Dizionario del #lavorobenfatto

Bacoli, 19 Ottobre 2018
Caro Diario, l’idea di mettere assieme dieci, cento, mille autrici e autori per realizzare un dizionario che racconti idee, progetti, buone pratiche, visioni legate al #lavorobenfatto è di quasi 3 anni fa.
Come dici? Idee come queste non invecchiano? Esatto, per questo ho deciso di rilanciarla. Ti ricordo che si possono proporre voci inedite o ridefinire voci già pubblicate. Che per definire le diverse voci si possono usare non solo testi ma anche immagini, video, link, citazioni o altro. E che per giocare a questo gioco basta inviare la propria definizione a partecipa@lavorobenfatto.org
Buona partecipazione.

GLI AUTORI
Vincenzo Moretti, Alessandra Aita, Cinzia Anzellotti, Tiziano Arrigoni, Rodolfo Baggio, Matteo Bellegoni, Alda Maria Bergomi, Simone Bigongiari, Elisa Bonfanti, Federica Bruno, Luca Buiatti, Osvaldo Cammarota, Claudia Campisi, Gabriele Carloni, Irene Casa, Nando Casa, Isabella Ceccarini, Barbara Chiavarino, Gennaro Cibelli, Viviana Cibelli, Osvaldo Danzi, Silvia De Felice, Margot Deliperi, Francesca Di Ciaula, Mattia Di Gennaro, Raffaele Di Lorenzo, Maria Clara Esposito, Lorenzo Fariselli, Manuela Fedeli, Antonio Fresa, Aldo Gay, Anna Gatti, Mary Gioffrè, Luigi Glielmo, Ilaria Grasso, Gianluca Gualducci, Gianmarco Guerrini e Nicolò Lucioli, Chiara Iannello, Maurizio Imparato, Ilaria Iseppato, Michele Kettmaier, Tina Magenta, Mattea Maggioni, Simona Malta, Laura Massaro, Monica Cristina Massola, Fabio Mercanti, Daniela Morandi, Rita Mosca, Lucia Olivi, Vincenzo Orefice, Veronica Otranto Godano, Rosario Pagano, Sandro Paladino, Wanda Pane, Francesco Panzetti, Anna Pavarese, Rosaria Peluso, Domenico Pennone, Alessia Peracca, Serena Petrone, Giovanni Pisano, Federico Presezzi, Renato Ravenda, Sabrina Razza, Laura Ressa, Giuseppe Jepis Rivello, Maria Giovanna Romano, Simone Romano, Andrea Salamino, Roberto Salvato, Angela Scarano, Erika Siciliano, Giuseppe Svampa, Veronica Testa, Piero Vigutto

LE PAROLE DEL LAVORO BEN FATTO
Amore; Anima; Approccio; Attenzione; Attesa; Bellezza; Benessere; Biografia; Bottega; Cambiamento; Complicità; Comunità; Condivisione; Connesione; Convenienza; Coraggio; Creatività; Crowdfunding; Cura; Curiosità; Dedizione; Delega; Determinazione; Diversità; Eccellenza; Empatia; Energia; Entusiasmo; Errore; Esperienza; Etica; Fatica; Felicità; Fermezza; Futuro; Generosità; Gioco; Giusto; ImmaginAzione; Imperfezione; Inclusione; Ingegno; Innovazione; Insoddisfazione; Intelligenza (Emotiva); Intenzionalità; Intuito; Lavoro (Casalingo); Leggerezza; Manutenzione; Merito (Riconoscere il); Migranti; Motivazione; Multipotenzialità; Narrare; Onestà; Operatore (di Coesione e Sviluppo Territoriale); Ottimismo; Paesaggio; Pari Opportunità; Passione; Pazienza; Possibile; Proattività; Progettare (Progettista Progetto); Qualità; Racconto; Relazioni; Resilienza; Responsabilità; Ricchezza; Riflessività; Rispetto; Rivoluzione; Sacrificio; Scuola; Semina; Senso; Servire; Silenzio; Sinergia; Soddisfazione; Sogno; Sonno; Sorriso; Standing Digitale; Struttura; Successo; Tempo; Tenacia; Umanità; Umiltà; Valori; Volere.

Amore (Carmela Sannino) Torna al Dizionario: Un lavoro, per essere ben fatto, ha bisogno di amore.”Scegli un lavoro che ami, e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua” dice Confucio, ed è vero. Se ci metti sentimento in ciò che fai, sei sulla strada giusta. Anche se è una salita ripida, se la percorrerai amando ciò che c’è in vetta vedrai che poi una volta arrivati in cima, sembrerà di non essersi mai affaticati. Se sarai innamorato del tuo lavoro, 40 anni di carriera sembreranno un solo giorno. Lavorare senza amore è schiavitù dice Madre Teresa, ed anche questo è vero. Se non ami ciò che fai, sarai semplicemente schiavo del sistema.
Quindi se amiamo, amiamo forte ed incondizionatamente il lavoro che facciamo, non lavoreremo per il sistema, non lavoreremo per il capo o per noia, lavoreremo per noi stessi.

Anima (Veronica Testa) Torna al Dizionario: Per me l’anima è direttamente proporzionale al risultato che si ottiene, nel senso che se in quello che fai ci metti l’anima il lavoro ben fatto viene da sé. E mi piace anche «Anima» intesa come «animati dalla passione», che è in fondo un altro modo per dire la stessa cosa. Non so se è proprio un vocabolo da mettere in questo tipo di dizionario, penso però che potrebbe essere lo «status» che caratterizza i componenti della comunità del lavoro ben fatto.

Approccio Torna al Dizionario: Avere l’approccio giusto vuol dire prima di tutto amare quello che si fa. A fare la differenza è insomma la passione che l’ebanista, il panettiere, il medico, il pastaio, l’architetto, il produttore di birra, l’apicoltore, l’ingegnere, il cuoco, l’insegnante, il pasticciere e chiunque altro mette nelle cose che fa. Dopo di che è importante la consapevolezza che ogni cosa che si fa è connessa a mille altre e dunque, se la fai bene, l’avrai moltiplicata per mille. Infine c’è la voglia di fare qualunque cosa, piccola o grande che sia, come se in quella cosa si intendesse essere il numero uno al mondo. Sì, il numero uno, non il due o il tre, perché nell’approccio non ci si può accontentare, bisogna condannarsi a essere il migliore. Poi magari non ci si riesce, perché il risultato non dipende solo da noi, perché conta da dove si è partiti, da quali opportunità realmente ci sono state date, fino a che punto gli strumenti che avevamo a disposizione erano quelli giusti, ma quando si è  giunti a quel punto il saper accettare un risultato diverso da quello che ci si aspetta, e magari si merita, è un pregio, non un difetto. Nell’approccio no, lì a mio avviso esiste solo una possibilità: cercare di essere il migliore

Attenzione (Raffaele Di Lorenzo) Torna al Dizionario: i ritratti fotografici che mi colpiscono di più sono quelli scattati quando il soggetto è intento e assorto in qualcosa. Naturalmente tale preferenza è molto personale, ché ce ne sono di ritratti belli di persone che gioiscono, piangono, si arrabbiano. Quando però vedo la foto di qualcuno intento a leggere, scolpire una pietra, ballare, suonare, scrivere, cucinare, ascoltare, pensare, non posso fare a meno di guardare i suoi occhi attentamente, guardare gli occhi e l’espressione che accompagnano quel gesto. Poi un giorno, in un testo che tratta di attenzione e cognizione, ho letto: «…l’attenzione esecutiva è una spia dell’identità: basta sapere a che cosa una persona presta attenzione per un lungo periodo di tempo per ricostruire la sua identità», e ho pensato subito agli occhi di quelli ritratti nel mentre fanno qualcosa. L’attenzione è un valore piuttosto prezioso poiché i distrattori nella nostra società sono tantissimi. Soprattutto se si parla di attenzione esecutiva, (ovvero quella impiegata nel leggere, scolpire una pietra, ballare, suonare, scrivere, cucinare, ascoltare e pensare) quella che vive tra la nostra pianificazione e il nostro gesto, il suo valore ci appare subito essenza di qualcosa di prezioso e a volte persino raro. L’attenzione esecutiva pare scaturisca dall’attività della corteccia prefrontale e orbitofrontale (cioè il sottile manto cellule nervose che si trovano dietro la fronte). Lì dentro risiede lo Zar, come recita un vecchio detto russo, e lo Zar (non so quanto storicamente questo valga per gli Zar) è uno che prende decisioni, pianifica, evita informazioni inutili e si orienta verso ciò che gli è utile, è capace di apprendere dagli errori, è capace di rivedere i suoi piani. Tutto questo, tradotto in neuroscientifichese è attentional set shifting, reversal learning, attentional selectivity, abilità che vanno nutrite e protette perché rappresentano in parte i pilastri della nostra identità lavorativa e non solo. Ora provate a rivedere i ritratti di quelli attenti e assorti nel fare qualcosa …

Attesa (Simona Malta) Torna al Dizionario: Sapere attendere è spesso il segreto del lavoro ben fatto. Lo sanno bene i cuochi, perché è l’ingrediente non citato della preparazione di molti piatti prelibati (dei ragù, che devono cuocere a fuoco lento, degli impasti della buona pizza e del pane, degli stufati, dei soffritti, delle marmellate, per citarne solo alcuni), ma è la caratteristica più importante di molte attività di ricerca, quando è necessario aspettare l’esito di una misura, dell’elaborazione di un sistema di calcolo complesso, di un responso specialistico.
Sapere aspettare è nella vita di ogni lavoratore che attende l’autobus, la metro, il taxi, il treno, l’aereo che lo porterà a destinazione.
Anche i riconoscimenti di un lavoro ben fatto spesso si fanno attendere. Ma l’attesa a volte ti premia da sola, quando aver saputo aspettare mette in fila le idee come mai avresti immaginato si mettessero in fila e il risultato arriva dopo aver rallentato la corsa e magari dopo essersi proprio fermati. Per imparare ad attendere, a non avere fretta, spesso ci si impiega tutta la vita ma alla fine, se il lavoro è veramente ben fatto, ne è valsa proprio la pena.

Bellezza (Rodolfo Baggio) Torna al Dizionario: La bellezza, secondo l’enciclopedia Treccani, è la qualità di ciò che appare o è ritenuto bello ai sensi e all’anima. La connessione tra l’idea di bello e quella di bene, suggerita dalla radice etimologica (il latino bellus “bello” è diminutivo di una forma antica di bonus “buono”), rinvia alla concezione della bellezza come ordine, armonia e proporzione delle parti. Comunemente ritenuta una caratteristica soggettiva (“è negli occhi di chi guarda”), la bellezza ha una dimensione irriducibilmente sociale e quindi ha caratteristiche di oggettività se la consideriamo una visione che condividiamo, o vogliamo condividere. In altri termini, l’esperienza la bellezza non è solo confinata nella mente di un individuo, ma collega le persone e gli oggetti in comunità, anche piccole, ma fortemente coese nelle loro opinioni. In moltissimi campi, da quelli più propriamente “scientifici” a quelli dell’espressione artistica in tutte le sue forme, la bellezza intesa come insieme di proprietà di armonia, simmetria ed equilibrio, costituisce un incredibile motore di creatività e innovazione. E creatività e innovazione sono considerati sempre più essenziali per garantire successo, crescita, miglioramento delle condizioni di vita materiali e spirituali, felicità e benessere di individui, aziende, organizzazioni e sistemi sociali. Innovazione e creatività si basano sul capitale umano, quell’insieme di conoscenze, competenze, abilità, emozioni, individuali indirizzate al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici, singoli o collettivi. Caratteristiche individuali che tuttavia risentono grandemente di fattori esterni ambientali e sociali, soprattutto quando bellezza e gradevolezza estetica danno un’impronta sostanziale a questi elementi. L’evidenza empirica che stimoli visivi esteticamente gradevoli aumentino le capacità di risoluzione creativa dei problemi è solida, e si può allargare la prospettiva ridefinendo l’utilità (economica) che è alla base di molti modelli sulle dinamiche dell’innovazione, evidenziando come elementi fondamentali: fattori estetici, immaginazione, creatività e serendipity: la capacità di rivelare connessioni socio cognitive impreviste fra elementi o idee preesistenti che fornisce opportunità di sviluppo di nuove idee o ampliamenti di idee già presenti). L’innovazione è determinante non solo per lo sviluppo economico, ma svolge un ruolo importante anche per il sistema sociale che ne viene coinvolto. Essa, infatti, riguarda la soddisfazione dei bisogni non solo materiali ma anche di relazione sociale. E un buon sistema di gestione deve regolare l’allocazione di beni e servizi in modo da soddisfare entrambi. Ciò passa attraverso la rivisitazione delle forme e delle strutture di governo che devono prendere atto anche di fattori diversi da quelli di solito considerati e tener conto di delle sfere artistiche e creative, della creazione di capitale sociale, e soprattutto del legame col territorio. La connessione di bello e quella di bene porta anche a riflettere sull’importanza di fare bene le cose perché è così che si fa. In un mondo sempre più spinto a trovare il tratto distintivo, il vantaggio competitivo, il quid che un paese, un’istituzione, un’azienda possiedono in via esclusiva o comunque in misura superiore rispetto a tutti gli altri, la valorizzazione dei territori e il mettere in risalto le loro bellezze può essere la chiave per tornare a crescere in maniera equilibrata (sostenibile direbbero alcuni) dal punto di vista economico e da quello sociale. In conclusione, almeno in termini qualitativi, ma ben fondati, il legame fra bellezza, creatività, innovazione, lavoro ben fatto, sviluppo sembra valido e degno di essere adottato e sviluppato.

Benessere (Gianmarco Guerrini e Nicolò Lucioli) Torna al Dizionario: Il #Lavorobenfatto produce Benessere. Le accezioni con le quali si può declinare questo concetto sono molteplici, ma ritengo che principalmente si possa fare un distinguo tra il benessere dell’Animo e il benessere dell’ Organizzazione.
Benessere dell’Animo, perchè un #lavorobenfatto è carbone per lo spirito, ripaga dell’impegno profuso, è la chiave di volta che sorregge tutti gli sforzi elargiti nel quotidiano. Nutre le persone, da corpo agli obiettivi inseguiti nel tempo, diventa mezzo e ricompensa.
Benessere dell’Organizzazione, inteso come un collettivo di persone (azienda, impresa, cooperativa ecc.) che lavora secondo i canoni del #lavorobenfatto.
Quando un’impresa lavora in questo modo, produce prodotti e servizi curati nei dettagli, coccolati, capaci di risaltare anche ad un occhio inesperto.
Quando si lavora così, spesso il mercato ripaga l’amore e la passione profusi nei processi, nei prodotti, nelle scelte necessarie a coordinare un collettivo. Non è poi tanto distante dalla performance di un quintetto Jazz, quando tutti si lasciano trasportare dalla Musica anche un neofita non può rimanere indifferente dal risultato finale.
Il #Lavorobenfatto produce Benessere, ma principalmente lo dà, a chi lavora e non riesce a trattenere un sorriso alla fine.

Biografia (Francesca Di Ciaula) Torna al Dizionario: La forma biografica della narrazione porta con sé la possibilità di attivare memorie, di riconsiderare il sé attraverso la riflessione sul passato, per realizzare innesti sul presente in stretta relazione alla propria collocazione e partecipazione al gruppo sociale di appartenenza. I vissuti individuali e collettivi, le traiettorie e le esperienze sociali, le esistenze di genere e intergenerazionali, si incrociano all’interno delle storie individuali, collettive, familiari e di gruppo e finiscono col rappresentare al tempo stesso la complessità sociale. Le storie di vita sono luoghi di elaborazione del passato e pure di creazione di significati nuovi, riformulazioni di nessi, riproposizioni di sguardi sul futuro, infine esposizione all’incontro con le storie altrui. Si tratta di esperienze che possiamo proporre a noi stessi o in cui per avventura inciampiamo e che nascono dal bisogno di rendere testimonianza, per ciò che ognuno è in grado di proporre nella particolarità della sua esistenza. Nell’incontro che si realizza nello spazio della narrazione, attraverso l’elaborazione dei vissuti e l’ascolto, si sviluppa la consapevolezza dei processi attivati di comunicazione e relazione con l’altro, l’estraneo. Le narrazioni, testimonianze e storie di vite si offrono a questa possibilità, di realizzare luoghi di ascolto e di parola, di potenziare nei soggetti la consapevolezza di sé, soggetti di interazione in spazi comuni, spazi di scelta e di azione sociale. Le storie di vita possono innescare forme di comprensione della realtà sociale, della dimensione di intersoggettività e dei modi in cui la storia di ognuno si lega ai contesti storici e sociali, così permettere forme di partecipazione responsabile nella lettura delle esperienze diversificate di ognuno, forme in cui la Storia si individualizza. Permettere agli altri le proprie storie è un atto importante, poiché significa rintracciare spazi sociali di incontro, modi di comprensione della realtà e della personale condizione di vita. Se la psicoanalisi ci ha reso consapevoli di quel patrimonio di esperienze e significati occultati all’interno delle storie di vita personali, abbiamo oggi bisogno di una prassi di narrazioni di storie che riguardino la realtà del nostro tempo, per incontrare all’interno di una condizione di sostanziale estraneità – al tempo stesso limite e punto forza – gli altri, nelle storie di vita e nel discorso storico che le interseca. Questo forse nel nostro tempo liquido potrà salvarci: individuare forme e connessioni molteplici, permettendo “storie su altre storie”, incrociando gli altri nelle loro storie, nella nostra storia di vita. Così Donald Williams, analista junghiano: «Equilibrando paura e speranza, raccontando storie su altre storie, ci impegniamo in azioni che sono altrettanto rivoluzionarie oggi quanto lo erano nel 1900. Siamo tutti, nelle opportune parole di Carl G. Jung, “secondi creatori” del mondo». (1)
1 D. Williams, Storie su storie, in Zoia L. (a cura di), L’incubo globale, Moretti e Vitali, Bergamo

Bottega (Giuseppe Jepis Rivello) Torna al Dizionario: La bottega è il luogo della creazione e della ricreazione del valore. È il luogo in cui nessuna idea è definitiva e nessuna idea è inutile. In una bottega c’è un artigiano e c’è un allievo che non vede l’ora di realizzare, con le sue mani, quello che immagina, quello che sogna. Si monta e si smonta nella bottega, fin quando non si raggiunge l’idea che c’è nella testa. Nella bottega le mani lavorano con la testa e con il cuore. Nella bottega non si creano oggetti in serie ma serie di oggetti unici e irripetibili.

Cambiamento Torna al Dizionario: Viviamo con il cambiamento alle calcagna. Cambiano le relazioni tra le parole e i concetti con cui siamo soliti definire le stanze delle nostre vite quotidiane, il futuro che fino a ieri era soltanto un tempo è diventato anche e soprattutto un luogo. Cambiano i criteri che definiscono la qualità delle nostre vite, le opportunità che in esse riusciamo a cogliere, i bisogni e i desideri che riusciamo a soddisfare, tutte variabili come mai prima correlate alla qualità e alla quantità di connessioni che riusciamo a stabilire con altri esseri, come noi, umani. Cambiano come abbiamo visto le priorità, le domande, le risposte e, ancora una volta, i criteri che ne definiscono la congruità, e la legittimità. Cambia l’evidenza con cui il cambiamento accade. Cambia e diventa inscindibile la relazione tra libertà personali e libertà economiche, tra evoluzione della società digitale e garanzie dell’accesso, tutela delle libertà, tutela del cittadino e del consumatore. Cambia l’ordine di grandezza di dati, informazioni e conoscenza disponibili in ogni campo del sapere, cambia il loro rapporto con le vite delle persone e delle organizzazioni e cambia la qualità, il valore, il controllo, il potere, non solo economico, associato alla loro gestione. Cambia la relazione tra investimenti e occupazione, cambiano gli strumenti che possono favorire la creazione e la redistribuzione del lavoro e cambia il ruolo dell’intervento pubblico ai fini della creazione diretta di occupazione. Cambia l’industria, quella che c’è e quella che verrà, come vedremo parlando di Industrial Internet, di Internet dell’energia, di Industria 4.0. Cambia il lavoro, non solo quello legato alle nuove tecnologie ma anche quello per così dire tradizionale, nel senso che si ampliano – in linea tendenziale e in maniera non omogenea -, i fattori di autonomia e si riducono quelli di dipendenza, e che il lavoro riconquista una parte significativa della propria capacità creativa, si mostra più orientato all’innovazione, realizza economie di scala e di scopo che producono vantaggi in termini di costo che normalmente, nella precedente fase della rivoluzione industriale, erano collegati alla produzione di massa. Cambia l’organizzazione sociale e cambia l’organizzazione della produzione, si amplia la diffusione e si allargano i confini delle organizzazioni rete, si consolidano le organizzazioni che agiscono come parte di più complessi sistemi di transazione e valorizzano il protagonismo dei livelli di base e intermedi (middle – bottom – up; Nonaka e Takeuchi), e conseguentemente aumenta la domanda di competenze cognitive e interpersonali connesse alla capacità di comprendere, utilizzare e scambiare dati, informazioni e conoscenza e diminuisce (o comunque si caratterizza sempre più nell’ambito di specifiche aree produttive delle organizzazioni che adottano sistemi di tipo gerarchico (top-down; Taylor e Ford) il fabbisogno di competenze cognitive e manuali riferibili a procedure e mansioni di routine. Cambiano e si moltiplicano i luoghi della socialità, della solidarietà e delle relazioni. Aumentano le possibilità di condividere idee, lavori, progetti, passioni, svaghi, e di partecipare attivamente alla loro realizzazione. Le persone sono coinvolte nel processo informativo in un modo significativamente diverso da quanto accadeva nelle fasi precedenti, viene alla ribalta un pubblico attivo che chiede di avere voce e di stabilire relazioni, aumenta in maniera significativa il numero di coloro che interpretano non soltanto il ruolo di fruitori-consumatori ma anche quello di produttori-autori di contenuti, con tutto quello che questo significa dal versante delle nuove opportunità e, come ogni volta, dei nuovi problemi con i quali bisogna fare i conti, a partire da privacy, tutela dei contenuti e copyright, riduzione dei tempi di esclusiva nella distribuzione dei contenuti, promozione dell’uso legale.

Complicità (Rosario Pagano) Torna al Dizionario: Di solito si considera solo l’accezione negativa del termine e cioè la partecipazione ad un’azione criminosa o comunque illegale. Io considero la complicità nel lavoro come la cosa più bella che ti possa capitare lavorando con altri. Essere complici comporta una comunione d’intenti in quello che si sta facendo. E’ una forma d’amore per il lavoro e verso le persone che collaborano, ti seguono, ti indicano un #lavorobenfatto. Complicità è anche condivisione di responsabilità in modo che tutti sentano il giusto peso e nel contempo la leggerezza di condividerlo equamente o secondo le capacità di ognuno. Complicità è gioia di conseguire insieme ad altri, un risultato dalla propria opera. Complicità è anche l’orgoglio di sentire quel senso d’appartenenza, con il tuo apporto al lavoro, che ti rende fiero della tua capacità d’interagire con altri al benessere di tutti. Complicità, in fondo, è stare bene con gli altri, a prescindere da quello che gli altri possono dare. Prescindere da tutto, tranne che dall’impegno massimo, condizione, sine qua non, tutto viene a cadere.

Comunità (Simone Romano) Torna al Dizionario: Comunità intesa come azione di chi organizza momenti di ritrovo e di condivisione della vita sociale delle persone che vivono un’impresa; come obiettivo nel momento in cui la cura del business passa attraverso lo sviluppo del benessere di tutti i “cittadini” dell’organizzazione; come realtà, di chi ogni giorno mette del “suo” per non farsi bastare la monotonia dei processi e delle procedure, bensì dà valore alle proprie attività e al proprio tempo, in interconnessione con quello degli altri.

Condivisione (Maria Clara Esposito) Torna al Dizionario: “La felicità è reale solo quando è condivisa”, lo dice Christopher Mccandless, protagonista di una storia narrata su carta da Jon Karkauer e sul grande schermo da Sean Penn (“Into the Wild”). Oggi questa parola risuona potente sui nostri cellulari, tablet e computer, indicando l’azione del riproporre contenuti, concetti, parole e immagini che ci piacciono, con cui siamo d’accordo, che vogliamo anche gli altri vedano e leggano. È un gesto consueto e semplice che, nella sua (forse troppa?) routine, sembra perdere di forza e di importanza. E invece dietro un click su un tasto digitale si cela la volontà di voler proporre, suggerire, informare, confrontare, creare una piattaforma in cui una certa collettività si forma e si istruisce, costruisce senso civico e critico riguardo gli argomenti più disparati. Tralasciando la non poco importante e pervasiva accezione digitale e tecnologica del termine, la condivisione è una scelta con cui si decide di portare avanti il proprio lavoro. Una scelta di arricchimento, di forza, di energia, di quella partecipazione che ci rende liberi, migliori di quelli che saremmo restando soli. Quanti grandi successi abbiamo ottenuto nella vostra vita da addebitare solo e unicamente a noi stessi? Senza un genitore che ci incoraggia, senza un amico che ci sorregge, senza un insegnante che ci spiega, senza un collaboratore che dice: “quello che non sai fare tu, lo faccio io!” o “proviamo insieme!”, senza un pazzo come voi che vi dice: “buttiamoci!”. E ammesso che ci siamo riusciti, soli soli, senza nessuno, a chi lo abbiamo raccontato? Con chi abbiamo gioito, festeggiato, cenato, brindato?
Per non parlare dei fallimenti, dei dolori, così tanto più leggeri, più dolci e superabili quando condivisi. La condivisione è uno stato emotivo, è la voglia di voler essere parte di un progetto, di un’idea, di un’esperienza che ha bisogno di una collettività, fatta di stimoli, punti di vista, individualità, esperienze e competenze diverse. La condivisione è unione organica delle diversità. La condivisione è armonia, relazione, rispetto, conoscenza. 
È parola, racconto, creazione di qualcosa che prima non c’era e poi c’è. 
Come la pace, come l’amore.

Connessione (Mary Gioffrè) Torna al Dizionario: Un lavoro ben fatto crea valore nella comunità. “Nessuno uomo è un’isola” scriveva il poeta John Donne, poi ripreso dallo scrittore Thomas Merton. Connessione vuol dire andare oltre i convenevoli e i contatti fugaci sui social o su Whatsapp. Per stabilire delle relazioni autentiche, abbiamo bisogno di connetterci emotivamente, avendo consapevolezza di quello che sentiamo noi e di ciò che provano gli altri. Connessione è scambio di esperienze, è curiosità per il mondo dell’altro, è chiedere come stai e avere voglia di ascoltare la risposta, è essere presente in una conversazione senza pensare a cosa dire o fare dopo. Ogni giorno abbiamo centinaia di occasioni per entrare in connessione con le altre persone e aggiungere valore alle loro vite, anche solo con un sorriso, un atto di gentilezza, delle parole di incoraggiamento o un silenzio che dà spazio.

Convenienza Torna al Dizionario: Fare bene le cose conviene, ve lo dimostro con la pasta e fagioli, che era il piatto preferito del mio papà. 
Per fare la pasta e fagioli ci vogliono i fagioli, la pasta, la pancetta, il lardo, il sedano, la cipolla, l’olio, l’aglio, l’acqua, il fuoco, la pentola, i piatti, le posate, altra acqua e il sapone per lavare le stoviglie, l’elettricità se usiamo la lavastoviglie, il tempo, la risorsa più preziosa che esista al mondo, per fare tutte queste cose. Ecco, cos’è che dà senso a tutto questo? Il fatto che quando la mangi la pasta e fagioli che hai fatto è buona, saporita, perché altrimenti avrai buttato i fagioli, la pasta, la pancetta, il lardo, il sedano, la cipolla, l’olio, l’aglio, l’acqua, il fuoco, la pentola, i piatti, le posate, l’altra acqua, il sapone per lavare le stoviglie, l’elettricità e il tempo. Vale per la pasta e fagioli e vale per tutto il resto, l’unico modo conveniente di fare un lavoro è farlo bene, altrimenti è soltanto uno spreco di risorse. Come ha detto una volta una ragazzina di una scuola elementare, quando faccio una cosa la faccio bene perché altrimenti la debbo rifare. Senza contare tutte le volte che questo spreco di risorse comporta la perdita di vite umane, per esempio in una sala operatoria, per il crollo di un ponte, per la mancata osservanza delle misure di sicurezza sopra un’impalcatura.

Coraggio (Federica Bruno) Torna al Dizionario: La mia parola è coraggio.
Un lavoro ben fatto si porta dietro una buona dose di coraggio.
Coraggio di ascoltare le opinioni di altri, di sperimentare e di trovare nuove strade.
Il coraggio di affrontare i propri errori correggendoli per imparare da loro e di non avere fretta, perchè anche se tutto va veloce è giusto darsi tempo.
Il coraggio di spiegare ai miei figli cosa significhi #lavorobenfatto.

Creatività (Renato Ravenda) Torna al Dizionario: La creatività tutti la chiedono, ma pochissimi la vogliono realmente, perché è scomoda. Ripetersi è economico, sicuro, meno faticoso, ci dà sicurezza. La consuetudine, il “manierismo”, hanno una percentuale molto elevata di accettazione in chi ti chiede “creatività”. Infatti raramente il “cliente” accetta la pura creatività.
Constatazione 1: nessuno si mette a contestare l’opinione di un professionista, diciamo di un medico. Ma nessuno all’estremo opposto si sogna neanche di porre obiezioni all’idraulico. Sono materie che non conosce adeguatamente per affrontare un problema in merito con adeguata competenza.
Constatazione 2: in comunicazione, sia essa verbale o visiva, soprattutto nella “grafica”, tutti invece diventano esperti, come se la ghestaltica, i limiti segnici e cognitivi, i percorsi di persuasione e semiologia, le euristiche del giudizio e della scelta fossero cose che tutti imparano all’asilo.
Comunicare è sicuramente “facile”, Watzlawick insegna. Comunicare bene, raggiungere un obiettivo, #fareunbuonlavoro è un affare un po’ più complesso. Quando si “comunica” occorre essere pragmatici. Non esiste creatività senza pragmatismo, diventerebbe “fantasia”, che è ben altra cosa. Per dirla alla Munari, è la distanza che separa artista e designer.

Crowdfunding (Maurizio Imparato) Torna al Dizionario: Il dizionario italiano inglese lo definisce come una forma di finanziamento collettivo, da crowd=folla e funding=finanziamento. In Italiano non esiste una traduzione ufficiale. A me piace parlare di colletta. Anche i francesi la definiscono colletta. Colletta è parola antica come antico è questo strumento che tanti vogliono invece spingere con forza dentro regole finanziarie. Una colletta come quella che si fa per comprare il pallone per giocare o per comprare il megafono quando ci si vuol far sentire bene. Mille sono i motivi per i quali si possono attivare collette. Una colletta è un lavoro ben fatto per definizione. Non c’è marketing che tenga, le collette funzionano veramente solo quando c’è un tema condiviso, sentito, partecipato. Come la colletta che si faceva per il pallone Supersantos. La mia morale della storia? Il crowdfunding è un lavoro ben fatto quando è pensato e attivato come strumento relazionale prima ancora che finanziario.

Cura (Anna Gatti) Torna al Dizionario: Tutto ciò che è ben fatto necessita di cura, di attenzione ai particolari. Nel mio campo, quello della formazione e dei processi di apprendimento, ciò significa occuparsi delle persone che si incontrano anche nelle sfumature delle azioni, tra il detto (esplicito) e il tacito. Significa ascoltare le storie, i sogni, le speranze, collegare i nodi. Significa prendere per mano l’altro, tenerlo per mano finché serve, progettare insieme e accompagnarlo un pezzetto per poi lasciare che faccia da solo e vada per la sua strada.

Curiosità (Osvaldo Danzi) Torna al Dizionario:
Non può esserci #lavorobenfatto se non c’è curiosità. I manager devono imparare ad essere curiosi, ad uscire dalle loro stanze di vetro, dalle loro convention stroboscopiche, dai convegnucci delle associazioni di categoria in cui l’unica visuale possibile è quella del proprio ombelico e iniziare a frequentare i luoghi non comuni dei territori inesplorati, dei punti di vista di direzioni contrarie.
“Abbiamo sempre fatto così” è la frase killer che uccide la curiosità ma uccide anche le aziende. Ma vale per tutti, non solo per chi conduce. Vale per qualsiasi Persona abbia a cuore il #lavorobenfatto. Vale per coloro che “non hanno tempo” per la formazione, troppo spesso delegata a business school dai nomi altisonanti e per questo elitaria e offerta a pochi quando è tutta l’azienda ad avere sete di sapere. O peggio, fraintesa con qualche corso di excel, qualche “cat is on the table” con cui non potresti ordinare nemmeno una birra nel peggior bar dei sobborghi di Londra, o affidata “a un consulente, amico del titolare, che ci segue da 30 anni”. La curiosità è un bene comune attraverso la quale si genera valore per chi collabora insieme.

Dedizione (Anna Pavarese) Torna al Dizionario: Dedizione significa dedicarsi totalmente e spontaneamente ad un’attività. Solamente mettendo anima e corpo in ciò che facciamo riusciremo a concretizzare i nostri sogni e a raggiungere le vette più alte degli obbiettivi che ci siamo prefissati. Passione, sacrificio e determinazione uniti alla dedizione sono gli ingredienti perfetti per un #lavorobenfatto.

Delega (Laura Ressa) Torna al Dizionario: Fare un buon lavoro significa saper delegare, saper mollare la presa, cambiare e modificare le proprie attività con il tempo a seconda delle proprie capacità e dei tempi che cambiano e che devono necessariamente lasciare il passo a chi verrà dopo di noi. Lasciare il passo agli altri è un atto di generosità anche verso noi stessi perché un lavoro è ben fatto finché abbiamo le forze e la testa per farlo come si deve. Se invece questi requisiti mancano, è meglio istruire qualcun altro e tirare i remi in barca osservando la rotta degli altri con il piglio del capitano navigato e soddisfatto. Delegare non è difficile: basta essere abbastanza lucidi da accorgersi in tempo quando è arrivato il momento di farlo. Ma non delega soltanto chi è al termine della propria vita lavorativa. In un contesto in cui non è dato sapere quando potremo tirare i nostri remi in barca, conta delegare in corso d’opera e soprattutto avere fiducia negli altri. La fiducia è la discriminante per sapere quando e come delegare. Dunque se hai fiducia, puoi delegare. E la fiducia non è una chimera come a volte ci vogliono far credere quando dicono “tanto nessuno fa le cose come le faccio io”. Delegare è per me l’atto supremo del vero maestro, soprattutto di quello che sa rendersi conto quando qualcuno fa le cose meglio di lui o quando qualcuno ha bisogno di crescere attraverso la delega.

Determinazione (Vincenzo Orefice) Torna al Dizionario: Con questa parola ho un grandissimo feeling, perché credo che essere determinati nella vita sia una cosa molto importante, ti permette di guardare con forza e grinta all’obiettivo e raggiungerlo con tutte le tue possibilità. D’altra parte credo che chi è determinato ha lo spirito di colui che nella vita non si ferma al primo ostacolo, ma si rialza e continua a camminare più determinato di prima. Il determinato è una persona che sa cosa vuole e fa di tutto pur di riuscirci, è colui che si mette sempre in gioco per dimostrare agli altri, ma anche a se stesso, che le sfide della vita vanno vinte. Da queste persone c’è tanto da imparare, apprezzare il loro modo di fare e prenderne spunto.

Diversità (Rita Mosca) Torna al Dizionario: La diversità sta nel comprendere con gli occhi tuoi la bellezza che c’è nella diversa abilità. Il diverso non deve spaventare ma deve arricchire ed incrementare la mia conoscenza. Nella scuola i soggetti considerati diversi sono tanti. Lo sono per motivi eziologici /o per natura comportamentale o per artefatti culturali ancorati spesso a svantaggi socio- economici. Dunque a fronte di queste esigenze che un insegnante é tenuto a prendere in considerazione non può esimersi dalla responsabilità di operare con strategie di ascolto e di benessere e di cogliere i diversi aspetti della didattica proprio nell’ottica della diversità intesa come valore aggiunto e non discriminante.una scuola inclusiva che sa operare con le relazioni positive é in grado di rendere resilienti i suoi discenti. Il lavoro che io ho deciso di presentare ai bambini nasce anche da questa volontà di garantire a tutti la stessa opportunità di esprimersi e di comunicare mediante il disegno pensieri e interpretazioni di grande autore lasciando allo stesso tempo ai miei studenti di essere protagonisti del loro pensiero creativo. Le mie classi sono caratterizzate da alunni diversificati per stili cognitivi e modi di apprendere differenti, e per etnie diverse. Il lavoro sin’ora proposto é stato svolto in molto esauriente.

Eccellenza (Federico Presezzi) Torna al Dizionario: Il lavoro davvero ben fatto è eccellente. A contribuire all’eccellenza c’è qualcosa in più che il semplice trovare una soluzione che funzioni, c’è la cura dei particolari che sembrano insignificanti; c’è l’attenzione per tutti coloro che entreranno in contatto con il nostro lavoro, invece che solo per quelli che dovranno valutarlo; c’è il gusto per fare qualcosa “al meglio delle nostre possibilità”, perché è così che va fatto. Ci dev’essere infine, la volontà di offrire l’eccellenza a chi collabora con noi, prima che di richiederla agli stessi, perché chi è immerso nell’eccellenza è molto più propenso ad essere a sua volta eccellente.

Empatia (Rosario Pagano) Torna al Dizionario: La capacità di capire l’importanza del lavoro di un altro per trarne forza nel fare il proprio, in una sinergia globale del lavoro senza distinzioni di sorta. Ogni lavoro aggiunge forza al sistema collettivo di produrre ciò di cui abbiamo bisogno e rende partecipi e consapevoli di far parte di un unico grande movimento, non solo fisico ma anche di pensiero, in cui ognuno è la classica goccia che forma l’immenso mare del lavoro.

Energia (Mattia Di Gennaro) Torna al Dizionario: L’energia è un vero e proprio fuoco primordiale alla base di ogni azione quotidiana, senza di essa un lavoro ben fatto non può esistere. Solo spendendo tutta l’energia che si ha nel corpo e nella mente si può ottenere il massimo possibile e spingersi la volta succesiva oltre i propri limiti. Del resto tra i contrari di energico, aggettivo del sostantivo in questione, ci sono “fiacco”, “pigro” e “svogliato”. Beh che dire, queste tre definizioni parlano da sole. Come possiamo pretendere di far le cose al meglio con questi presupposti? Non possiamo. Caso chiuso.

Entusiasmo (Isabella Ceccarini) Torna al Dizionario: La mia parola è entusiasmo. Dare tutto quello che possiamo per il successo di un’impresa in senso lato, ovvero per qualunque avventura nella quale ci lanciamo. L’entusiasmo fa superare le difficoltà, vedere oltre gli ostacoli immediati, non sentire la stanchezza. E soprattutto è un sentimento positivo da condividere: la riuscita di un’azione fatta insieme ad altri amplifica la gioia del successo e ne accresce il valore.

Errore (Gianluca Gualducci ) Torna al Dizionario: Nella sua accezione più immediata, per essere definito “ben fatto” un lavoro deve essere privo di errori. Questa logica, apparentemente inattaccabile, ha dato vita ad una lunga e dolente moltiplicazione di strumenti di controllo che nel tempo sono diventati politica di controllo e che, infine, hanno creato una vera e propria deviazione comportamentale nel lavoratore: l’importanza assegnata all’errore (e all’impegno da profondere per evitarlo) ha superato il focus sulla motivazione e sui risultati da raggiungere, diventando la vera bussola dell’attività lavorativa. Non più un “preoccuparsi di fare”, ma “preoccuparsi di non sbagliare”. La prima vittima di un simile atteggiamento è stata la spinta all’innovazione, uccisa in culla dalla componente di rischio di insuccesso che per sua natura il cambiamento contiene. A stretto giro stanno cadendo sotto i colpi del terrore dell’errore anche il senso di responsabilità e la voglia di mostrarsi proattivi, lasciando così campo libero alle componenti che creano più inerzia e rigidità nei processi lavorativi.
In realtà l’approccio corretto – cioè laico e realistico – al lavoro ben fatto deve tendere a ridurre al massimo gli errori senza per questo rinunciare alla performance, obiettivo raggiungibile solo laddove la cultura aziendale sia più attenta ad apprezzare la dedizione e il teamworking che a sanzionare l’errore. In sostanza, il modello di riferimento diventa quello delle squadre sportive più vincenti, dove gli errori di esecuzione sono considerati parte integrante, per quanto spiacevole, dell’attività professionale: nessun team in cui prevale la paura della punizione in caso di errore ha speranza di vincere qualche trofeo, perché i suoi componenti evitano di rischiare la giocata e così facendo non regalano mai un vantaggio (competitivo) alla propria squadra. Ai nuovi colleghi serve quindi raccomandarsi di “non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”. E neanche un lavoro ben fatto.

Esperienza (Tina Magenta) Torna al Dizionario: È accaduto un venerdì di paio di settimane fa, quando Rita Mangano, pittrice di rara sensibilità e bravura, ha incontrato la Classe 2a della Scuola Media Magnaghi di Lomello, per presentarsi e presentare il lavoro che assieme, Rita e gli alunni, intraprenderanno nel mese di marzo 2016, per 4 settimane (1 giorno alla settimana). Lo scopo? Realizzare su sette grandi pannelli di alluminio un paesaggio che verrà distribuito sulle pareti del salone-atrio della Scuola stessa, al 2° piano, dove la “Media” da questo anno svolge l’attività scolastica. L’incontro di stamane è servito per mettere in relazione l’artista con i ragazzi. Rita, che espone e dipinge le proprie opere in una sua importante galleria a Milano, svolge anche una importante attività negli ospedali, con le sue opere che «umanizzano» i muri dei corridoi e delle stanze e aiutano i pazienti a evadere dalla costrizione entro la quale la malattia li imprigiona. Rita, con la grazia che la contraddistingue, e la conoscenza profonda della tecnica pittorica e dell’intrinseco significato che porta con sé ogni opera d’arte, ha raccontato tutto questo ai ragazzi, e li ha introdotti all’uso del colore nell’assoluta libertà espressiva. Dopo di che sono stati distribuiti grandi fogli, fermati al muro (ovviamente senza rovinarlo) o stesi a terra, dove ognuno ha dipinto un albero e a seguire è stato spiegato perché è stato fatto così piuttosto che in un altro modo. Per i ragazzi è stata una mattinata trascorsa con gaiezza, divertimento e partecipazione, come testimonia anche il fragoroso e inaspettato applauso scoppiato a un certo punto della mattinata. Sono stati importanti momenti di riflessione su quanto sia intimo e stretto il legame tra il gesto artistico, il corpo e la natura che ci circonda e come ci sostiene e ci conforta quando la troviamo rigogliosa e su come i ragazzi dalla natura possano attingere forza vitale, proprio come le piante disegnate dai grandi fusti e dalle forti chiome. 
Rita a un certo punto ha detto: «Ragazzi questi siete voi, forti, ben piantati; le vostre braccia che si allargano al mondo, accoglienti, capaci di grandi cose.» E poi la prof. Cinzia Leva che ha colto al volo l’occasione del disegno di quanto i ragazzi avevano visto al buio per parlare di D’annunzio, del suo periodo di cecità forzata a seguito di incidente e di quanto lo avesse ispirato , tanto da scriverne dopo il suo “Il Notturno”. Alla fine delle quattro giornate di lavoro saranno proprio i ragazzi della classe 2a che doneranno alla loro scuola una vera «opera d’arte». Detto che questo laboratorio è stato proposto alla Scuola dall’Associazione BGM, che sosterrà tutte le spese per il materiale, e che Rita Mangano presterà ogni suo intervento e la sua opera gratuitamente, aggiungo che come Associazione siamo molto grati alle prof. Leva e Arienti e a tutto il corpo docente della scuola per la grande disponibilità e l’interesse a rendere la Scuola un’istituzione sempre più capace di accogliere. Basta vedere l’affetto con il quale ogni volta ti dicono «e … ma per i nostri ragazzi …» per renderti conto di quante cose belle potremo ancora fare.

Etica (Ilaria Grasso) Torna al Dizionario: La parola etica deriva dal greco antico “ethos”, che significa carattere, comportamento, costume. Secondo Aristotele è “quella branca della filosofia che studia la condotta degli esseri umani e i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte.” Queste scelte ci portano ad essere quello che nel gergo comune si definisce un “gran lavoratore”.
Ma essere un “gran lavoratore” vuol dire anche essere una persona perbene? Spesso la cosa non coincide. Per fare una lavoro ben fatto è utile chiedersi se stiamo trascurando le cose veramente importanti della vita, come il rapporto con i propri cari e con la natura (quindi con se stessi), e poi se il lavoro che facciamo ha aspetti positivi per gli altri e per l’ambiente. Infatti già lavorare tantissimo senza che sia necessario è sintomo di malattia, ma se in più quello che si fa è pure contro gli altri e contro l’ambiente, quindi pure contro i propri figli, allora all’insanità si aggiunge la nocività. Che dire poi dell’etica dei gran lavoratori che sfruttano bestialmente gli altri, che trattano male i sottoposti, che utilizzano il mobbing, fanno fuori colleghi e competitor senza scrupolo alcuno? Ecco lavorare evitando di sfruttare gli altri, lavorare non appropriarsi del lavoro altrui, lavorare non facendo pressioni su colleghi e sottoposti, lavorare evitando l’alienazione e il demansionamento delle persone che lavorano per noi e con noi, lavorare mettendosi sempre in discussione anche ammettendo i propri errori è lavorare eticamente. E un lavoro eticamente svolto è senza dubbio anche un lavoro ben fatto!

Fatica (Simone Bigongiari) Torna al Dizionario: In fisica il lavoro è forza per spostamento e se è una persona che, attraverso la sua energia, fa forza e crea spostamento, è una persona che prova fatica. E la fatica non è altro che la verifica che il lavoro è stato svolto a regola d’arte. Non dobbiamo per forza pensare alle gocce di sudore che irrorano il viso e la maglietta, la fatica è anche intellettuale, di testa. Ma è pur sempre fatica. Nel momento in cui ci concentriamo per creare qualcosa dobbiamo applicare tutto il nostro corpo affinché ogni membra sia perfettamente a favore di ciò che vogliamo realizzare sia che si tratti di un prodotto artigianale, che di uno scritto, o di un’opera artistica o di un servizio che presti a qualcuno. Non può esserci #lavorobenfatto se manca questa attitudine, se il lavoro non è un impegno con te stesso prima che con gli altri per cui lo stai facendo.

Felicità (Simone Bigongiari) Torna al Dizionario: Va bene l’impegno, la fatica, la costanza, l’attitudine, la ripetizione, ma se il lavoro non ti dà felicità non può essere un #lavorobenfatto. E questa felicità non deve essere data dalla remunerazione economica che ottieni dal tuo lavoro per poter impiegare il tempo libero in attività “desiderate”, ma deve essere essa stessa il prodotto e l’obiettivo del tuo lavoro. Credo fermamente che il lavoro non deve dare solo soddisfazione, non deve essere alimentato solo dalla motivazione e non deve essere gratificato solo dal salario, ma deve essere “fatto” per raggiungere la felicità, magari non subito, non quella temporanea, ma quella a lungo termine, quella della mutazione del lavoro in passione (nella sua accezione positiva), in ricchezza e piena completezza di sé. E quale miglior obiettivo possiamo porci se non quello di svolgere le proprie mansioni con il cuore (amore), il metodo (testa) e la cura (mani) solo per fare un #lavorobenfatto?

Fermezza (Mattia Di Gennaro) Torna al Dizionario: La definizione di fermezza, dal sapore poetico, della Treccani è: ‘Serena ma energica risolutezza’. È un misto di ingredienti come l’energia, la risolutezza, la determinazione e la serenità. Con essa non si lascia spazio a distrazioni, si procede dritti e spediti fino al raggiungimento dell’obiettivo. Un po’come i cavalli con i paraocchi, ai quali bisogna evitare ogni azione di disturbo da ciò che li circonda al momento della corsa. Una corsa che però nel nostro caso non va fatta sugli altri perché, se vogliamo fare un lavoro ben fatto, lo dobbiamo fare in primis per noi stessi.

Futuro(Angela Scarano) Torna al Dizionario: Non mi è mai piaciuto pensare ad un concetto così astratto e così a lungo termine, come il futuro, perchè è come se mi desse la sensazione di avere una spada di Damocle che pende sulla mia testa. “Che ne sarà di noi”: una frase troppo spesso pronunciata e che forse troppo spesso cela un senso di paura e sgomento per quello che accadrà. Certo è che i tempi in cui viviamo non ci aiutano affatto ad avere una concezione rosea del nostro futuro. Il lavoro che faremo, i soldi che avremo, la casa in cui vivremo, e altre 1000 domande che come dei martellini picchiettano nella nostra mente. Ci dovremmo interrogare, piuttosto, sul fatto che farci troppe domande su quello che verrà potrebbe non farci godere a pieno il presente. In poche parole, passiamo più tempo della nostra vita a chiederci di “come sarà”, piuttosto che a goderci “quello che è”. Dimentichiamo che il futuro è fatto da singoli giorni ed è proprio in questa quotidianità che dobbiamo cercare di dare un senso alla nostra esistenza. Ogni singolo momento può essere quello giusto per poter prendere la palla al balzo e dare una svolta alla propria vita. Basta avere il coraggio di provarci.

Futuro Torna al Dizionario: Avere futuro è importante. E l’Italia allunga l’ombra del futuro sul presente se individua e mette in campo le energie per ripensarci su. Per fare un salto. Prima di tutto culturale. Per ridefinire l’essenziale. Quando abbiamo molto futuro davanti lo condividiamo con altri e ci riconosciamo in esso. Alla domanda: chi sono io?, possiamo rispondere: «sono uno di quelli che con gli altri cerca di costruire un domani migliore per sé, i propri figli, la propria comunità, il proprio Paese». La possibilità di disporre di un’ombra lunga del futuro sul presente è insomma legata al fatto di poter contare su quella risorsa, preziosa per ciascuno di noi, che è l’avere un’identità, data per l’appunto dalla stabilità dei riconoscimenti di cui possiamo disporre nel lungo termine e delle aspettative che abbiamo sul fatto di riconoscerci con altri in un determinato modo. Quando questa stabilità si contrae, la lunghezza del futuro sul quale proiettiamo noi stessi con gli altri si riduce fino ad appiattirsi sul presente e con essa si riduce la nostra capacità di orientarci nel mondo con gli altri, cambia il nostro modo di definire interessi, ideali, bisogni, speranze e tutto ciò produce effetti significativi sulle nostre vite, in particolar modo in questa fase così fortemente dominata dal concetto di cambiamento. Numerosi studi, ricerche ed esperienze empiriche indicano che da piccoli – età prescolare e scuola elementare – i bambini abbiano una percezione del futuro sostanzialmente luminosa, positiva, gioiosa e che in questo futuro le tecnologie siano orientate al bene e al bello, al servizio di un mondo senza molti rischi e paure. Il punto potrebbe essere allora come alimentare i sogni e l’immaginazione che ci accompagnano da piccoli. Come educare alla consapevolezza, al pensiero plurale e critico. Come incrementare il patrimonio di bellezza e di fiducia verso il futuro di cui i nostri piccoli principi sono portatori. Ed è un punto che suggerisce qualcosa di molto significativo circa l’importanza e il ruolo della scuola di ogni tipo e ogni grado.

Futuro (Vincenzo Orefice) Torna al Dizionario: Futuro è una parola molto importante per me, ci penso spesso a quale sarà il mio futuro a cosa farò in futuro e che tipo di persona sarò in futuro. Spesso navigo con la mente proiettandomi molti anni avanti, immaginando di realizzare tutti i sogni rinchiusi nel cassetto, immaginare e sognare è una cosa che mi piace tanto fare anche perché come dico sempre “i sogni sono fatti per essere realizzati” e il mio obiettivo è proprio quello di fare un mix delle 6 parole proposte mettendo un pizzico di ognuna di esse per cercare di “fare della propria vita un capolavoro” oppure fare della vita un “lavorobenfatto”. Aspirazioni, le mie, forse troppo grandi, ma nulla mi vieta di pensare che tutto questo sia possibile. Alcune volte il futuro mette paura, la paura di affrontare il domani perché è incerto, contornato com’è da tanti se e tanti ma, però a un certo punto mi sono reso conto di dover procedere a “piccoli passi”, piano piano, mattone dopo mattone. E’ così dhe riesco a raggiungere gli obiettivi che mi prefiggo senza sentire il peso di un futuro che mi assilla e mi impone di fare le cose in fretta e furia. Quindi vivo la vita alla giornata consapevole che il domani è un dono e che posso sfruttare i giorni che verranno per diventare una persona migliore, per crescere e costruire con le mie mani il mio futuro.

Generosità (Laura Ressa) Torna al Dizionario: Un lavoro ben fatto è un lavoro generoso, che si presta ad essere tramandato e che non è proprietà privata di pochi fortunati. La generosità di un lavoro ben fatto per me è la disponibilità delle persone a trasferire le proprie conoscenze, le competenze, i trucchi del mestiere, gli accorgimenti per far meglio. Generosità è anche voglia di tramandare la storia di un’azienda o la storia professionale di una persona, crescere insieme ricordando il passato affinché esso sia maestro fondamentale per il futuro. Perché dal passato c’è sempre da imparare: la generosità sta però nel rendere il passato disponibile, fruibile, sta nel raccontarlo senza troppi timori. Essere generosi vuol dire rendere partecipe del passato anche chi sta vivendo il presente di un’azienda o di un contesto lavorativo. Qui entra in gioco il concetto di tradizione, di qualcosa che si trasforma e si tramanda nel tempo come le nenie delle nostre nonne o i proverbi di un tempo. La generosità sul lavoro è una vecchia filastrocca che attraversa il tempo e giunge a tutti come fosse un bene collettivo, come fosse un bene di chi verrà dopo, uno scrigno da custodire. La generosità deve entrare nel nostro DNA lavorativo se non vogliamo che quel che siamo, le nostre scoperte e la nostra storia vengano portati via dal vento senza che nessuno li conosca. Dovremmo sentirci tutti divulgatori di storie, di conoscenze, di consapevolezze acquisite col tempo e che diventano doni preziosi.
Dalla generosità derivano i consigli. Se sei generoso sul lavoro, sai anche dare consigli agli altri al momento giusto e nelle giuste modalità. La notte porta consiglio, recita il proverbio. Per me anche il lavoro porta consiglio perché ti permette di piantare un germoglio che nel tempo diventa pianta e poi albero. L’albero serve a nutrire e a diffondere ossigeno a chi lo circonda: ecco dunque che un lavoro fatto bene è quello che sa essere pianta e poi albero. Un lavoro ben fatto si nutre di consigli, di frasi dette senza paura di lasciar andar via con esse una parte di noi. In effetti se diamo consigli avviene tutto il contrario: non perdiamo nulla, anzi propaghiamo una parte di noi che potrà espandersi ed estendersi all’infinito. Sarebbe quasi un trapianto di idee: qualcosa di noi che certamente sopravviverà al tempo.

Gioco (Francesco Panzetti) Torna al Dizionario: Il bambino ama giocare ma si annoia a studiare. È chiaro: il gioco nasce da un’esigenza profonda di sperimentare la sua visione della realtà e le relazioni con i compagni; sperimentare, dico, simulando ogni volta una versione nuova del mondo. Contemporaneamente, nella finzione del gioco mette alla prova i suoi stati d’animo, che invece sono reali, e li mette in campo sapendo di non rischiare quanto rischierebbe se quell’esperienza stesse accadendo davvero. Perché il gioco ha delle regole e un inganno al quale è dolce credere.
Ma è proprio per questo che lo studio spesso è noioso, e nel nostro mondo, in cui l’istruzione serve a preparare l’individuo adulto al mondo del lavoro, la noia di un’esperienza spesso subita e non scelta, vissuta seriosamente anziché solo seriamente (il gioco è una cosa serissima!), transita direttamente nelle professioni che svolgiamo ma s-vogliamo, che non vogliamo più. Il lavoro offerto diventa, così, s-offerto; subìto, e pure subito.
Il lavoro giocato è tutt’altra cosa. È un pericolo nella nostra società perché, quando a qualcuno viene da divertirsi, agli altri vengono i diverticoli; per ognuno che lavora giocando, ve n’è un altro che lo fa giudicando. Per questo costoro vengono tacciati di essere poco seri, immaturi ed irresponsabili: per l’invidia di essersi divincolati dai tentacoli della nevrosi collettiva, di aver osato rispondere alla domanda che Lacan diceva essere l’unica importante a cui rispondere alla fine della vita: hai realizzato il tuo desiderio?
Il lavoro giocato non è irresponsabile: casomai, a volte lo è per darsi quello slancio senza il quale sarebbe impossibile saltare il fosso, ma presuppone un profondo ascolto di se stessi ed un altrettanto profondo rispetto per gli altri, perché le regole del gioco servono proprio a questo.
Il lavoro giocato non è da immaturi: è da innamorati della bellezza e della vita, è asperso di entusiasmo e profumato di meraviglia.
Il lavoro giocato non è poco serio, ma davanti ad un fallimento sa non prendersi troppo sul serio per mettere la persona in condizioni di ricominciare.
Il lavoro giocato non è banale: è cibernetico, simula, in maniera compiuta, lo scenario obiettivo, permette di presentizzarlo, di pregustarlo e di valutare meglio i processi rispetto al risultato desiderato.
Chi lavora giocando può fingere di essere chi non è — magari un modello, una persona riconosciuta come un riferimento in un dato campo — e, interpretando il proprio personaggio come fanno i bambini nel gioco, permette alle proprie qualità di emergere compiutamente, di portare più in là i propri limiti entrando ed uscendo da quella simulazione che sembra The Matrix, ma è semplicemente l’Uomo.
Chi lavora giocando forse, un giorno, si stancherà e vorrà cominciare un nuovo gioco. Insegue non solo le sue passioni, ciò di cui s’innamora di volta in volta, ma infila le perle dell’esperienza una ad una per trovare alla fine, nell’insieme della collana, il senso di ciò che ha fatto. Il che vale a dire: per trovare se stesso.
E sì, giocare è anche pericoloso, ma è un rischio che credo sia la prima regola di ogni gioco.

Giusto Torna al Dizionario: Fare bene il proprio lavoro è giusto: non c’è strada pulita se lo spazzino non ha fatto bene il proprio lavoro; non c’è bambino che ami la matematica o l’italiano o qualunque altra materia se l’insegnante non ha fatto bene il suo lavoro; non c’è ragù degno di questo nome senza qualcuna/o che lo abbia preparato come si deve. E lo stesso vale per il ponte, per il campo, per le scarpe, per la salute, per ogni cosa.
Sì, secondo me è una questione di giustizia ancor più che un dovere: il lavoro ben fatto è giusto perché se ognuno fa bene quello che deve fare ogni cosa funziona meglio.

ImmaginAzione (Monica Cristina Massola) Torna al Dizionario: Proprio non riesco di pensare al lavoro senza chiamare in causa l’immaginazione, nelle sue plurime accezioni di stadio fervido e creativo della mente, slegato da una necessita cogente di produrre, che in quella di idea, di pensiero più diretto verso un obiettivo o ancora in quella di “funzione sintetica della percezione o integrazione dei dati reali verso il possibile” [Treccani online]. Quindi per lavorare devo immaginare, ossia generare una immagine nella mia mente, e avere una visione del prodotto che andrò a costruire, del risultato finito a cui aspiro, se ciò a cui punto è un quid/qualcosa concreto: casa, mobile, meccanismo. Altresì avrò bisogno di una immagine: di uno scenario, o di un tempo, o di un esito a cui tendere, se mi occupo di un lavoro astratto, ovvero non immediatamente tangibile (il benessere di una persona, la crescita di qualcuno, il cambiamento di un luogo). A cui fare seguire atti concreti, fisici, materiali, corporei, strumentali, tecnici per rendere reale quella immagine. Mi è piaciuto anche declinarla come se fosse una doppia parola Immagina – Azione per associare con maggiore chiarezza l’immagine/il pensiero all’azione/atto.
ImmaginAzione è parola che va usata da un io, o un noi se si tratta di un progetto collettivo, che ha una visione, una immagine creativa, bella in potenza, ideale, complessa, ambivalente ma ferma nella mente. L’azione rende l’immagine piena di forma, vita e concretezza, quotidianità, precisione, bellezza, cura, e chiama in causa tante di quelle parole di cui il dizionario si sta riempendo.
Un lavoro ben fatto si colloca in questo spazio, che deve stare in un continuo connubio, dinamico, tra ciò che il nostro immaginario produce, nutrendolo del possibile, e le nostre azioni costruiscono, generando realtà tangibili. Un termine senza l’altro rende il lavoro ora inesistente, ora vuoto e pesante.

Imperfezione (Lucia Olivi) Torna al Dizionario: Come può esserci imperfezione in un #lavorobenfatto?! Io credo, invece, che sia una componente essenziale. In un mondo in cui ostentare perfezione sembra essere d’obbligo, sentirsi imperfetti è una virtù.
Imperfezione significa dare il massimo, consapevoli che si può fare sempre meglio; significa sapere che c’è qualcuno che sta facendo meglio di te e ricordarsi che dagli altri si può imparare, sempre; significa che c’è anche qualcuno che sta facendo peggio di te e allora si può insegnare qualcosa (e continuare ad imparare); significa andare sempre alla ricerca di quello che manca e non fermarsi allo stato attuale (o apparente) delle cose.
Imperfezione significa accettare “quello che è andato diversamente da come si pensava” e da lì ripartire, consapevoli che il modo perfetto non si trova mai, ma si cerca sempre.

Ingegno (Daniela Morandi) Torna al Dizionario: Direi che la mia parola è ingegno nel senso di intelligenza come principio di creatività, capacità inventiva volta alla risoluzione di problemi. In un mondo estremamente “procedurizzato”, standardizzato, spesso piatto, il guizzo di ingegno, la cosiddetta “lampadina” risolutrice, può fare la differenza. La ricerca di una strada alternativa, l’avere in mente la procedura ma anche il suo antidoto, lo standard ma anche la curiosità e l’intraprendenza finalizzate all’efficacia per quello specifico contesto, per quello specifico problema.

Inclusione (Margot Deliperi) Torna al Dizionario: Inclusione, perché è anche con il coinvolgimento dei singoli nel tutto che si da il lavoro ben fatto. Non c’è futuro nell’esclusione (ex – claudere), e “chiudere fuori” alcuni soggetti di un’organizzazione porta con sé il deterioramento del potenziale di crescita, non solo degli individui, ma anche del sistema economico e sociale in cui sono (e siamo) inseriti.

Innovazione (Roberto Salvato) Torna al Dizionario: un lavoro ben fatto non può che portare innovazione. Innovazione nel senso botanico dell’innestare qualcosa di nuovo su ciò che già esiste. È la tensione che anima il mio lavoro: costruire ponti tra mondi differenti (educazione e impresa) portando innovazione attraverso pratiche e teorie proprie dell’uno riversandole nell’altro e viceversa. Dare voce alle nostre #eccellenzesilenziose creando i presupposti per una contaminazione feconda tra esse.

Insoddisfazione (Aldo Gay) Torna al Dizionario: Essere, con spirito costruttivo, non contenti dei propri risultati. Spingersi a migliorarsi sempre, ad ascoltare punti di vista diversi, mettersi in gioco.

Intelligenza (Emotiva) (Lorenzo Fariselli) Torna al Dizionario: L’Intelligenza Emotiva è la capacità di unire pensiero ed emozione per prendere decisioni efficaci e sostenibili. Così definita potrebbe essere percepita come un qualcosa di astratto, ma ha invece implicazioni pratiche incredibili sia in ambito personale che professionale. Inoltre si sta rivelando una competenza chiave su cui puntare sempre di più indipendentemente dal contesto in cui si opera. L’Intelligenza Emotiva traduce infatti quanto le neuroscienze ci dicono: nel nostro cervello abbiamo strutture maggiormente dedite a processare informazioni emozionali ed altre maggiormente focalizzate all’elaborazione logico-razionale. L’intelligenza Emotiva è la nostra capacità di far dialogare con efficacia queste zone, creando interconnessioni sempre più solide attraverso un allenamento mirato che sfrutti le caratteristiche neuroplastiche del cervello stesso. Allenare l’Intelligenza Emotiva significa
– aumentare la consapevolezza di se stessi (delle proprie emozioni e dei propri schemi comportamentali) così da avere maggiori informazioni a nostra disposizione
– aumentare la capacità di gestirsi per essere maggiormente intenzionali nel nostro agire (navigando le emozioni, sfruttando la nostra motivazione interna, adottando una prospettiva ottimistica in grado di aprire il numero di alternative comportamentali a nostra disposizione e calcolando costi e benefici emotivi di ogni scelta)
– aumentare il nostro senso di scopo per scegliere l’alternativa comportamentale più in linea con il futuro che vogliamo costruire (perseguendo obiettivi nobili che creino valore a livello individuale e sociale, perché guidati dall’empatia)
Seguendo le fasi sopra descritte, l’informazione emozionale può essere realmente valorizzata ed inserita all’interno del nostro processo decisionale quotidiano. Le implicazioni sono in ambito organizzativo, per supportare manager e leader nelle fasi di change e people management, ma anche scolastico e personale, affinché il benessere accompagni la performance.
All’alba della quarta rivoluzione industriale, immersi in un mondo ad alta complessità e soggetto ad una velocità di cambiamento senza precedenti, diventa sempre più urgente ed importante usare strumenti in grado di gestire il paradigma emozionale per un #lavorobenfatto e per guidare in maniera strategica un processo di sviluppo tecnologico inarrestabile.

Intenzionalità (Alessia Peracca) Torna al Dizionario: La mia parola è “intenzionalità”.
Passare da logiche di reazione a logiche di azione passa dall’intenzionalità, intesa come capacità di gestire le situazioni in modo consapevole scegliendo la risposta più opportuna “rispetto al” contesto e “nel rispetto del” contesto e delle persone coinvolte. La possibilità di influenzare persone e ambienti appartiene certamente ai leader per ruolo, ma la leadership è diffusa e è responsabilità di tutti gestire la propria porzione di ambiente (o clima) al fine di generare un benessere diffuso in cui alimentare innovazione, curiosità, collaborazione. E allora l’intenzionalità di ogni persona si accorge di reazioni inopportune e le modifica, allenandosi nel gestirle nel modo più sano possibile. Da qui passa l’assertività, intesa come la capacità di esprimere opinioni discordanti rispetto al contesto mantenendo equilibrio nella modalità di espressione.

Intuito (Domenico Pennone) Torna al Dizionario: L’intuito come arte di guardare oltre, verso quello che non puoi vedere con i soli occhi. Senza l’intuito non saremmo in grado di combinare nulla. Qualsiasi scelta, azione, lavoro ne necessita sempre almeno un pizzico. E’ intuizione, ovvero l’insieme di conoscenza, capacità di avvertire, di comprendere e valutare con immediatezza che fa decidere all’artificiere quale filo tagliare per prima o al meccanico di stabilire se è necessario smontare il motore ascoltando il solo suono che viene dai pistoni. Anche l’artista segue l’intuito. Non è la forma della pietra che guida lo scultore ma quello che lui ci vede dentro. E’ l’intuito che ti annuncia il pericolo e che ti fa indossare il casco sulla balaustra. E’ l’intuito che ti dice che puoi farcela. Non c’è intuito senza esperienza e prudenza. Non c’è intuito senza il coraggio di provarci.

Lavoro (Casalingo) (Wanda Pane) Torna al Dizionario: Fallo, fallo presto, fallo bene, e pronti per il prossimo. Definizione non di un sociologo ma di una vecchia casalinga. Il lavoro domestico è ineluttabile.

Leggerezza (Sabrina Razza) Torna al Dizionario: È quella sensazione che ti accompagna quando svolgi il tuo lavoro in modo naturale, fluido, senza sforzo. Ti fa sentire leggero il volare in alto come meta, l’idea di seguire e raggiungere il tuo obiettivo, ti dona un profondo senso di appartenenza e ti aggiunge valore. Come i gabbiani che librano in aria senza sbattere le ali ma lasciandosi cullare, trasportare dalle correnti, non sentendo alcuna fatica. Semplicemente danno voce all’istinto senza dover elaborare macchinosi ragionamenti. La leggerezza è fare quello per cui si è nati. Sentirsi nel posto giusto. Con la serenità e il sorriso che ne conseguono.

Manutenzione (Luigi Glielmo) Torna al Dizionario: Essendo un prof. di automatica forse vi sorprenderò ma la mia parola per il dizionario non è Robot, Smart, Macchina ma è Manutenzione. Forse non ci avrei pensato se non avessi trascorso in questo mese di Dicembre 2015 due settimane in Giappone ma confesso che sono rimasto dal punto di vista ingegneristico estasiato. 
Si, i miei figli mi prendono un po’ in giro ma io sono rimasto ammirato da questi lunghissimi corridoi delle linee metropolitane, chilometri e chilometri di tunnel dove migliaia di persone ogni pochi minuti si trasferiscono da una linea all’altra. A entusiasmarsi non è stata tanto la lunghezza dei tunnel o la fiumana di persone che li attraversa, già visti in altre città, quanto il fatto che fossero perfettamente manutenuti, non una sola lampadina fulminata tra migliaia e migliaia, non una scala mobile immobile tra decine e decine, non un ascensore in riparazione, un tabellone spento, un distributore di biglietti guasto, un vetro o un passamano sporco. E non solo nelle metropolitane o nelle stazioni ferroviarie. Dall’appartamento che avevo preso in fitto si vedevano condomini tutt’intorno, e le loro scale esterne: tutte perfettamente illuminate, tutte le luci funzionanti, e anche perfettamente eguali, della stessa intensità e temperatura di colore (sono un po’ fissato con le luci bianche ma calde, non fredde). Ripenso ai nostri condomini dove passano giorni, se va bene, per sostituire una lampadina. E non parliamo di certe scale mobili della metro di Napoli, ce n’è una guasta da settimana a piazza Dante. Ti ho pensato, Vincenzo! Credo che la manutenzione sia una delle componenti essenziali del “lavoro ben fatto”.

Merito (Riconocere il) (Laura Ressa) Torna al Dizionario:
Riconoscere il merito, che grande fatica ma che grande meraviglia! Riconoscere il merito degli altri è forse uno degli atti più nobili e alti del lavoro ben fatto. Dire “bravo, hai fatto un buon lavoro!” può costare immensa fatica ma il merito va riconosciuto sempre, senza eccessive pacche sulla spalla ma con un apprezzamento che sappia farsi sentire in ogni contesto: a volte in sordina, a volte con un tono più deciso. Penso al rapporto tra colleghi di pari livello che non esitano ad elogiarsi a vicenda, anche di fronte ad altri. Penso soprattutto ai manager, ai dirigenti, a chi gestisce gruppi di lavoro. Il merito non cresce soltanto da sé, ci sono persone che hanno infinite capacità ma che le impostano al minimo potenziale perché non sentono di valere abbastanza o non percepiscono l’utilità del proprio lavoro perché nessuno gli dice mai quanto sia importante. E allora riconoscere il merito “è bello, è giusto e conviene”. Conviene perché chi sente di valere lavora meglio e di più, è bello perché dà senso e valore a ciò che un uomo produce. Non siamo automi, non siamo lavoratori con il pilota automatico inserito, siamo persone. E le persone per lavorare meglio hanno bisogno di dare senso e utilità a quel che fanno. Riconoscere il merito non vuol dire alimentare l’ego di qualcuno ma essere coscienti del lavoro e del valore altrui, vuol dire essere giusti, lungimiranti, intelligenti. Non farlo significa invece avere paura che gli altri ci rubino la scena. E se abbiamo paura che gli altri ci rubino la scena, forse dovremmo rivedere la percezione che abbiamo delle nostre capacità e le nostre convinzioni sul lavoro.
Riconoscere il merito è insomma un valore enorme. Mettere in evidenza le capacità altrui di fronte a colleghi e superiori, nei tempi e nei modi idonei, è frutto di consapevolezza e di grande maturità professionale. Chi sa farlo rappresenta per me il massimo esempio a cui si possa aspirare.

Migranti (Tiziano Arrigoni) Torna al Dizionario: Spesso si confondono profughi, migranti, rifugiati, le cose si mescolano anche nella realtà. Spesso si fugge da situazioni di miseria nera per cui diventa attrattivo per un emigrante anche vendere accendini sulla spiaggia e poter mandare a casa cinquanta euro al mese, un tesoro in certe realtà . Ma in questo mondo complesso, vale sempre la stessa regola immutabile dei migranti di ieri e di oggi: la catena migratoria ossia si va dove altri nostri compaesani vanno e soprattutto l’emigrazione dal “troppo pieno” al “troppo vuoto” , intendendo per troppo vuoto tutto ciò che lascia uno spazio (compreso quello di vendere accendini sulla spiaggia). In fondo, lasciando stare la tragedia dei profughi e dei rifugiati, l’emigrazione “economica” è quasi sempre questione di risorse , anche di rapporto fra uomo e ambiente. Eppure difficilmente riusciamo a pensare in questi termini , tutto si sposta sulla percezione di brevissima durata(fino alla cronaca del quotidiano) , mai su quella più difficile da percepire delle strutture di lunghissima durata. I migranti sono portatori non solo di culture immateriali, ma anche di culture (e spesso colture) materiali, di lavori ben fatti nei loro paesi di origine, sia pure in rapporto con l’ambiente specifico (difficile far crescere il caffè sulle Alpi). In certi casi avviene, pensiamo ai panjabi indiani specializzati nell’allevamento bovino e reclutati nella Padania e ai quali dobbiamo la sopravvivenza materiale del Grana padano, ma nella maggior parte dei casi questo rapporto uomo – risorse non è tenuto in considerazione. Eppure l’emigrazione italiana all’estero è stata per secoli legata al rapporto uomo – risorse. Penso al caso esemplare dei boscaioli e dei carbonai dell’Appennino di Pistoia in Toscana , cantati e raccontati da Francesco Guccini: un mestiere apparentemente “dequalificato” agli occhi degli ignoranti, ma che presuppone conoscenze di mestiere raffinatissime e un rapporto stretto uomo – risorse naturali accompagnati ad una grande capacità di adattamento agli ambienti in cui emigravano. Esemplare perché questi migranti li troviamo ovunque ci sia un bosco da tagliare, un lavoro ben fatto per carbonizzare la legna al modo giusto . In Maremma, in Corsica, in Sardegna, in Calabria, nel Midi francese e fn qui parliamo di ambienti familiari, mediterranei, ma che dire dei boschi – non boschi (perché troppo radi per noi) del Maghreb, dove la notte ti dovevi difendere dalle iene che si aggiravano intorno alle carbonaie, o dell’Oregon o della foresta amazzonica del Mato Grosso. Una dimensione uomo – ambiente che permetteva a questi migranti, sia pure in condizioni durissime, di portare avanti conoscenze e mestiere. Quanto sappiamo noi invece delle conoscenze dei nostri migranti? Quante risorse in questo modo vengono perdute perché considerate inutili? Forse c’è la necessità di ripartire proprio da qui, dal nostro rapporto di uomini con il nostro ambiente per condividere un lavoro ben fatto.

Motivazione (Elisa Bonfanti) Torna al Dizionario: La motivazione è la forza psicologica che guida il nostro comportamento e che coinvolge forze biologiche, emotive, sociali, cognitive.
Da un punto di vista psicologico la motivazione può essere definita come l’insieme dei fattori dinamici, aventi una data origine, che spingono il comportamento di un individuo verso una data meta; secondo questa concezione, ogni atto che viene compiuto senza motivazione rischia di fallire. Senza motivazione non posso raggiungere i miei obiettivi e ancor prima, non posso nemmeno immaginarli. Per ogni lavoro devo essere motivato e devo motivare gli altri attori coinvolti: la motivazione reciproca porta al raggiungimento di ottimi risultati.

Multipotenzialità (Fabio Mercanti) Torna al Dizionario: Educazione, formazione, lavoro, carriera, identità professionale. Storia, psicologia, sociologia. Talento, opportunità, realizzazione professionale. “Multipotenzialità” è una parola che nasce in ambito educativo ed è impossibile comprenderla senza fare rifermento a un uomo che sceglie, cerca la sua strada, si realizza. E quindi senza considerare il contesto economico, culturale, sociale nel quale egli si muove e nel quale lavora.
La multipotenzialità è l’essenza di chi si realizza in più percorsi professionali, di chi accosta e ravviva competenze e talenti, di chi sceglie una identità professionale complessa. Un multipotenziale non si accontenta di percorsi giù tracciati, è divergente e si muove in più direzioni e con ritmi diversi. Fa incontrare tecniche, segue più discipline.
La carriera di un multipotenziale è un pezzo unico, costruito nel tempo, modellato su una ricerca continua fatta di passioni, stimoli e progetti. La multipotenzialità è un approccio al lavoro e alla costruzione della propria carriera basato sulla molteplicità.

Narrare (Manuela Fedeli) Torna al Dizionario: Il suo significato etimologico deriva da gnarigàre, che trova suo fondamento nella radice gna – conoscere, render noto e igàre che deriva da àgere – fare, che indica quindi un’azione. Narrare significa perciò conoscere raccontando. La narrazione quindi ha estremo valore nel conoscere ciò che si fa e nel farlo conoscere agli altri. Per me che lavoro in Educazione e in Formazione, narrare è proprio un dovere, perché è un’azione necessaria per portare alla luce e mostrare tutto ciò che accade nelle pieghe quotidiane dei servizi educativi, delle aule formative e, perché no?, anche nel quotidiano delle organizzazioni, soprattutto afferenti al no profit, che permettono che tutto ciò accada e, quando lavorano bene, permettono anche di creare cultura del lavoro che si fa, ma molto spesso ancora faticano a narrarlo. Perché l’Educazione e la Formazione sono fatte di gesti naturali, che solo negli ultimi decenni sono stati tecnicalizzati da chi ha iniziato a svolgerli professionalmente. E questa professionalità e tutte le esperienze di vita che permette, hanno bisogno di essere conosciute. La narrazione è la via maestra per farlo.

Onestà (Veronica Otranto Godano) Torna al Dizionario: da piccola m’insegnarono a casa che una torta andava sempre divisa in parti uguali. Anche l’ultimo pezzo rimasto, era necessario dividerlo tra i presenti (sperando che non fossero troppi!). Anche l’ultimo cucchiaio di tiramisù era d’obbligo spartirlo e guai a non dichiarare o a mentire sull’identità del ghiottone di turno, reo di essersi avventato sull’ultimo pezzo rimasto in frigo. Pillole d’onestà familiari le quali, con il trascorrere degli anni, mi hanno indotto a scegliere la lealtà al posto della menzogna, la rettitudine anziché la disonestà. Anzi, non si tratta di una scelta, ma di un modo d’essere e d’esternare ciò che era già insito dentro di me. Onesti si è dal principio, grazie, soprattutto, alla famiglia d’appartenenza che deve insegnare, di sicuro in forma ludica all’inizio, il concetto di verità: è meglio ammettere quel quattro in matematica, confessare che il vaso è caduto involontariamente oppure di quella volta in cui abbiamo sbagliato noi e non i nostri fratelli come avremmo voluto far credere. L’onestà si apprende tra le mura domestiche che fungono da palestra di vita e ci preparano a essere cristallini nel gestire sia le relazioni personali sia quelle professionali. Un lavoro ben fatto implica dosi massicce d’onestà, altrimenti sarà solo un lavoro che alla fine paleserà delle crepe. In un mondo dove si fa a gara per mangiare la fetta di torta più grossa, è un miracolo trovare ancora qualcuno che lavori per il bene comune; perché è questo il miracolo che può accadere: lavorare affinché sia offerto un servizio, un beneficio, compiacersi di poter fare questo e poi, pensare, che il lavoro che amiamo ci dia per fortuna da vivere. Che tu sia un infermiere, un’estetista, un barman, una commessa, un giornalista, un assicuratore, un avvocato, un medico; che tu abbia una palestra, un terreno da coltivare, un’attività autonoma oppure, ahimè, ti trovi in una situazione transitoria, in cui non ti piace quello che fai, non devi mai dimenticare una regola: il lavoro richiede sincerità in base alla professione che si esercita. Ogni mestiere necessità di relazioni umane alla base che non devono essere soppresse al fine di un tornaconto personale, bensì elevate secondo i dettami etici che il lavoro impone. Ci sono gli altri nelle nostre azioni e si ha il dovere di tenerne conto, anche quando un guadagno immediato e un’operazione meno faticosa sembrano offrire maggiori soddisfazioni in un primo momento. E’ retorica, è utopia, eppure se ne parla ancora, giacché sappiamo che un lavoro onesto è un lavoro ben fatto e non necessariamente il contrario e poiché è fondamentale trasmettere l’idea che il cambiamento profondo possa partire dal singolo e ampliarsi al gruppo. Ognuno di noi ha una scala di valori diversa e nella mia, dunque, c’è scritto onestà al secondo posto (al primo c’è scritto amore). Onesta che significa presentarsi con il proprio nome e cognome e non con quello di Tizio o Caio; onestà che vuol dire non essere “figlia di..” e lavorare il doppio rispetto alle mie coetanee, figlie di padri artefici di procedure di concorso ad hoc per assumere le loro brave bambine; onestà che si trasforma in attaccamento viscerale al lavoro e, pertanto, in voglia di vedere subito i risultati e non aspettare la manna dal cielo. L’onestà è alla base di qualsivoglia comportamento civile, ma nel lavoro richiede sforzo e impegno e una strada più lunga da percorrere. Ricercare delle scorciatoie, infatti, non porta a nulla. Abituiamoci, piuttosto- anzitutto in campo aziendale, in cui ci sono gli obiettivi a rappresentare la meta-, a praticare l’onestà con lo scopo di ottenere risultati duraturi e solidi.

Operatore (di coesione e sviluppo territoriale) (Osvaldo Cammarota) Torna al Dizionario: Quando si ha la sensazione di fare cose ben fatte per sé e per gli altri, nasce il desiderio di comunicarle. Se si fa un mestiere atipico come il mio (operatore di coesione e sviluppo territoriale), la difficoltà è di “volgarizzarle”, di renderlo di facile lettura per verificare l’utilità di quel che si produce nel concreto apprezzamento degli altri da sè. Accade così che si parte alla ricerca di parole più conosciute, mestieri più conosciuti, perché «la credibilità del riconoscibile è nella declinazione delle somiglianze.» (Luigi Castellano “Luca”). Accade spesso che, in questa ricerca, si incontrino mestieri millenari, sapienze sperimentate nel tempo (nel mio caso dei carpentieri, dei marinai, dei pescatori, dei tessitori, ecc.) che offrono metafore efficaci a conferma che, ciò che funziona da millenni, offre strumenti per conoscere il nuovo e affrontare l’imprevedibile. La ricerca, poi, si spinge anche sulle parole, sul loro significato sul loro senso. Quelle che di seguito propongo hanno già un loro significato. Socializzo solo la suggestione di irrobustirne il senso. Sincretismo (operare con s.): Far convergere una molteplicità di elementi e fattori materiali e immateriali verso una medesima finalità. Sincronismo: Curare che gli effetti di singole azioni, integrandosi armonicamente, producano un risultato superiore alla somma di ciascuna. Sintelìa (da sunt telos): Lavorare tutti ad intrecciare la stessa tela. (Questa mi pare un po’ “romantica”, ma si vive anche di queste idealità.)

Ottimismo (Ilaria Iseppato) Torna al Dizionario: L’ottimismo è un prezioso ingrediente per un #lavorobenfatto. Non l’ottimismo didascalico che impone di vedere sempre il lato migliore delle cose e strizza l’occhio all’illusione, ma la sua declinazione come competenza dell’intelligenza emotiva.
Una visione ottimistica aumenta la nostra gamma di scelte e le opportunità di successo, procurando un approccio orientato alle soluzioni, che sprona a non arrendersi alle difficoltà. Ci spinge ad adottare uno sguardo a lungo termine nel perseguimento dei nostri obiettivi. L’ottimismo ci aiuta ad innovare e motiva chi ci sta intorno a fare altrettanto.

Paesaggio (Tiziano Arrigoni) Torna al Dizionario: Come diceva un grande storico dell’agricoltura, Emilio Sereni, il paesaggio non è altro che la società che interagisce con l’ambiente e il suo farsi terra, alberi, case. E per fare questo occorreva il lavoro, la capacità di trasformare l’energia umana, carne e sangue supportata dal pensiero, in campi coltivati, case coloniche, ma anche villaggi e paesi. Insomma paesaggio significa in primo luogo lavoro. Basta girare per l’Italia per osservare come il lavoro umano abbia cambiato il paesaggio: se io guardo le colline toscane o la costiera amalfitana e ne percepisco l’armonia, la “grande bellezza”, anche nei particolari, nel muretto a secco o nella fila di cipressi (un albero di scarsissima utilità se non quella di “segnare”), percepisco allo stesso tempo il lavoro ben fatto funzionale sia all’economia (il miglior risultato) sia alla costruzione e alla preservazione di quel tipo di paesaggio. Pensavo a questo camminando per i “waalweg”, i “sentieri d’acqua” del Sud Tirolo, chilometri e chilometri di sentieri montani costeggiati da canaletti che dovevano captare l’acqua dei monti per convogliarla verso i vigneti, i frutteti, gli orti, tutti rivestiti di lastre di pietra: un lavoro funzionale all’economia locale che ha modificato il paesaggio, ma, attenzione, con armonia, inserendolo in un contesto ambientale non snaturato. Oggi possono intubare il tutto (e probabilmente lo avrebbero fatto anche allora), ma si è perso quel rapporto fra funzionalità e bellezza dovuta soprattutto al lavoro.
Ora sarebbe impossibile ripetere esperienze come questa, il costo della manodopera sarebbe enorme e non più sostenibile, ma resta il concetto di lavoro ben fatto e rispettoso dell’ambiente, sia pure attraverso nuove tecnologie e materiali. Questo era dovuto anche ad un diverso rapporto con i prodotti della terra. Quante volte oggi ci domandiamo “quale è la terra per questo cibo che abbiamo nel piatto” o piuttosto annulliamo il lavoro rurale attraverso la massificazione del supermercato per cui il prodotto non ha terra né lavoro? Per capire come il rapporto sia mutato, come il paesaggio non sia più frutto del lavoro ben fatto, ma di un lavoro che punta al massimo profitto con il minimo impegno costruttivo, basta guardare le pianure a capannoni squadrati o il dilagare a macchia d’olio di periferie informi. In fondo se, come diceva Sereni, il paesaggio è lo specchio della società, pur senza volere idealizzare il passato in nessun modo, questa società appare piuttosto brutta o meglio disarticolata, una società che ha perso il senso del lavoro ben fatto per la costruzione di un “bel paesaggio”.

Pari Opportunità (Barbara Chiavarino) Torna al Dizionario: La mia definizione di pari opportunità parte dall’esperienza. Nella mia città, quando ero ragazzina, se stavi nei quartieri buoni del centro eri assegnata di pertinenza ai licei migliori; se stavi in periferia, eri abbinata a quelli così così, con il soffitto da cui pioveva dentro e gli insegnanti che avevano ottenuto i punteggi più bassi al concorso. Quando alla maturità ho preso sessanta, quel voto non valeva come quello ottenuto in quell’altro liceo. E nel mondo del lavoro, il mio trenta e lode non valeva, in termini di stipendio, quello del mio collega di corso maschio. E così, poco per volta, ci si assuefà all’idea di essere di serie B, che quasi non se ne possa fare a meno. Nel #mondobenfatto dove il lavoro è ben fatto, non ci sono persone di serie A e persone di serie B. Gli individui sono individui e si giocano la partita della vita con le stesse regole di ingaggio e di gioco, a prescindere dal loro sesso, origine etnica, religione, convinzioni personali, età, handicap o tendenze sessuali.

Passione (Chiara Iannello) Torna al Dizionario: Credo che la passione sia la più potente benzina. Questa, come linfa vitale, è insita dentro di noi e vien fuori “urlando” col primo soffio d’aria che inspiriamo. È quella forza che ci fa amare, godere, ammirare, lavorare, respirare bellezza. Come un artista genera meraviglia, produce poesia, riempe l’animo e ci permette di vivere in armonia con ciò che lei stessa crea. E insomma, come carburante, è l’energia che ci rende vivi, vivi davvero, come vive e rumorose sono le pulsioni che ci trasmette. Una benzina che, se accesa, diventa fuoco, fuoco che arde in ogni umano e rende viva ciò che senza lei sarebbe nient’altro che natura morta. E bisogna sentirlo quel fuoco, quel calore che viene da dentro, bisogna dargli voce e alimentarlo perché tanto più grande è la sua fiamma, tanto più intensamente vivremo la vita, tanto più meravigliosamente creeremo la nostra realtà. Anche nel lavoro.

Passione ( Maria Giovanna Romano ) Torna al Dizionario: Io te la scrivo su twitter la mia definizione per il dizionario del #lavorobenfatto, è Pasisone, qualcosa che comincia a incuriosirti e ti fa vedere sempre un po’ più in lá, che non ti fa più smettere di fare una cosa perché è troppo bello quello che stai facendo, che ti anima anche quando sembra che attorno non ci sia nessuno che ci crede fuorché tu, che ti ripaga degli sforzi e delle sconfitte e ti incendia continuamente, che ti fa vedere sempre più lontano e ti dá la forza di non stufarti mai e di cercare sempre qualcos’altro, sempre meglio.

Pazienza Torna al Dizionario: La pazienza ha conquistato un posto tra le parole della mia vita alla fine degli anni ’90 grazie a Hans-George Gadamer, che nel corso di una conferenza all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici affermò che se avesse dovuto riassumere l’intero novecento in due sole parole – ci pensate?, due parole per raccontare un secolo – avrebbe scelto queste due: pazienza e lavoro. Lavoro la portavo con me da sempre, pazienza invece fu una rivelazione. Oggi proverei a riassumerla così: va bene fare mille cose, va bene essere multitasking, però il pensiero ha bisogno anche di profondità, di cura, di tempo, tempo inteso non solo come kronos ma anche come kairos, come occasione. E aggiungerei che questo bisogno di profondità, di cura e di tempo non riguarda solo il pensiero ma anche l’azione. Soprattutto quando si tratta di mettere in campo azioni civiche plurali.

Pazienza (Alda Maria Bergomi) Torna al Dizionario: La pazienza ho imparato ad esercitarla nei lunghi anni d’insegnamento. Pazienza, non solo nei confronti degli alunni (non necessariamente quelli, diciamo così, più restii ad impegnarsi, ma a volte pure nei riguardi di quelli più “intelligenti”, che non avevano, appunto, la pazienza di attendere che gli “altri” raggiungessero il “traguardo”), ma anche nei riguardi di colleghi, dirigenti, collaboratori vari. Poi la pazienza mi è stata compagna preziosa nel crescere e nell’educare mio figlio, nell’accudire mio padre malato. Ora che sto invecchiando, mi accorgo che talora ne ho meno di quanto dovrei, eppure le occasioni per farvi ricorso non mancano: mi basta aprire la porta di casa ed ecco che devo, necessariamente, averla come compagna! Santa Pazienza!!!

Possibile (Giovanni Pisano) Torna al Dizionario: Un lavoro per essere ben fatto deve essere possibile. La frase «non ce la faccio» ha il potere di impedire alle persone di realizzare i propri sogni. In realtà con l’impegno e la costanza le cose che non si riescono a fare sono pochissime. «Non ce la faccio» è il blocco mentale che usiamo per convincerci ad arrenderci. In realtà chi non ci crede ha già perso dunque dimentichiamoci che questa frase esiste e sarà così che il nostro lavoro risulterà non solo ben fatto ma anche portato a termine.

Proattività (Luca Buiatti) Torna al Dizionario: La mia parola è proattività. Non può esserci un senso di pienezza e uno scopo senza vivere la propria vita lavorativa senza essere proattivi. Un approccio, un comportamento che esigono una forte consapevolezza del contesto professionale, del momento storico e della propria identità all’interno dell’organizzazione.
La proattività fa uscire dal lamento fine a se stesso e, giorno dopo giorno, regala perle di innovazione unite a forte concretezza. Un po’ come l’invito Ghandiano ad “essere il cambiamento che volete vedere nel mondo” la proatività è uno stile, non solo per i manager, anzi, che orienta la propria esistenza professionale concentrandosi sulle soluzioni e facendoci uscire dalla triste litania dell’accusa fine a se stessa.

Progettare (Progettista Progetto) (Gabriele Carloni) Torna al Dizionario
Progettare
Progettare è un verbo che coniugato al presente ci anticipa il futuro, di qualcosa di già definito in corso di “essere”, di “divenire”; coniugato al passato ci racconta una storia che si è avverata, di qualcuno che intenzionalmente ha fatto qualcosa che merita di essere ricordato; coniugato al futuro un sogno o una visione da perseguire. La funzione naturale del pensiero umano è elaborare scenari. L’acquisizione della consapevolezza della propria capacità progettuale avvicina gli uomini fra loro ed è la base delle civiltà umane.

Progettista
Il “Grande progettista” ha creato l’universo in sei giorni, ogni sera ha guardato il suo operato e si è compiaciuto dicendosi che quello che aveva fatto era buono, e il settimo giorno si è riposato. Un vero fenomeno, Dio, appunto.
La mia esperienza da progettista di dispositivi assortiti, non è altrettanto brillante. Il progettista si assume delle responsabilità, tecniche, etiche, commerciali, umane. Non può prescindere da questo, altrimenti non è un progettista, è qualcos’altro. Il frutto del progettista sono storie d’amore, il prezzo pagato per la narrazione è tempo, vita. Il progettista vive l’esperienza del progetto secondo fasi ben precise.
Il corteggiamento: Si comincia con una fase di studio, dove curiosità e fantasie stimolano il senso di sfida, il ”-ma io saprei fare meglio-”, “- e se…-”, “- ma perchè no?-”. I nostri usuali strumenti di progetto preliminare incominciano a riempirsi di appunti, domande, spunti, il giorno diventa breve, le notti sono frequentate dai fantasmi dei progetti passati, presenti e futuri a contaminare le idee. Cominciamo ad avere così tanta confidenza con le nostre idee che ad un certo punto esplode la seconda fase: l’innamoramento. Di getto si comincia a definire dettagliatamente tutti i particolari, con fantasia sfrenata, si scompongono problemi complessi in una miriade di soluzioni semplici con fiducia nel proprio gesto, padroni della fisica della matematica e della materia. Non esiste più giorno o notte, l’infatuazione è tale che più guardiamo il nostro lavoro più ci piace, tanto da tuffarci nella terza fase: la sperimentazione delle soluzioni che ci siamo immaginate. Già in questa fase il dubbio che la fisica sia vigliacca, la matematica un po’ zoccola e la materia recalcitrante, ci sfiora. Ma nonostante tutto l’amore per la nostra opera ci spinge a perseverare e a procedere con la realizzazione del prototipo, in gergo ”Alfa”, la primogenita.
Alfa non è mai una passeggiata. È un essere che vive di vita propria, consapevole di essere di transizione e per questo poco collaborativa. La fase che segue è controversa, si deve ripensare all’intero progetto aprendolo a contributi esterni per traghettarlo da Alfa a Beta, i tempi si dilatano, si perdono giornate su particolari insignificanti, si gira attorno ai problemi che si sono visti senza riuscire ad affrontarli, ci si prendono giorni sabbatici per staccare dall’ossessione del progetto, il senso di colpa per il tempo che si perde è un cane rabbioso alle calcagna. Poi in una o due notti insonni (con un senso di oppressione costante) si chiude la partita.
Se Alfa era figlia unica, Beta è in genere un parto plurigemellare, da dare in pasto ai “Beta Tester” che le faranno a brani e daranno i feedback per la versione definitiva, molto diversa da come l’avevamo immaginata all’inizio, non più nostra creatura, ma violata ( e perfezionata) da freddi utilizzatori. Il dolore potrebbe essere devastante, senonchè, da qualche parte del nostro cervello è ripartito il processo iniziale di corteggiamento verso un altro progetto, per cui ci si consola con un altro tuffo nella propria fantasia pronti ad un altro massacro interiore (e tante notti agitate). Tutte le mie realizzazioni sono firmate, da qualche parte nascosto o meno, campeggia un angioletto. Lo stesso che utilizzo da quando avevo cinque anni e mi sentivo dio. Ultimamente ho scoperto che faccio le cose che facevo a cinque anni con l’esperienza di oltre cinquanta. Credo che sia un dono.

Progetto
Il progetto è il gesto politico per eccellenza. E’ un percorso pianificato minuziosamente per cambiare o modificare uno status quo, nasce dal bisogno, dal sogno, dalla visione, ha bisogno di concretezza, esperienza, coraggio, pazienza e condivisione. Il progetto è tale se c’è consapevolezza del gesto, e niente più di questo parla della vita e della storia degli uomini nel loro tempo.

Qualità (Cinzia Anzellotti) Torna al Dizionario: Un lavoro ben fatto è un lavoro di Qualità (totale). Un lavoro ben fatto non è solo nella Qualità del prodotto creato, nella Qualità delle materie prime utilizzate, un lavoro ben fatto è anche nella Qualità del servizio offerto intorno a quel bene: dalla progettazione, al packaging, al servizio di assistenza post-vendita.
Un lavoro ben fatto é un lavoro fatto in fretta ma non frettolosamente, senza sprechi ma non “a risparmio”. Un lavoro ben fatto è un lavoro fatto non solo nel rispetto della legge, ma anche dell’etica e della sostenibilità ambientale. Un lavoro ben fatto è creato intorno al desiderio del cliente e migliora continuamente grazie ai feedback che il cliente stesso fornisce. Un lavoro ben fatto è un lavoro fatto in squadra che fa felice anche i lavoratori che in quel lavoro realizzano se stessi e possono dare il loro contributo a prescindere dal ruolo gerarchico. Un lavoro ben fatto non è il lavoro con il prezzo più basso, ma è il lavoro il cui prezzo sia totalmente giustificato dall’elevato livello di Qualità: proprio quella Qualità che tutti sognano ma pochi realizzano.

Racconto Torna al Dizionario: Perché il racconto è importante? Perché raccontando storie ci prendiamo cura di noi. Diamo forma al trascorrere del tempo. Incrementiamo il valore sociale delle organizzazioni, delle comunità, delle città. Attiviamo processi di innovazione. Le storie che raccontiamo ci aiutano a comprendere ciò che accade. A indicare cause e conseguenze. A tenere assieme quello che sappiamo di un evento con quello che è ipotizzato. A parlare di cose assenti e di connetterle con quelle presenti a vantaggio del significato. A costruire database dell’esperienza.

Relazioni (Chiara Mortari) Torna al Dizionario: Non è così scontato che la nostra socialità e affettività siano ambiti di lavoro. Proprio nella quotidianità si riverberano gli effetti della qualità dei rapporti che riusciamo a costruire se il lavoro è ben fatto. Ciascuno di noi esiste attraverso il suo modo di porsi in relazione con il mondo, con gli altri, con il pensiero, con il corpo, con il piacere e con le costrizioni. Rispettando la persona nel suo modo d’essere, ci si svincola dall’imperativo di un dover essere immaginario per fare in modo che ciascuno possa conoscere il proprio dover fare sviluppando le proprie capacità, e non identificandosi con le proprie mancanze.
Oggi, le nostre esistenze sono complicate dalla globalizzazione e da tante contraddizioni risultanti da logiche di profitto e che alimentano diseguaglianze. Logiche di consumo s’insinuano in ogni anfratto di quotidianità: consumiamo risorse naturali, effetto di metodi di produzione insostenibili, e consumiamo anche risorse sociali a causa di trasformazioni delle relazioni tra le persone, che sembrano arrese allo sfruttamento dei rapporti e loro precarietà. Questo ci pare un motivo fondamentale per affermare la necessità di costruire relazioni autentiche, sane, pensare alla loro sostenibilità e riconoscerne il senso.

Resilienza (Rita Mosca) Torna al Dizionario: La capacità di adattarsi alle situazioni stressanti della vita. Tutti siamo resilienti chi per una ragione chi per un’altra lo siamo stati nella nostra vita e continueremo ad esserlo. La chiave giusta sta nella consapevolezza del proprio benessere interiore, di saper controllare le proprie emozioni e di guardare avanti in modo positivo. Bisogna volersi bene! Ecco queste piccole prassi possono essere applicate anche in campo pedagogico e didattico. I bambini oggi hanno poca fiducia in se stessi e nelle loro potenzialità, presentano una bassa autostima e uno scarsa capacità di autocontrollo. Creare momenti di benessere, di dialogo e di ascolto consente di abbassare questa tensione e di ridurre gli stati di rabbia che spesso si riscontrano in alcuni soggetti. Partire dalla consapevolezza di se stessi, del ruolo che occupa, del volersi bene per stare bene, del rispetto di sé e degli altri aiuta il bambino nella relazione coi pari e migliora pure l’atteggiamento di aggressività nei confronti dell’adulto. C’è da riferire pure che oggi alcuni bambini fanno fatica a rispettare le regole, presentano un turpiloquio abbastanza pittoresco e la figura dell’adulto non è considerata. La scuola deve rispondere anche in questo; io sono convinta che la scuola che accoglie, crea situazioni di benessere utilizzando per esempio la mindfulness (disciplina orientale che aiuta ad abbassare lo stato d’ansia, a liberarsi da qualsiasi pensiero o stanchezza) come sfondo può aiutare i bambini nelle relazioni sociali e insegnare loro a essere resilienti.

Responsabilità (Mattea Maggioni) Torna al Dizionario: Digitando la parola su Google: “Congruenza con un impegno assunto o con un comportamento, in quanto importa e sottintende l’accettazione di ogni conseguenza, specialmente dal punto di vista della sanzione morale e giuridica”. Ci troviamo dentro: la coerenza tra il dire e il fare, l’accettazione consapevole di un impegno/di un ruolo, l’interesse per quello di cui si diventa responsabili, il coinvolgimento della sfera morale prima ancora di quella giuridica (i valori prima ancora delle regole formali).
È la volontà di esserci, dentro il proprio ruolo e dentro il contesto di lavoro, a prescindere dal livello gerarchico. È avere una visione di quello che si fa, e di cui si deve essere chiamati a rispondere, più alta del semplice “operare attività in sequenza”, “replicare”, “eseguire”. È agire con piena efficacia il proprio lavoro, sul piano umano prima ancora che produttivo.

Responsabilità (Alessandra Aita) Torna al Dizionario: Responsabilità perché chi un lavoro lo svolge deve sentirne il carico e la soddisfazione di averlo svolto. Deve poter dire “io me ne sono occupato; se necessario vi spiego come l’ho realizzato. Se non ci sono non esitate a chiedermi”. Non esula dalla collaborazione, per me fondamentale, ma ne è tassello.

Ricchezza (Viviana Cibelli) Torna al Dizionario: La mia parola per il dizionario del #lavorobenfatto è «Ricchezza».Visto che siamo in tema di anno nuovo ognuno di noi pensa a come lo vorrebbe, ovviamente tutti lo vorrebbero più ricco dal punto di vista economico, riuscendo ad esempio a trovare un lavoro fisso o, per chi ancora studia, a ottenere una borsa di studio. Io, però, la parola Ricchezza non la vedo legata solo a questo ma anche ad altro. Per esempio a Capodanno io e il mio ragazzo usiamo accendere una candela che può essere rossa, se si cerca l’amore, o verde, se si vogliono soldi, alla fine abbiamo risolto con due candele una piccola e una a forma di albero di Natale. Ieri, a mezzanotte, pensandoci su, la mia candela a forma di albero non simboleggiava soltanto avere più ricchezza monetaria nell’anno nuovo, ma anche più ricchezza culturale, in fondo anche fare l’albero di Natale è comunque una forma di cultura, una tradizione, una ricchezza familiare, il simbolo di un amore ancora più profondo e grande. In definitiva la parola ricchezza non si riferisce solo al denaro ma anche alla famiglia, alla cultura, all’amicizia. Senza dimenticare che il verde non è solo il colore dei soldi ma anche della «Speranza» che è dura a morire.

Riflessività (Giuseppe Svampa) Torna al Dizionario: Riflessività è una parola che secondo me è fondamentale nel management. I credits per questo vanno al libro “The stupidity paradox” che cerca di dare una risposta alla domanda “perché le persone intelligenti finiscono per fare cose stupide?”.
Una ricetta per contrastare questa infelice (e dispersiva) tendenza è sviluppare e coltivare la “riflessività”. Dote fondamentale, accostabile ma non sinonimo di “pensiero critico”, è quella qualità che impedisce anche alle persone più dotate di uno o tutti i tipi di intelligenza (intelligenza cognitiva, intelligenza emozionale ed intelligenza pratica o esperienziale) di cadere nelle trappole del preconcetto, della risposta pronta, della fretta che, tra le altre, li portano a prendere decisioni sbagliate.
La riflessività è la capacità di attendere le informazioni e prendersi il tempo di valutare lo scenario, contando sull’intelligenza di cui si è dotati, e valutare in maniera asettica (unbiased) la situazione ed i corsi di azione conseguenti.
È una qualità che va rivolta anche al proprio interno, per capire la propria posizione nei confronti di una situazione e di una decisione, per poter affrontare entrambe in maniera coerente, evitando così i fallimenti di attività dovuti alla mancanza di fiducia o coinvolgimento nella decisione da parte dello stesso manager che decide di implementarla.
Le declinazioni della parola riflessività sono numerose e possono essere enunciate sicuramente in maniera più chiara ed articolata che nella presente, ma è una parola che per me è chiave e cardine del buon lavoro.

Rispetto (Andrea Salamino) Torna al Dizionario: Rispettare se stessi e ancor di più i propri Collaboratori. Rispettare i loro orari quanto i propri, il loro ruolo quanto il proprio, la loro identità, la professionalità, il loro contratto, la loro salute, la loro vita così come i propri. Strutturare e pianificare per mettere se stessi e gli altri nelle condizioni di poter lavorare bene e ancor di più di poter vivere bene oltre le quattro mura dell’ufficio. Imparare a dire Grazie, Bravo e Ottimo Lavoro, quando è necessario, ricordandosi che c’è sempre qualcos’altro, oltre lo stipendio, che ti fa arrivare a fine giornata. Redarguire, quando ci vuole, ma con educazione, tenendosi alla larga da sfuriate plateali o fucilazioni in pubblica piazza. Esigere Rispetto dai propri Clienti e Ricercarlo nei propri Progetti, tenendo sempre a mente che non siamo macchine, ma esseri umani.

Rivoluzione (Nando Casa) Torna al Dizionario: I tempi che stiamo percorrendo sono tra i più affascinanti e rivoluzionari che le nostre generazioni fortunatamente stanno conoscendo. In particolare il LAVORO è oggetto di un cambiamento epocale che cancellerà pressoché tutte le convenzioni che fino ad oggi hanno delineato le nostre convinzioni su un tema che influenza la nostra vita, i nostri sentimenti. Senza guardare troppo lontano, semplicemente tra pochi anni, forse nell’arco di soli cinque anni, dovrebbero mutare, se non sparire, il 70-80% dei lavori e delle professioni attuali. La rivoluzione digitale che pervade le nostre esistenze ormai si sta materializzando tanto velocemente che cambiamenti così profondi, se prima avvenivano nell’arco di un ventennio, ora si sviluppano molto più rapidamente. Ne vedremo delle belle! Naturalmente questo non ci fa paura, anzi, questa rivoluzione ci riserverà una nuova “ERA” dove tutti saremo più liberi. Si, innanzitutto liberi dalle moderne e antiche schiavitù riservate soprattutto a quelle sfere giovanili che ieri ed oggi hanno dovuto e devono ancora subire, attraverso il “favore di poter lavorare”, la “finanza selvaggia” che uccide gli imprenditori, le “economie dai consumi selvaggi” che usurano il pianeta e …non diciamo altro…! I nuovi lavori, le nuove professioni, il fervore di nuove idee e i laboratori di cooperazione e collaborazione tra individui demoliranno i tanti concetti desueti, come il “posto di lavoro”, condividendo un nuovo teorema di sviluppo. Questo renderà finalmente tutti liberi dai preconcetti dell’orario di lavoro, del lunedì o del sabato o della domenica, delle ferie ad agosto e di tutto ciò che veniva catalogato e delineato dai 14 ai 65 anni della nostra vita. Riconquisteremo finalmente la dignità che l’essere umano ha sempre perseguito attraverso le proprie capacità, abilità e predisposizioni manuali e intellettuali. Questi non sono solo concetti astratti, soprattutto quando ci avviciniamo quotidianamente al mondo della “RETE”, questa grande ragnatela che faceva così paura in passato, ma che oggi ti apre la mente con un’eruzione di nuove idee, di nuove proposte che ti costringono piacevolmente a un diverso pensiero, a un diverso approccio al prossimo. Finalmente “tutti imprenditori di noi stessi”, nel rispetto degli altri. Tutto questo però potrà accadere solo se le antiche abilità che contraddistinguono la nostra umanità rimarranno immutate, cosicché mia moglie Anna con la sua torta di crema, che le insegnò a fare sua madre, che a sua volta venne tramandata dalla madre di sua madre, potrà far deliziare una famiglia Sudafricana, mentre noi potremo gustare il Goji del Tibet, un frutto con tante virtù che viene coltivato in quelle terre lontane che ancora per poco sembreranno irraggiungibili.

Sacrificio (Irene Casa) Torna al Dizionario: Alla base di un #lavorobenfatto deve esserci sicuramente una forte predisposizione al sacrificio. Non esiste un’attività, un incarico o un impegno che possa svolgersi in modo responsabile e professionale senza la forza di scarificare tempo ed energie mentali e fisiche. La disposizione al sacrificio è uno dei valori alla base della mia vita, uno dei primi che mi è stato trasmesso, uno dei primi che ho potuto apprendere. Il sacrificio è una virtù, quella virtù che ho sempre ammirato in mio nonno. Uomo d’altri tempi: il lavoro e la famiglia al centro della sua vita e per tutta la vita. Un lavoro umile, ma davvero ben fatto, un lavoro duro ma sempre svolto con dedizione e passione. La dedizione, quella che lo ha sempre contraddistinto, che lo ha fatto amare e stimare da tutti. Un lavoro svolto sempre e per sempre nel rispetto del “padrone”, figura sempre omaggiata e onorata, nonostante la pesantezza di un’attività oggi quasi impraticabile. Un uomo che non ha mai conosciuto lamentele, ma che ha sempre lavorato consapevole del fine nobile che stava perseguendo. È da lui che per prima ho imparato a sacrificarmi in ogni nuova avventura che intraprendo durante il mio percorso, è da lui che ho imparato ad innalzare la mia “soglia del dolore”. E se oggi mi capita di raccogliere qualche frutto della mia semina lo devo anche a lui.

Scuola Torna al Dizionario: Come dice Colomba Punzo «l’innovazione non è quasi mai figlia dell’atto creativo di un momento, ma ha alle spalle una storia che la produce, che l’accompagna, che la consolida, che la diffonde.» Ecco, io aggiungerei solo che la scuola che mi piace è quella che fornisce ai ragazzi la cassetta degli attrezzi dalla quale di volta in volta ciascuno di loro tira fuori gli attrezzi che gli servono per risolvere i problemi che lo studio, il lavoro, la vita gli mettono davanti. 
Una scuola fatta di produttori e non solo di consumatori di contenuti. Una scuola di autori, di costruttori di reti, di futuri e di senso. Una scuola che insegna a pensare e a fare. Una scuola che aiuta i ragazzi a comprendere l’importanza di avere un proprio autonomo e critico punto di vista sulle cose, di saperlo confrontare con punti di vista diversi, di farlo valere nell’ambito dello spazio pubblico.

Semina (Rosaria Peluso) Torna al Dizionario: Io ho pensato alla parola Semina, al lavoro ben fatto visto come un campo pronto per la semina, un campo dove il seme affidato a dei bambini trova terreno fertile per crescere carico di fresche energie. Che poi ben coltivato il seme germoglia e dà vita a nuove piantine che in un futuro non troppo lontano daranno i loro frutti in un rigoglioso raccolto che a sua volta darà nuovi semi.

Senso Torna al Dizionario:
Fare bene le cose ha senso. Qualsiasi lavoro fatto bene ha senso. Ce lo racconta Nuto quando dice ad Anguilla che «l’ignorante non si conosce mica dalle cose che fa ma da come le fa». Ce lo racconta la scritta «Ciò che va quasi bene non va bene» appesa fuori alle vecchie botteghe artigiane di Sarno, in provincia di Salerno. Ce lo racconta Walter Isaacson nella biografia di Steve Jobs scrivendo del padre Paul che aveva insegnato al figlio che bisogna fare bene anche la parte di dietro delle staccionate, e quelle degli armadi, anche se non si vedono, anche se stanno appoggiate al muro. Ce lo racconta Mastro Antonio che a 94 anni se non scende nella sua falegnameria «muore». Ce lo racconta Primo Levi che giusto trenta anni fa – era il 26 novembre 1986 – nel corso di una intervista a Philip Roth pubblicata da La Stampa ricorda che persino ad Auschwitz il bisogno del lavoro ben fatto era talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il lavoro ben fatto come strumento per difendere la propria umanità anche nell’orrore, nell’incubo, questo ci dice Levi e a me sembra un messaggio di una forza, di una intensità e di un senso straordinario.

Servire (Piero Vigutto) Torna al Dizionario:
Servire nel mondo del lavoro ha due significati distinti:
1. Servire a: qualcuno. Al lavoro siamo tutti membri dello stesso team, essere a servizio degli altri membri, qualunque sia la posizione ricoperta ma in particolar modo è valido per i team leader, assume il significato di “agevolare” ovvero fare in modo che chi sta a valle del processo possa beneficiare del nostro impegno e del nostro lavoro. Questo presuppone l’ascolto delle altrui necessità;
2. Servire per: raggiungere uno scopo. Ogni team ha uno scopo condiviso, se non ce l’ha non è un team. Se i membri non lo condividono l’obiettivo non verrà mai raggiunto. Per fare questo serve lavoro di squadra, ovvero condivisione e comunicazione; servire in un team significa quindi ascoltare e comunicare.
In definitiva in questa accezione servire è un verbo nobile che mai deve essere considerato come il sinonimo di asservimento. Nel primo caso ha significato di “mettersi a disposizione di” e nel secondo di “essere utile a”.

Silenzio (Mattia Di Gennaro) Torna al Dizionario: Il silenzio può essere indispensabile per raccogliere al meglio le idee, immancabili per un lavoro, oltre che ben fatto, originale e geniale. Quando ci si isola dal mondo durante un compito, esso riesce meglio. Senza quei suoni che disturbano, che assordano, che portano il cervello a svolgere una parte della sua funzione a drizzare le orecchie volente o nolente. Solo con il silenzio ed in silenzio noi possiamo portare la nostra concentrazione al punto massimo. Un po’ come fa chi medita. Dunque, seppur non è all’apparenza uno dei principi fondamentali per un lavoro ben fatto, è sicuramente un fattore da non sottovalutare mai e di cui ognuno prima o poi si rende conto di aver bisogno.

Sinergia (Sandro Paladino) Torna al Dizionario: Penso che un lavoro fatto bene non possa fare a meno della sinergia intesa come cooperazione tra due o più persone, idee, forze che ha come scopo il raggiungimento di un obiettivo comune.

Soddisfazione (Erika Siciliano) Torna al Dizionario: “Quelli che scelgono di fare bene un lavoro che devono fare sono più sereni, vivono più soddisfatti e dormono meglio la notte”.
Il sostantivo “soddisfazione” nel dizionario italiano viene definito come uno stato d’animo di chi ha ottenuto un proposito agognato, un sollievo, un completamento in sé o per qualcuno o qualcosa. Una completezza momentanea o per amplio periodo di tempo, un’intesa, una serenità, una percezione di fierezza. La soddisfazione è uno status o sentimento importante e fondamentale. A mio parere serve all’uomo come riscatto dai continui fallimenti che ha nel corso della vita, per non cadere nel baratro; è quel “qualcosa” che spinge l’uomo a creare, fantasticare e impegnarsi.
È il salto di qualità che ci permette di riscattarci ogni volta che qualcuno dubita delle nostre capacità, dimostrando a testa alta che invece possiamo essere pronti a tutto. È il miglioramento della nostra vita, la completezza del nostro essere.

Sogno: Il mio sogno lo conoscete, è l’Italia del #lavorobenfatto. L’Italia fatta di città ben fatte. Di scuole ben fatte. Di classi dirigenti ben fatte. Come dite? E’ una parola? Beh, se fosse facile non sarebbe un sogno. Però lo sappiamo come funziona, «quando si sogna da soli è un sogno, quando si sogna in due ha inizio la realtà». Mi piace l’idea di ridurre lo spazio tra sogno e realtà ridefinendo l’essenziale, quello che viene prima e quello che viene dopo, l’ordine di priorità. È un po’ come con lo streben di Faust, solo con il segno più, perché noi vogliamo condividere e moltiplicare bellezza, uso civico delle tecnologie, lavoro ben fatto, innovazione. Mio padre diceva che una noce nel sacco non fa rumore, tante invece si. Aveva ragione. Bisogna essere in tanti per fare switch off. Per operare la svolta. Per mettere in moto processi di isomorfismo. Per far diventare il sogno una narrazione diffusa. Una cultura. Un approccio condiviso.

Sonno (Michele Kettmaier) Torna al Dizionario: Il sonno è importante, tanto che centri di ricerca di ministeri della difesa e di multinazionali da anni lo studiano cercando un modo per far diminuire il bisogno di sonno dell’uomo. I primi per avere soldati sempre attivi per più giorni consecutivi i secondi per aver un consumatore e un lavoratore attivo 24 ore al giorno. La privazione del sonno è anche una delle pratiche di tortura più usate. Insomma il sonno è molto importante anche se quasi sempre non ci facciamo mai caso. Mentre la società è sempre più costruita dal mondo finanziario, industriale e tecnologico per essere attivi 24 ore, 7 giorni su 7, una negazione dell’esistenza umana e della sua scansione naturale. E anche l’idea del lavoro diventa un impegno ininterrotto. Dormire ormai è un atto di resistenza sociale ma anche la resistenza fa fatica tanto che il sonno in media è passato dalle 10 ore di inizio del diciannovesimo secolo alle 6 attuali. Siamo costretti spesso a acquistarlo utilizzando chimiche e ipnotici vari. Per un #lavorobenfatto ricordiamoci del sonno.

Sorriso (Antonio Fresa) Torna al Dizionario: Scelgo una parola che potrebbe apparire tangenziale rispetto a quelle proposte. Seguendo però la suggestione della leggerezza, il sorriso, nel suo essere non immediatamente necessario a definire il #lavorobenfatto, apre possibilità tutte da esplorare. Il sorriso come complemento necessario alla soddisfazione di ciò che si è realizzato; come segno che un’altra persona è entrata nel nostro raggio d’azione; come uno spirito che si placa nella gioia del realizzare. Il sorriso perché la tua soddisfazione è la mia soddisfazione. Il sorriso per esaltare la componente etica che il lavoro determina. Questa lista si potrebbe allungare con molti altri esempi. Non sono così pigro da non capire le mille sfumature che la parola lavoro assume in queste pagine o le riflessioni che su essa sono state già prodotte. Mi piace però fare quest’aggiunta, che non ha carattere di analisi sociologica, politica o economica. Il sorriso, mi piace pensare e dire, non è l’esaltazione del servilismo o il frutto avvelenato della sopraffazione; il sorriso non ci parla della sottomissione e dello sfruttamento; il sorriso fugge via dalla violenza e dalla cattiveria. Il sorriso, nella solitudine del compiacimento o nella dimensione pubblica dell’incontro, ci parla della volontà di fare bene ciò che si fa, nella libertà dell’agire. Non leggetemi come un ingenuo: sono semplicemente affascinato da un dettaglio che può fare la differenza e indicare spazi e contesti. Nel mio lavoro di docente il sorriso è la moneta più preziosa. Il sorriso di un vecchio alunno che ha conservato qualcosa di te. Il sorriso di un alunno timido che si apre improvvisamente al tuo sorriso. Il sorriso per la gioia di aver capito. Il sorriso quando le parole che non venivano scorrono fuori come un fiume perché tu docente non hai ringhiato ma hai sorriso. Il sorriso perché c’è il sole fuori e siamo qui, tutti insieme, finalmente convinti che stiamo facendo qualcosa di utile per tutti noi. Il sorriso perché il tuo tempo passa, ma il tuo lavoro almeno un poco serve.

Standing Digitale (Claudia Campisi) Torna al Dizionario: l’immagine digitale con la quale ci si propone pubblicamente. Le foto dei profili social, la scelta dei contenuti che produciamo e condividiamo, come ci relazioniamo online. Ognuno ha il proprio standing, migliorabile, autentico e quanto più coerente possibile con quello che siamo nella vita off-line.

Struttura (Francesco Panzetti) Torna al Dizionario: Il lavoro può essere visto in tanti modi diversi: può essere una serie di attività da svolgere, un obiettivo da raggiungere attraverso una strategia, una serie di tecniche e di strumenti o, al contrario, di persone, bisogni ed intenzioni.
Ma può anche essere uno spazio, uno spazio che prima va costruito e dopo va abitato, ci si deve stare dentro. Nel pensare a questa sua possibile dimensione non immagino tanto l’opera di un architetto nel senso moderno del termine, ma piuttosto il lavoro incessante di un contadino o di un artigiano che costruisce da sé la propria dimora ma poi, abitandola, continuerà a modificarla per tutta la vita, ora aggiungendo un corpo di fabbrica od un piano, ora abbattendo un muro o aprendo una porta dove prima non c’era. Immagino, insomma, uno spazio vivo in coevoluzione continua con chi ne è stato artefice e primo fruitore.
Però di questo contenitore a me interessa più precisamente l’ossatura, perché senza struttura nessuna costruzione si regge in piedi. Che siano archi, muri pieni o pilastri in cemento armato, la struttura definisce ad un tempo i vincoli, e indica dov’è possibile operare liberamente. Ogni struttura (a partire dal nostro apparato scheletrico) svolge queste due funzioni, e anche se è rigida nel materiale, non lo è nella funzione.
Quando approcciamo ad un nuovo progetto, prima o poi pensiamo a questo aspetto del lavoro: o che lo lasciamo emergere dall’azione, o che lo stabiliamo prima, non fa molta differenza, perché tanto – proprio come il contadino che si costruisce la casa e la stalla – ci dovremo abitare dentro e, abitandoci, cresceremo insieme agli spazi che abbiamo creato.
La struttura fissa delle regole importanti: fai prima le fondamenta, poi progetti le parti portanti, quindi appoggi su di esse il carico di pareti e solai, infine pensi agli interni; ma per definire le mura perimetrali o la posizione dei pilastri, degli interni devi esserti fatto già un’idea, anche se alla fine della costruzione, probabilmente, saranno cambiati sia gli uni che gli altri.
La struttura del lavoro — di qualsiasi lavoro — non è una prigione ma, piuttosto, è una guida che ci indica una serie di strade possibili, di condizioni al contorno entro le quali muoverci. Non è semplicemente il metodo: è qualcosa di più, è la forma intima e nascosta che permette al lavoro stesso di essere bello, per il semplice fatto che, se non avesse ossatura, sarebbe informe. I concetti e i processi diventano superfici che delimitano spazi, e questi ultimi si concatenano fra di loro; ci si può navigare letteralmente dentro, come in un rendering 3D.
La metafora mi permette di giocare con le immagini, che sono rappresentazioni molto più semplici da manipolare rispetto ai concetti astratti in luogo dei quali stanno. Ora sono qui: quante porte ho attorno a me? Dove mi possono portare? E soprattutto: se mi alzo a volo d’uccello, che forma ha l’edificio che sto costruendo, in cui sto abitando?
Penso spesso a Filippo Brunelleschi mentre innalzava la cupola di Santa Maria del Fiore: lo immagino portarsi a cinquanta, sessanta, settanta metri d’altezza per osservare la muratura da vicino e poi scendere e guardare le vele di mattoni nel contesto della chiesa, e poi ancora uscire di corsa e fare il giro per osservare l’insieme da lontano e vedere che effetto faceva.
La struttura definiva ai suoi occhi la forma, ma che idea chiara della forma doveva avere, Filippo, per concepire una struttura tanto raffinata!
Nessuno di noi è Brunelleschi, ma per fare le cose per bene bisogna che noi siamo lui e che ciò a cui lavoriamo sia la nostra cupola, la nostra architettura. Dobbiamo dimorare in ciò che stiamo creando in modo da pregustarlo e, in ultima analisi, realizzarlo meglio. Il bravo ebanista, fin dal primo momento del lavoro, tiene fisso nella mente il risultato finale; il rigorista, ancor prima di prendere la rincorsa, elegge un punto nella porta, e la palla per lui è già là. La vede, ci crede e la insegue.
Ecco, il culto, l’amore per la struttura del lavoro è un amore più profondo (perché non esiste mica solo il risultato) e ci chiede di essere tutti non solo il Brunelleschi che non si dà pace nel suo cantiere, ma anche quel rigorista lì, con la palla ancora sul dischetto e, contemporaneamente, già in rete.

Successo (Gennaro Cibelli) Torna al Dizionario: Per chi fa il mio mestiere quello che fa la differenza tra successo e disfatta è la conoscenza che il cliente ha della tua bottega. Quella del parrucchiere non è una battaglia di prodotti e prezzi, è piuttosto un conflitto di percezioni, perché è proprio su queste percezioni che si sviluppa il tuo successo. Se ti posizioni nella mente del tuo probabile cliente come qualcosa di unico e totalmente indispensabile per le sue esigenze allora hai fatto tombola. In questo caso avrai eliminato ogni forma di concorrenza, grande o piccola che sia. Per il tuo cliente sarai un punto di riferimento ben preciso per un esigenza ben precisa. E questo indica successo.

Tempo (Serena Petrone) Torna al Dizionario: Il tempo secondo me è fondamentale per ottenere un lavoro ben fatto. Il tempo è necessario per capire, per iniziare, per prendersi una pausa o per tornare indietro e ricominciare un lavoro da capo.
Esso può essere più o meno lungo, si differenzia di persona in persona ma è importante capire che il tempo che ci lasciano per imparare, quello, farà di noi delle persone pratiche e veloci.
Un architetto ha bisogno di tempo per “realizzare” un ponte ben fatto, così come chi lo costruisce. Un poeta ha bisogno di tempo per incontrare l’ispirazione giusta che gli consentirà di dar voce ad un canto ben fatto.
È un po’ come parcheggiare tra due auto: all’inizio uno ha bisogno di tempo ma se dietro ha il frettoloso che si attacca al clacson, imprecando, il parcheggio non verrà mai perfetto.

Tenacia (Veronica Testa) Torna al Dizionario: Non si ottiene un lavoro ben fatto senza una massiccia dose di tenacia. In proposito mi viene in mente un cammino di tre giorni e di oltre 100 km a piedi a cui partecipai nel 2007. Il terzo giorno, di fronte all’ultimo percorso da fare prima dell’arrivo, ero talmente sfinita che, guardando quell’ immensa salita piena di fossi e fango, pensai di non farcela, di fermarmi lì, e di fare quell’ultimo pezzo di cammino salendo sul furgone che ci seguiva a distanza, pronto per ogni evenienza. Un mio amico, uno degli organizzatori, mi disse: lo vuoi sapere il segreto per salire lassù? Non guardare mai in alto. Guarda in basso, osserva quello che stai facendo, guarda dove metti i piedi, cammina nel miglior modo possibile, vai sempre avanti e non voltarti. Insisti quando non ce la fai, ma non guardare nemmeno per sbaglio lassù, dove devi arrivare. Vedrai che ci arrivi prima del previsto. E così fu! Allora Tenacia è guardare insistentemente quello che si sta facendo, concentrarsi sul come lo si fa, senza distogliere lo sguardo, senza lasciarsi distrarre dalle difficoltà o da facili soluzioni, andare dritti verso quell’obiettivo a dispetto di tutto, ma senza guardare troppo quel risultato che si vuole ottenerne, che può sembrarci irraggiungibile, perché solo così lo si ottiene come si deve. E qui mi viene in mente un altro tipo di tenacia, quella di cui parla Hermann Hesse nel libro “il coraggio di ogni giorno”. Ci parla di virtù, di obbedienza, e per lui la “tenacia” è obbedienza, ma non a leggi imposte da uomini, bensì alla legge che ognuno ha in se, diversa in ognuno, che è quella della coerenza interiore. Ci dice che “ogni cosa sulla terra, non una esclusa, è coerente con se stessa. Non c’è pietra, filo d’erba, fiore, arbusto, animale, che non cresca, viva, agisca e senta in coerenza con se stesso, e a questo si deve se il mondo è buono, ricco e bello, a questo si deve se ci sono fiori e frutti, querce e betulle, cavalli e polli, zinco e ferro, oro e carbone: tutte cose che esistono unicamente per il fatto che fin la più piccola particella dell’universo è coerente con se stessa, ha in se stessa la propria legge, a essa obbedisce con assoluta sicurezza ed esattezza. Al mondo ci sono soltanto due poveri, dannati esseri, ai quali non è concesso di seguire quest’eterna esortazione e di essere, crescere, vivere e morire come loro è imposto dalla coerenza in esso innata: soltanto l’uomo e l’animale domestico da lui domato sono condannati a obbedire non alla voce della vita e della crescita, bensì a questa o a quella legge formulata da uomini e che di tanto in tanto da uomini viene infranta e mutata”. Hesse ci dice che per essere coerenti con se stessi bisogna avere coraggio e tenacia, e “solo se la maggioranza dell’umanità fosse dotata di altrettanto coraggio, di altrettanta tenacia, la terra avrebbe tutt’altro volto”. In effetti non è poi così impossibile. Basta guardare e prendere ispirazione, nonché esempio, da chi fa quello che deve fare e basta, da chi asseconda la propria predisposizione e la propria indole, con tenacia. E agire di conseguenza. Nella vita come nel lavoro.

Umanità (Matteo Bellegoni) Torna al Dizionario: “L’unità è il tesoro della diversità umana, la diversità è il tesoro dell’unità umana”. Edgar Morin
L’umanità è dentro di noi e noi siamo immersi nell’umanità.
È la nostra condizione umana che determina la nostra umanità, ma è il nostro sguardo, il nostro punto di osservazione, che può cogliere ciò che da un primo punto di vista può apparire statico e univoco.
Innanzitutto la nostra umanità è qui e ora, ma se ampliamo il nostro punto di osservazione, se guardiamo all’evoluzione della storia umana, ci accorgiamo che ciò che è qui e ora è al contempo frutto di un’evoluzione millenaria che lega indissolubilmente ogni umano.
Lo stesso potremmo dire, usando una metafora, per quanto concerne l’osservazione del presente : se guardiamo un bosco dall’alto esso ci apparirà come un’unica e indistinta entità, e in effetti da un certo punto di vista esso lo è, tuttavia, man mano che ci avviciniamo possiamo cogliere la diversità che c’è tra un albero e un altro e pertanto constatare che ogni pianta è un’entità a se stante.
A questo punto viene da chiedersi se l’umanità sia il tutto o il particolare, se nel contesto della storia sia evoluzione individuale o collettiva.
La risposta sta nella frase iniziale di Edgar Morin, siamo umani, siamo individui, immersi nel tutto, nell’evoluzione della storia, individuale e collettiva, e pertanto possiamo affermare che l’umanità è il nostro tesoro, ciò che ci rende unici e al contempo uguali.
Colgo l’occasione per invitare a leggere e, se lo condividete, a firmare, il Manifesto dell’Umanità Consapevole, inviando una mail a m.bellegoni84@gmail.com.

Umiltà (Claudia Campisi) Torna al Dizionario: Umiltà, un tatuaggio invisibile sull’habitus professionale, un biglietto da visita che fa la differenza. Una dimensione relazionale potenzialmente fertile e foriera di scambi costruttivi; un campo dinamico in cui è possibile agire un confronto generazionale.Per l’umiltà non c’è età, non c’è seniority, non c’è ruolo gerarchico e/o sociale, non c’è RAL.
L’umiltà è un valore e come tale può essere insegnato, mostrato con l’esempio, condiviso, custodito in quanto bene prezioso alla stregua di un tesoro.
Una soft skill che affonda le radici nella dimensione più personale della storia e dell’identità di un soggetto ma che prende forma nella relazione e nel confronto con l’Altro. Il Fattore U può rappresentare un punto di partenza per alcuni, un punto di arrivo per altri. Ancora un tabù in molte aziende, forse anche un po’ “vintage” per alcuni, ma indubbiamente un’area di miglioramento da sviluppare e su cui poter lavorare individualmente e come team.

Valori (Silvia De Felice) Torna al Dizionario: Non esiste lavoro ben fatto se non rispetta i valori che ci portiamo dentro. In questo senso i giudici ultimi del lavoro ben fatto siamo noi che lo facciamo. Ciascuno ha la sua scala di valori, la sua personale etica, che si attiva nel momento in cui le leggi, le regole della professione e dell’azienda, i valori del gruppo, lasciano ancora un margine di libertà: in quel momento decidiamo secondo i nostri valori. È un margine estremamente piccolo, o infinitamente grande, e c’è in ogni decisione. Raggiungimento dell’obiettivo, crescita personale, rispetto e valorizzazione degli altri; in che ordine mettiamo queste cose quando dobbiamo necessariamente dare una scala di priorità?
Mi viene in mente un esempio un po’ estremo, ma ben chiaro, preso in prestito dal mestiere del fotoreporter. Quanti fotografi sono stati criticati per aver fotografato situazioni pericolose invece di intervenire?
Novembre 2017, alcuni fotografi si trovano sul fiume Naf, al confine fra Myanmar e Bangladesh, un pericolosissimo guado per migliaia di profughi Rohingya in fuga dalle persecuzioni birmane. Una donna cerca di risalire un argine, ma sta per essere risucchiata dalla calca e dal fango, ma scivola e … la mano di un fotografo si allunga per aiutarla, quella di un altro invece è occupata a scattare la foto. Una foto che aprirà gli occhi del mondo su una tragedia fino ad allora poco conosciuta.
Chi ha fatto la scelta giusta? Qui c’è la storia completa, perché i dettagli aiutano a bilanciare il peso del nostro giudizio.
Non è il primo caso, sono tante le storie in cui un fotografo ha scelto l’una o l’altra strada, e non è così facile stabilire chi ha fatto la cosa giusta: chi salva una vita che si trova in pericolo davanti ai suoi occhi, o chi documenta il pericolo e lo fa conoscere al mondo perché si intervenga per salvare molte (ma altre) vite?
Susan Sontag, teorica della fotografia, disse “Fotografare è essenzialmente un atto di non intervento. Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire”. Ma solo nell’istante esatto in cui il fotografo si trova davanti ad una scelta, e vede da un lato le regole del suo mestiere e dall’altro le regole del suo cuore, decide quale strada prendere, secondo la sua personale scala di valori. Lui e nessun’altro. Lui in quell’istante decide cos’è un lavoro ben fatto.
Sono stata troppo estrema? Eppure riflettiamoci, non capita a tutti il momento di fare delle scelte simili, proporzionate al lavoro che facciamo? Non ci capita persino tutti i giorni? Non ci capita forse in ogni singola occasione di scelta?

Volere (Laura Massaro) Torna al Dizionario: Si vorrebbero tante cose nella vita, un lavoro, una famiglia, del denaro, un’opportunità, un cane. Ma in che modo si possono ottenere queste cose? In che modo si può giungere ad un lavoro ben fatto ed esserne orgogliosi? Volere vuol dire desiderare qualcosa,che può essere più o meno importante. Secondo me per ottenere quel qualcosa bisogna impegnarsi,esserne consapevoli, ed essere pronti a cadere per rialzarsi più forti di prima. «Volere è potere» perché se si vuole davvero conquistare la meta non c’è nulla che possa impedirci di farlo. Così come afferma il cappellaio matto nel film Alice in wonderland «una cosa è impossibile solo se pensi che lo sia». Dove c’è volere, c’è impegno, determinazione, pazienza, sacrificio, nel lavoro come nella vita. Nulla viene regalato e tutto va conquistato, quindi andiamo a prenderci ciò che vogliamo!
luca80