Di canzoni, di tempo e di Sud: Peppe Voltarelli si racconta

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Dire che Peppe Voltarelli è una persona speciale è out, ma Peppe Voltarelli è una persona speciale. L’ho conosciuto per genio e per caso un po’ di anni fa grazie a un’altra persona speciale, che adesso potete anche cambiare pagina e non leggere mai più una mia storia ma se almeno una volta nella vita avete incontrato Alex Giordano sapete che è come dico io. Era domenica ed eravamo con Cinzia, Anna e Gerardo alla Residenza Rurale L’incartata quando a un certo punto è arrivato Alex e con lui Peppe e la gioiosa e compulsiva tempesta di amicizia che le persone come loro riescono a scatenare. 
Chiacchieriamo, Peppe mi regala il suo libro – Il caciocavallo di bronzo, edito da Stampa Alternativa, – con regolare dedica of course – e insomma passiamo un’ora che dopo sembra una vita che siamo amici. 
Tornato a casa, scopro grazie al signor Google che ha vinto il Premio Tenco 2010 con Marinai, che fa concerti e ha bellissime collaborazioni artistiche in ogni parte del mondo. Il «cinema» che fa sempre dal teatro Ariston con Petra Magoni nel 2011 mi fa impazzire ogni volta che lo vedo, quello di Qui si campa d’aria con il suo omaggio a Otello Profazio è imperdibile, in mezzo, prima e dopo Io, tu, loro diretto da John Cardiff, Turismo in quantità, the Dig, il video girato al Bar Molise di Montreal, Sciakatan, la sua canzone dedicata al Sud.  A proposito di Sud, non so a voi, ma a me che il video del premio Tenco l’ho visto tutto, quello che dice Peppe alla fine mi piace assai, e dato che lo so come funziona, che andiamo sempre di fretta, nel caso non abbiate tempo ve lo metto qui: «il dialetto per me è un grande valore, è un valore poetico, un valore letterario; però è anche un valore di rivendicazione, per dire che esistono dei Sud che sono diversi, che sono alternativi, che sono puliti, che sono volenterosi e che non si chiamano né mafia, né camorra e né ‘ndrangheta come in realtà molti vogliono far credere».
Perché si, il Sud, le canzoni, il tempo perso e guadagnato sono altrettante parti del daimon, del codice dell’anima, della streppegna di Peppe Voltarelli. Se volete saperne di più dovete soltanto continuare a leggere.
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«Che dici Peppe, cominciamo dall’inizio?»
«Perché no. Sono calabrese e vengo da una normale famiglia di lavoratori, mamma maestra e padre geometra con la passione della politica. Ho cominciato a suonare molto giovane con gruppi locali e ho sempre coltivato l’interesse per la musica  e la lettura. A 13 anni ho iniziato a viaggiare e a 18 sono andato a vivere a Bologna per frequentare il Dams.  Sempre a Bologna nel 1990 ho iniziato la mia carriera vera e propria, pubblicando i miei primi lavori. Dal 1995 ho iniziato a farlo in modo professionale, con un reddito.»
«Insomma non hai avuto altro lavoro all’infuori della musica e della scrittura?»
«Non proprio. A Bologna ho fatto una ventina di giorni come postino furgonista ma i loro orari troppo mattutini erano incompatibili con i miei troppo nottambuli e così mi sono licenziato. Per una notte ho fatto anche il facchino ai tir ma ci trattavano come scimmie, pensa che non sono neanche andato a prendermi la paga per paura che mi trattenessero anche per la notte successiva. E poi c’è l’esperienza positiva a Crevalcore, dove ho fatto il servizio civile in una casa di riposo per anziani. Purtroppo a un certo punto mi sono preso un esaurimento nervoso e ho dovuto lasciar perdere, ma è stata una bellissima esperienza: suonavo e cantavo sempre, i nonni erano felici quando arrivavo.»
«Comunque anche solo a vedere i chilometri che fai – credo di sapere di cosa si tratta – anche il tuo lavoro di musicista e scrittore mi pare tosto.»
«Più che tosto direi che il lavoro creativo è una cosa da matti. A tratti appassionante perché credi che quello che fai sia utile non solo a te ma a tanta gente, perché mentre lo fai ti diverti, ridi, ti scarichi e ti ricarichi di energia in tempi molto brevi. Però è anche come vivere stando sulla ruota della fortuna, una sorta di grande roulette dove provare brividi e paure. E tutto questo accade con canzoni, concerti, spettacoli, libri, chiacchiere, nottate infinite di parole con amici, viaggi e traversate, molto tempo passato in posti nuovi. E poi domande, tante domande. Certe volte ti puoi anche ammalare.»
«Insomma deve essere una vocazione, come diceva Josephine Baker; una cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo.»
«Sicuramente. Però deve essere anche molte altre cose. Ti faccio un esempio. Molte volte ho pensato – forse anche per colpa di alcuni modelli educativi – che fosse un peccato perdere tempo, poi ho capito che perdere tempo era importantissimo. Tutto quel tempo che ad esempio avevo passato a guardare la gente camminare stando seduto ai tavolini dei bar mi serviva come il pane. Il mio era un tempo diverso, una cosa che i miei amici che erano stati venti anni seduti a una scrivania vendendo mobili mi invidiavano perché quel tempo mi aveva dato cose che altri non avevano vissuto. Certo, io non sapevo «il trucco» per vendere una camera da letto a una famiglia della Brianza, però nel frattempo avevo visto la Brianza da dentro, l’avevo vista negli occhi dei miei amici che vivevano là di notte, l’avevo vista nelle loro case, nei loro racconti, nei bar dove spesso ci si chiede che ci siamo venuti a fare qui. Ecco che allora il lavoro, passato questo momento, diventa materia viva, musica, parole che escono dal museo e rotolano per strada in tante lingua diverse.»
«Peppe, questa mi è piaciuta un sacco.»
«Mi fa piacere. Sai quando è stato per la prima volta «ecco, questo è il lavoro?»
«No. Ma giuro che stavo per chiedertelo.»
«E’ stato quando con il gruppo ci siamo divisi per la prima colto i soldi dopo uno spettacolo. Ricordo che erano centomila lire a testa. Ecco, è stato lì che ho pensato che dovevo smettere di farmi prestare i libri perché ormai potevo pagarli. Avevo lavorato.»
«Non aggiungo niente altrimenti divento mieloso e non mi piace. Ti arrabbi se per finire ti chiedo di raccontarmi un pizzico di te oltre il lavoro? Quello che ti piace, che ne so, il tuo piatto preferito, lo scrittore, cose così, che sembrano sceme, e che invece secondo me ci aiutano a definire chi siamo.»
«E perché mi dovrei incazzare? Mi piace stare a casa d’inverno con il giubbino e ascoltare canzoni popolari del passato, mi piace il sud di Berlino e come stile di vita mi piacciono le cose essenziali. Poi mi piace mangiare cose del posto. Non avere nostalgia. Fare il tifo per la squadra della città in cui vivo, si, mi piace accumulare città e tifoserie. Mi piacciono le scarpe che fa Mario Bemer a Firenze che prima si parla per ore dei materiali, dei viaggi e della musica. Mi piace il cinema di Herzog e Fassbinder. E mi piace passare ore seduto al Bar Molise di Montreal. Che dici Vincenzo, basta?»
Si, direi che basta, anzi no. Perché prima di scrivere la parola fine vi voglio dire dell’ultimo lavoro di Peppe, Voltarelli canta Profazio, un libro di 65 pagine e un Cd di 10 canzoni edito da Squilibri Editore che è uno straordinario omaggio alla musica folk, ai suoi cantastorie, alla canzone che racconta l’anima dei luoghi.

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*Credits Foto
La foto che apre il post è di Leo Leander
La foto centrale è di Peppe Voltarelli
La foto che chiude il post è di Alana Mejia Gonzales