
E allora la risposta termina con quel punto interrogativo che per noi è diventato così difficile da accettare. Non sappiamo cosa avverrà e se lo immaginiamo, scacciamo via da noi quel pensiero.
Quindi non ho risposte concrete su come leggere questo processo evolutivo, ma so quello che il mondo digitale mi ha donato da quando ho cominciato a usarlo come un’opportunità per migliorarmi e capire gli altri.
La nostra risposta arriva se ci fermiamo a ragionare davanti ai punti interrogativi senza voltare lo sguardo. Pensiamo che il domani potrà solo peggiorare la nostra condizione di uomini digitali o finalmente prenderemo in mano gli strumenti per farne qualcosa di utile e di bello che migliori la nostra vita?
E la nostra vita, attenzione, non la miglioriamo solo facendo conoscere a tutti cosa abbiamo mangiato a pranzo o dove siamo stati in vacanza ad agosto illudendoci di diventare, così, un po’ più felici di qualche minuto prima della condivisione.
Non la miglioriamo dando adito alle storture del mondo parlandone in continuazione sperando che cambino.
La vita la miglioriamo se mettiamo al centro il bello. Il bello inteso come ciò che dà alle giornate un buon profumo, ciò che assegna ai nostri luoghi un ricordo e ai nostri cari una storia da narrare.
Qualche giorno fa una persona cara molto in avanti con gli anni ha chiesto di ricevere in dono un bambolotto. Questo è un gesto che, di solito, passa inosservato: il giorno dopo ce ne siamo già dimenticati e continuiamo a infarcire le nostre vite di lotte, pareri discordanti, attriti. E invece perché non vivere di racconti positivi? Perché non raccontare un episodio del genere a chi ci sta accanto? Perché non farlo diventare un modo per riflettere sulla nostra strada, sul fatto che prima o poi ritorneremo bambini? Non la reputo una riflessione triste: come ribadisce Vincenzo Moretti, noi siamo umani perché moriamo e perché sbagliamo.
Ecco, il futuro della tecnologia che ci attende per me è come la morte: è una cosa certa ma spetta a noi raccontarla e viverla come un passaggio anziché esserne costantemente terrificati.
Chi sono? Che vita voglio vivere? Che vita vivrò da qui a vent’anni? Ci sarò ancora? Cosa rappresenta per me la tecnologia? A che scopo la uso?
Da queste domande potrebbe partire il processo in cui siamo noi a plasmare l’ambiente perché abbiamo deciso di prendere le redini. Il che non significa guardare solo nella direzione che vogliamo ma fare uno uso nostro dei mezzi che adoperiamo.
La piramide di Maslow si è rovesciata da parecchi anni ed è persino anacronistico ripeterlo. La tecnologia corre più veloce del nostro pensiero.
In una bellissima intervista sul ruolo del marketing, Paolo Iabichino dice parole interessanti:
“Ci vuole una motivazione vera, che non è quella di diventare ricco e famoso, ma è quella di provare a cambiare le cose, provare a migliorare la vita delle persone, così come provare a migliorare il mondo in cui abitiamo. Chi troverà anche questo tipo di spinta, allora è sulla buona strada per un buon modo di fare marketing.
Altrimenti questa persona diventerà un bravissimo tecnico, un impiegato della comunicazione. Un impiegato del marketing. Cosa che può assolutamente andare bene, in realtà…
Senza grandi interrogativi, questa persona magari riuscirà pure ad andare a lavorare per la multinazionale iperblasonata, esattamente come una dignitosissima impiegata può raggiungere lo sportello delle poste o un dignitosissimo custode il suo posto da bidello. Anzi, paradossalmente queste persone avranno molte più possibilità di cambiare il mondo di chi passerà la vita a compilare powerpoint ed excel, senza veramente interrogarsi su cosa stia realmente facendo per migliorare, anche di poco, il metro quadro di mondo che gli è stato dato in sorte.”
Nessuno ci ha insegnato come affrontare la tecnologia e tutte le implicazioni che da essa derivano. Sta tutto nella nostra testa e nel nostro libero arbitrio.
Quando penso al mio futuro la cosa che mi spaventa di più è quello che riuscirò a lasciare a chi verrà dopo. Mi chiedo se un giorno saprò educare i miei figli a usare ogni mezzo come estensione della mente.
Spero che la tecnologia aiuti le generazioni che verranno a trovare lo slancio per scoprire l’umanità. Quella vera, non solo quella che ci raccontano a parole.
Voglio immaginare un futuro in cui le persone domineranno la tecnologia senza esserne dominate.
Nelle ultime settimane, mentre cercavo di terminare questo testo, mi sono capitati sotto gli occhi due articoli che sembrava volessero parlarmi.
Ecco alcuni passaggi.
[…] Dovremmo imparare a essere più aperti, curiosi e sì, anche ottimisti (insomma: dovremmo imparare a guardare allegramente un po’ al di là del nostro naso) per affinare le nostre percezioni e renderle più acute. Dovremmo combattere i pregiudizi, perché distorcendo le nostre percezioni distorcono anche la nostra comprensione del mondo.
[…] Alzate gli occhi dallo schermo, guardatevi attorno lentamente e notate che massa di dati lo sguardo trasmette alla vostra mente, e come la vostra mente riconosce, considera, cataloga, connette.
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NON CI RIESCE.
Sentite la superficie che state toccando con le vostre mani, la sensazione che vi trasmettono gli abiti che indossate, e tutte le altre informazioni che arrivano dai vostri sensi: suoni, sapori, odori… riconosceteli e mettete tutto assieme. State facendo qualcosa che nessuna intelligenza artificiale, neanche la più sofisticata, è oggi in grado di fare. Dopotutto, è questa fragile, mutevole, fallace capacità di percepire a renderci, prima ancora che umani, vivi.
(dall’articolo di Annamaria Testa: Percezioni diverse: gli universi paralleli che costruiamo dentro di noi)
L’importanza di essere disconnessi
«La tecnologia è una cosa fantastica. Ha sempre avuto un potere rivoluzionario e non mi ha mai fatto paura…oggi più che mai però è importante non avere timori reverenziali nei confronti della tecnologia. Conviene restare umani, custodire la riservatezza, preservare degli spazi di “non connessione”. Servono per stare con noi stessi e con gli altri, per parlare davvero con amici e parenti, per passeggiare in un bosco. Un’altra priorità che dobbiamo darci è quella di farci custodi della natura, del creato e di tutto ciò che di bello hanno fatto le persone che hanno abitato questo pianeta prima di noi».
(dall’articolo di Giulia Crivelli: La visione di Brunello Cucinelli: «Non temete il futuro, siate per bene e passeggiate nei boschi»)
La tecnologia non ci rende impreparati al futuro. Sta a noi alzare lo sguardo e decidere la vita che vogliamo senza lasciare che siano altri (persone, strumenti, tecnologie) a decidere per noi.
TECNOLOGIA, UMANITÀ E LIBERTÀ
di Matteo Bellegoni
Caro Vincenzo,la tua riflessione sull’uso consapevole delle tecnologie è come un pugno allo stomaco, una secchiata di acqua gelata in faccia che ti costringe a tornare d’improvviso alla realtà dopo un lungo sonno.
Gli interrogativi che poni in modo così volutamente dissacrante ci costringono a fare i conti con gli aspetti più profondi dell’evoluzione umana e a tal proposito ci sarebbero tante cose da dire.
Io però voglio partire e concentrarmi su ciò che mi sta più a cuore, la libertà prima di tutto.
Per me stare dalla parte di Neo, Morpheus e Trinity significa stare dalla parte della libertà, perché stare dentro Matrix significa essere immersi e prigionieri dell’algoritmo, significa recidere la radice più importante della nostra umanità, la creatività.
La scintilla di umanità che brilla dentro ognuno di noi credo che dovrebbe essere la luce che ci consente di vedere la strada nella nebbia incerta del futuro.
Mentre scrivo questa riflessione sto ascoltando Ludovico Einaudi, spesso uso la musica quando devo scrivere o leggere per concentrarmi meglio ed avere un contatto più profondo con me stesso, anche il pianoforte è una tecnologia, eppure è in grado di esprimere ed esaltare la forza creatrice dell’uomo, senza quel pianoforte non ci sarebbero le note, senza quelle note non ci sarebbe la musica, e viceversa però senza quel musicista il pianoforte non suonerebbe.
Per rimanere dentro l’esempio fatto dico anche però che, a meno che tu non sia Mozart, per scrivere e suonare musica devi studiare, devi conoscere le note e la melodia, devi saper suonare il pianoforte, devi esercitarti duramente ogni giorno, solo così potrai esprimere la tua creatività e trasformarla in musica attraverso l’uso del pianoforte.
Tutto ciò mi porta a ragionare sul fatto che se le nuove tecnologie costituisco un profondo cambio di paradigma, anche il nostro approccio verso il loro utilizzo deve essere profondamente diverso dai canoni classici che abbiamo utilizzato fino ad oggi.
La tecnologia, se messa al servizio dell’uomo e del suo pieno sviluppo individuale e collettivo, è una solamente una tappa, sebbene importantissima, dell’evoluzione umana, e pertanto libertà, autonomia e partecipazione vanno di pari passo con l’evoluzione tecnologica e con il concetto di connessione.
Solamente la consapevolezza dell’importanza della libertà, della creatività e della partecipazione individuale e collettiva possono condurci verso una vera connessione dell’uomo, senza farci naufragare nel mare indistinto e asettico dell’algoritmo.
Se riempiamo di valori il concetto di connessione poco importa dello strumento materiale o immateriale che utilizziamo per crearla e farla vivere, perché al centro ci sarà l’uomo, il suo sviluppo e il suo benessere.
Ma come già detto tutti devono essere messi in grado di poter conoscere a fondo come poter utilizzare le tecnologie, per esprimere al meglio se stessi e per essere connessi consapevolmente con il mondo, e tutti devono poter avere la possibilità di accesso alle tecnologie, altrimenti invece di creare ponti tra gli uomini, rischiamo di creare muri, invece della partecipazione, rischiamo di cadere nell’esclusione, che già sono tendenze culturali di cui il mondo occidentale sembra sempre di più vittima.
A questo punto mi viene spontaneo affermare una cosa che può apparire retorica ma per me non lo è: prima di imparare a usare le tecnologie, con tutte le loro potenzialità, dobbiamo imparare ad essere umani.
La sfida è quella di creare un pensiero consapevole e connesso in grado di modificare il nostro approccio all’evoluzione umana, la capacità di assorbire il cambio di paradigma affinché la nostra mente possa indirizzarlo verso la piena affermazione dell’umanità.
Ovviamente tutto ciò non è facile da attuare, significa cambiare alla radice il concetto di evoluzione di sviluppo del mondo, ma per cambiare il mondo dobbiamo innanzitutto cambiare la nostra mente, perché siamo noi la forza creatrice della storia dell’umanità.