Napoli, 11 Luglio 2017
Caro Diario, nei giorni scorsi sono passato con Cinzia per un caffè al Saint Honorè Vanvitelli, la nuova scommessa del mio amico Luciano. Sono stato particolarmente felice di incontrarlo sia perché alla voce «salute» ha brillantemente superato una questione aperta con il suo cuore e sia perché alla voce «caffè», quando ci sta di mezzo lui, nella veste di titolare come quando l’ho conosciuto o nella veste di direttore come adesso, quando esci dal bar te ne stai per ore a rigirarti il suo sapore in bocca, che come diciamo a Napoli quello che ti sei preso non è un caffè, è ‘na ciucculata.
Niente, te lo volevo dire, che come sai mi fa piacere farti sapere cosa fanno i protagonisti delle mie storie, mi è dispiaciuto solo che non ci siamo fatti una foto, sarà per un’altra volta, intanto me ne sono presa una bella dai social e ne ho approfittato per rileggermi la storia. Modestia a parte, è come il caffè, una cioccolata. E sia chiaro che non è perché l’ho scritta io, è perché la sua storia è veramente bella. Appena puoi rileggila anche tu.
La prima volta mi ha colpito per la buona educazione e il sorriso, che come diceva mio padre sono due cose fondamentali, se hai a che fare con il pubblico ancora di più. La seconda per la pastiera alta e bagnata proprio come piace a me. La terza per il biscotto all’amarena e lì ho deciso che un giorno o l’altro l’avrei raccontato, che un biscotto all’amarena così non lo mangiavo da tanti tanti anni, perché non è mica vero che si fa con gli scarti degli altri dolci, e sono stato così contento che glielo ho detto pure, anche se poi ci sono voluti un paio di mesi prima che trovassi il tempo e il modo per farlo.
Come dite? Non vi ho detto ancora chi è? Si chiama Luciano Tricarico, come dice lui Luciano di nome e di fatto, perché è un napoletano di Santa Lucia, si, proprio quella della canzone che Teodoro Cottrau ha fatto diventare la prima canzone napoletana tradotta in italiano, però adesso non fatemi distrarre perché vi devo raccontare come Luciano fa il biscotto all’amarena, anzi ve lo faccio raccontare da lui che è meglio: «Faccio un buon Pan di Spagna al forno, lo sbriciolo appena raffreddato, prendo la mia lattina di amarene intere, quelle buone, mi prendo il succo – lo sciroppo che sta nella lattina – e impasto il Pan di Spagna con lo sciroppo di amarena, dopo di che sbriciolo le amarene e quando l’impasto è bello amalgamato mi faccio un po’ di pasta frolla. Poi preparo il rotolone con l’impasto del Pan di Spagna e dell’amarena, taglio i biscotti sia nella taglia piccola che in quella grande e preparo la glassa da appoggiarci sopra con un po’ di granella di nocciola. A questo punto inforno. Cottura media di quindici minuti ed è fatta. Si fidi, è un prodotto buono, sano e genuino.»
Lo guardo mentre con il pollice e l’indice uniti in cerchio porta la mano aperta da sinistra a destra nel tipico gesto napoletano come a dire «state in mano all’arte», «ho detto tutto», e penso «non è che mi fido, è che io l’ho mangiato il tuo benedetto biscotto, e ogni volta che posso passerò a rimangiarlo, che per lui ho tradito persino sua maestà la pastiera».
Come dite? Sono esagerato? Può essere, però a volte anche un biscotto all’amarena dice un mondo, e se leggete il resto della storia magari scoprite che siete d’accordo con me.
Luciano ha 59 anni, padre fioraio e mamma casalinga, ha studiato fino alla quinta elementare, si definisce autodidatta, dice che legge molto, di certo parla un ottimo italiano, racconta che ha avuto sempre sete di imparare, voglia di sapere, di crescere, scrive anche poesie, una di queste, ‘O cafè, me l’ha inviata per posta ed è davvero molto carina.
Ha fatto tanti lavori da garzone, guadagnava più o meno 1000 lire a settimana che portava regolarmente a casa, con la mamma che gli lasciava i soldi per andare al cinema. Il primo lavoro vero è intorno ai 15 anni, in macelleria.
«Devo dire che mi è rimasto molto di quel periodo – mi dice -. Conosco la carne nei minimi dettagli, la so tagliare, sfasciare, insaccare, a casa mi diletto a fare le salsicce e anche gli hamburger, che non sono proprio facili da fare. Non sono proprio facili perché se uno li fa solo di carne vengono secchi, ci vuole un impasto tipo polpette, con l’aggiunta di latte. E ci vuole carne mista, altrimenti non vengono teneri e saporiti come devono venire».
Intorno ai 22 – 23 anni un amico gli propone di lavorare in un locale in via Generale Orsini, Luciano è al banco che fa il piastrista, prepara club sandwich, hot dog e hamburger nei panini lunghi che oggi non si vedono quasi più. Trascorrono 4 – 5 anni e viene ingaggiato da due fratelli come cameriere in un bellissimo locale di via Petrarca. In breve tempo diventa uno dei più bravi, soprattutto verifica che per lui il rapporto con le persone è talmente bello, vitale, importante, che non può farne a meno.
«Per me non era solo un lavoro, era una strada da percorrere, arrivavo sempre mezzora prima e me ne andavo mezzora dopo. Ho imparato tante cose, per certi versi mi sono acculturato, sentivo che dovevo rendermi indispensabile e ce la mettevo tutta in ogni cosa che facevo, tagliare la frutta e preparare il banco frutta, sistemare i tavoli, qualunque cosa».
Nel 1987 avvia, insieme al fratello, a Monte di Dio, il suo primo bar. La zona era bella, c’erano tanti uffici e studi professionali. Con il decollo del Centro Direzionale di Napoli la musica cambia, Luciano e il fratello perdono come tutti nella zona fino al 70 percento della propria clientela e così il nostro lascia il bar al fratello e avvia come gestore una trattoria a via Gennaro Serra di cui è titolare la moglie con due sue amiche.
«Era una cantina molto bella, con maioliche dell’800 che raffiguravano un vigneto; feci fare un bellissima cucina a giorno in modo che fosse tutto visibile e in poco tempo diventammo un punto di riferimento per attori, artisti, musicisti. Da noi sono passati tanti artisti del San Carlo, Gino Bramieri, Vanessa Redgrave, Michele Placido, Sergio Bruni, solo epr ciarne alcuni. E’ stato un periodo meraviglioso: facevo la spesa – mercato frutta e mercato pesce – e c’erano 4 – 5 piatti che preparavo io. Ricordo il bucatino con il soffritto (compravo il polmone intero, me lo portavo dentro, me lo lavavo sul fuoco, mi preparavo la salsa forte e a tavola) e le salsicce a punta di coltello, erano il doppio di quelle che si vedono abitualmente, nell’impasto ci mettevo il Martini, il pepe bianco, il finocchietto. Sono riuscito a tenere botta per 6-7 anni, poi la stanchezza ha preso il sopravvento. Un lavoro meraviglioso ma troppo impegnativo, la fatica che ricadeva su di me era esagerata, continuare così non avrebbe avuto senso e così mia moglie cedette la sua parte e io mi rimisi di nuovo in discussione».
Nel 1997 Luciano diventa socio di un bar a via Chiaia e per 3 anni sta lì, però il posto è piccolo, professionalmente gli sta un po’ stretto. Nel 2000 ritorna a lavorare con i fratelli del locale di via Petrarca ma questa volta nel loro gran caffè di via Filangieri.
«Ci resto per 11 anni di fila, creando l’impossibile, dai panini fino a 100 primi piatti al giorno e anche secondi piatti. Sono stato uno dei primi a esporre piatti di pesce nella vetrina di un bar, ricordo il salmone mandorlato, le alici, il baccalà. E poi la realizzazione di una vetrina esterna con torte e babà che facevano dei numeri esorbitanti. Avevamo un laboratorio alle spalle che ha permesso a questa Ferrari di partire a 300 all’ora e sarebbe stato un peccato non sfruttare tutto questo potenziale.»
Nel 2011 è il momento di una società con un altro amico, un locale in via Depretis, un altro in via Diaz e un laboratorio di pasticceria che li serviva entrambi.
«Siamo andati avanti quasi 2 anni facendo anche qui bei numeri, in questo periodo sono stato anche direttore di un caffè nell’outlet di Marcianese e per 6 mesi direttore di un ristorante a via Partenope.»
Poi in ritorno per quasi due anni a via Filangieri prima della sua nuova scommessa, il Monterey Cafè, a via Chiaia, da dove siamo partiti e dove personalmente conto di ritornare al più presto per rimangiare il biscotto all’amarena dei miei sogni.
E Luciano? Luciano quando gli ho chiesto se è venuta l’ora di fermarsi mi ha risposto «Non lo so, penso di avere ancora tante cose da fare. Vede, io ho la fortuna di essere una persona veramente, eternamente, innamorata del proprio lavoro. La sera potrei andare a casa prima, o potrei riposarmi di più, ma la mia vita è questa. Ricordo che quando eravamo piccoli c’era chi voleva diventare dottore, chi avvocato, chi malavitoso mentre io ambivo a diventare cameriere, perché così potevo stare a contatto con le persone. Io in quattro mura morirei subito, devo stare in mezzo alla gente, devo parlare con la gente. Per me il rapporto umano è una delle cose più belle che esistono, e ho la fortuna di lavorare, che già di per se è una cosa che nobilita, stando con le persone. Mi dica, lavorativamente parlando, cosa si può desiderare di più dalla vita?».
Avrei voluto rispondere «niente», ho detto «mi raccomando, i biscotti all’amarena, vediamo di mantenere sempre questo livello». Mi ha sorriso, di un sorriso un po’ perplesso, forse ha pensato «questo è fissato», però non me l’ha detto, una persona di buona educazione come lui queste cose non le fa.