Il primo tentativo direi che è andato bene, anzi benone. Mi riferisco alla discussione sul rapporto tra lavoro e futuro, che poi abbiamo chiamato il lavoro che cambia e non finisce. Ricordate? All’inizio ho postato il tema con le sedici parole connesse con le quali l’avevo declinato al Congresso Nazionale di Futurologia 2014 organizzato a Città della Scienza da Italian Institute for the Future (IIF). Poi vi ho chiesto di intervenire, e ne è venuta fuori una gran bella discussione alla quale verso la fine sono intervenuto raccontando il mio punto di vista. Ecco, direi che il tutto mi è piaciuto così tanto che vi propongo di rifarlo, discutendo questa volta di vita, lavoro e tempo.
Come dite? Da dove partiamo? Direi da tre domande contraddittorie e connesse, due asserti discutibili, sette congiunzioni (im)possibili e tre citazioni. Naturalmente anche questa volta potete: affrontare il tema in tutto o in parte; considerare una o più domande, asserti, congiunzioni, citazioni; proporre ulteriori domande, asserti, congiunzioni, citazioni.
Come dite? Volete sapere io come la penso? Dopo di voi, come abbiamo fatto l’altra volta, che come vi ho detto ha funzionato proprio bene. Buona partecipazione.
Le tre domande contraddittorie e connesse
i. Una vita senza giustizia e diritti per tutti, a partire da coloro che senza averne colpa sono vittime della lotteria sociale, fino a che punto può essere considerata pienamente degna di essere vissuta?
ii. Una vita senza lavoro – non solo nei casi in cui una persona il lavoro non ce l’ha ma anche in quelli in cui non ha bisogno di lavorare ad esempio perché è ricca -, fino a che punto può essere considerata pienamente degna di essere vissuta?
iii. Una vita senza tempo – per se stessi, per la propria famiglia e i propri amici, per le proprie passioni, per i propri desideri e sogni -, fino a che punto può essere considerata pienamente degna di essere vissuta?
I due asserti discutibili
i. Fare bene le cose è bello. E’ razionale. Conviene. Ha senso.
Vale qualunque cosa fai: se giochi, se studi, se lavori, se fai sport, se pensi, se ti riposi, se fai una passeggiata, se dai un bacio alla persona che ami.
ii. La bellezza, l’utilità, il valore e il senso delle cose ben fatte è facile da spiegare e da capire. In qualunque circostanza e a qualunque età.
Le sette congiunzioni (im)possibili
i. Il tempo come kronos e il tempo come kairos.
ii. Il tempo come lavoro e il tempo come vita
iii. Il lavoro come valore, come rispetto di sé e degli altri, come senso e il lavoro come mezzo, come strumento, come fonte di sostentamento.
iv. il lavoro come fare e il lavoro come pensare.
v. il tempo come produzione e il tempo come consumo
vi. Il lavoro come creazione e il lavoro come esecuzione
vii. Il lavoro come attività degli uomini e il lavoro come attività delle macchine.
Le tre citazioni finali
«L’origine dell’esistenza etica è la faccia dell’altro, con la sua richiesta di risposta; l’altro diventa il mio prossimo precisamente attraverso il modo in cui la sua faccia mi chiama.» Emmanuel Levinas
«L’ignorante non si conosce mica dal lavoro ce fa, ma da come lo fa.» Cesare Pavese
«Chi ha tempo? Ma se non ce lo prendiamo mai, il tempo, quando mai lo avremo, il tempo?» Il Merovingio, in The Matrix Reloaded, di Andy e Larry Wachowski
QUESTO LO AVETE DETTO VOI
Osvaldo Cammarota
Caro Vincenzo, questa volta ci spingi alla ricerca di una vita degna di essere vissuta nelle connessioni da creare tra giustizia e diritti, lavoro e tempo. Potrei chiosare dicendo che è sufficiente concepire la giustizia e i diritti come un orizzonte dinamico verso cui navigare, sempre; il lavoro come “luogo” di creatività e di emancipazione sociale; il tempo come risorsa da non sprecare. Potrei raccontarti come, nel mio lavorare atipico, il solo intreccio di questi concetti mi dà la piacevole sensazione di non vivere una vita “indegna”. Ma l’ho già fatto, in un racconto che hai qui ospitato qualche mese fa.
Non voglio far perdere tempo, nè a te e né ai lettori che volessero proseguire. C’è da approfondire le cause che, di fatto, impediscono lo sviluppo di queste (e tante altre) connessioni virtuose che potrebbero aiutare a vivere più degnamente. Lo fa bene Francesco Escalona con un contributo che condivido totalmente, al quale rinvio e raccomando di leggere, perché a quelle riflessioni si agganciano le poche che aggiungo. Quel che ho capito è che “sopra di noi” non c’è un “cielo stellato”, ma un potere anonimo e invisibile, un perverso meccanismo, una cappa di piombo che gli umani stessi hanno creato e che immiserisce la nostra vita. Beninteso, non intendo qui il cielo stellato di E. Kant, … intendo quell’insieme di regole, valori e principi condivisi che dovrebbero formare una Comunità, fare uno Stato e una Società.
Cosa alimenta questo genocidio delle coscienze? Come fermare questa “macchina trita-umanità”? Non essendoci un “cielo stellato sopra di noi”, la “legge morale” dentro di noi è tirata di qua e di là da fattori e bisogni contingenti, è sempre più esposta a compromessi mortificanti. ‘A necessità rompe ‘a legge ci ricorda un vecchio detto popolare. Ciascuno chiude un occhio sulla giustizia e i diritti pur di sopravvivere … Ciascuno accetta di lavorare in schiavitù, sempre per sopravvivere … Ciascuno si affanna nei ritmi del tempo che passa e non vive tempo che viene ….
Questi comportamenti, considerati nella solitudine di ciascuno, umanamente si possono comprendere, ma nella loro combinazione, uccidono quell’umanesimo di cui tutti ci sentiamo orfani. Anche in questo siamo vittime di noi stessi, ma in questo caso siamo un po’ colpevoli. Nel momento in cui il cielo stellato è caduto a pezzi, si sono anche dilatati gli spazi di libertà individuale, abbiamo maggiore libertà. È vero che il potere sopra di noi continua ad infilarci nella “macchina trita-umanità”, ma che ne è del potere dentro di noi, di ciascuno di noi? Forse siamo vittime di un “noi” che non c’è più. Forse è tempo che ciascuno riparta da sé stesso, per ricostruire una nuova dimensione collettiva di un “noi” che abbia senso, una nuova comunità in cui valga la pena riconoscersi e lottare per vivere più degnamente.
Lo stimolo a ragionare sul nesso giustizia-diritti-lavoro-tempo, a ben guardare, contribuisce a rafforzare le motivazioni della comunità del #lavorobenfatto, a ricostruire in ciascuno di noi “l’unitarietà smarrita” tra testa, mani e cuore. È la precondizione per riconoscersi in un insieme, per non farsi vincere dalla solitudine assassina.
Caro Vincenzo, forse ho detto cose che già si sanno, ma comunque ti sono grato, rifletterci sopra è servito a me per capirle meglio. Se ti ho fatto perdere tempo … scusa le chiacchiere. A te e agli eventuali lettori buon tempo a venire!
Francesco Escalona
[…] La parola chiave per me è “umanesimo”. Abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo per vincere la guerra tra noi e noi stessi, per il governo delle macchine. Per farlo dobbiamo diventare innanzitutto più consapevoli, dobbiamo renderci conto di ciò che sta realmente accadendo. Ad esempio che stiamo perdendo il rapporto diretto e leggibile tra noi e il nostro lavoro, tra noi e il frutto visibile, percepibile del nostro lavoro, quello che ci permette di dire «è un lavoro ben fatto, è il mio lavoro, è la ragione per cui vivo e la mia presenza su questa terra ha senso». Si, direi che stiamo perdendo il rapporto diretto e leggibile tra noi e la vita.
Io penso che dovremo rinunciare a qualcosa per riprendere il governo del tempo e delle macchine. Non sarà facile, ma forse se cominciamo a capire e a trasmettere ciò che sta accadendo, ci riusciamo. Come? Ad esempio uscendo più spesso dalla città, dal tempo frenetico delle macchine. Almeno periodicamente dobbiamo saper attraversare degli stargate e andare a Trevico e ad Aliano, per esempio. Nelle aree vuote, buie e silenziose dell’Italia interna. O nei Simposi, dove il tempo rallenta e le macchine sono escluse in ogni forma (magari useremo le clessidre e dipingeremo con gli sketcher le immagini ricordo). O anche facendo parte delle Case della Paesologia.
Si, direi che dobbiamo uscire dal tempo inumano della macchine, che dobbiamo imparare a usarle e a non farci usare, a non entrare con loro in risonanza, a mantenere le distanze.
La stessa conservazione della filosofia e della pratica del #lavorobenfatto può essere secondo me ripristinata in pieno solo se e quando sarà ripristinato il corretto rapporto tra l’uomo e la macchina, quando come ho detto sapremo governarle, utilizzandole al meglio senza entrare in competizione con la loro velocità, la loro asetticità, la loro perfezione.
Caro Vincenzo, noi siamo lenti, contaminabili e imperfetti. Siamo umani. Siamo iM’perfect.
Leggi tutto l’intervento di Francesco Escalona
Raffaele Di Lorenzo
Caro Vincenzo, le tue tre domande contraddittore hanno generato in me una ulteriore domanda: Che contributo posso dare alla comunità cui appartengo e con che grado essa mi permette di partecipare alla sua vita? Non importa se la comunità è un piccolo borgo rurale dell’Appennino o una comunità virtuale con estensione planetaria. Il mio lavoro ha senso se condiviso, il mio lavoro ha senso se fatto bene, il mio lavoro ha senso se posso godere del tempo libero da dedicare alla mia famiglia, alle mie passioni, alle riflessioni, alle scoperte.
Se è però la comunità che non mi consente di partecipare a essa, o meglio, se le mie strade del voler partecipare non incontrano le strade delle opportunità concrete, io divento l’ennesimo out-layer tra gli out-layer, cartina di tornasole di una comunità che si deprime. Il ricco o il povero senza un lavoro da realizzare cadono semplicemente in una solitudine non cercata che svuota il fuori e il dentro e, si sa, una bella comunità è fatta da persone che siano connesse. Lavorare è un gesto sociale e un esercizio tonico per il cuore e la mente. Sentirsi nel meccanismo, quel meccanismo tutto umano che riguarda i lavori svolti nella comunità di persone tutte diverse, accresce il senso di identità. In un bel racconto del giornalista Osvaldo Soriano (la raccolta si chiama “Pensare con i piedi”), suo padre, rassegnato antiperonista dell’argentina delle immense province, che sopravviveva alla vita (nelle mani dei potenti), guardando suo figli disse: «Andiamo a smontare la macchina. Dopo, quando la rimontiamo, non ci deve avanzare nemmeno una guarnizione, è così che si impara». Poi Soriano continua: «vivevamo in trance, convinti che un diplomato all’Otto Krause e un futuro coscritto della Patria non potevano lasciarsi sconfiggere dalle astuzie di un ingegnere francese. […] alla fine sul pavimento brillava, tonda e solitaria, un’inquietante rondella di bronzo, ma la macchina partì ugualmente al primo giro di chiave.» Probabilmente, in quell’affannosa e disperata ricostruzione della Renault Gordini, i due avevano ricostruito un po’, dico solo un po’, la propria identità, dentro e fuori il loro rapporto di padre e figlio.
Nel racconto, quella rondella “mancante” si rivelò fatale (eccomi a ragionare sugli asserti proposti). Già, il lavoro-ben-fatto e tutte le sue declinazioni proprie e improprie. Se il lavoro è un gesto sociale, il lavoro ben fatto è un gesto sociale empatico, che considera l’altro come uguale a me e per questo valorizza l’altro come valorizza me. Ho fatto l’artigiano per dieci bellissimi anni. Ricordo che, studente di sociologia, mi buttai in un’avventura tutta nuova nel campo dell’abbigliamento, della decorazione di tessuti per conto terzi. A volte facevo come il papà di Soriano, altre volte mi concentravo al massimo cercando la “perfezione”. Il momento più bello era quello che avevo costruito con un lavoro lento e intenso di ricerca e precisione, che si realizzava nel momento in cui valorizzavo il lavoro del mio cliente, valorizzando il mio, valorizzando l’acquisto del consumatore ultimo. Oggi sono prossimo alla laurea in Psicologia presso l’Università di Parma. Tante domande vecchie e nuove sul nuovo lavoro che impegnerà una parte della mia vita. Qualche risposta mi viene pure in mente di tanto in tanto: continuità, attenzione, passione e, ancora una volta, relazione. E’ in questa dimensione che si può fare bene per gli altri e per se stessi. Me ne accorgo quando, nell’ambito di campagne per il benessere psico-fisico svolte in alcune scuole di Parma, riesco (e non sempre accade) a partecipare con gli studenti in modo che ognuno abbia la sua caratteristica parte. Lì qualcosa resta, è una piccola cosa ma che per me ha un grande valore!
Tiziano Arrigoni
Il punto i mi ha ricordato subito don Lorenzo Milani, lui ricco borghese fiorentino che divenuto prete sceglie il paesino di Barbiana perché è li, sull’Appennino magro, che si concentra il lato sbagliato della lotteria sociale, quella di cui parla in “Lettera ad una professoressa”. Che dire: allora si comprendeva come la Costituzione repubblicana non fosse applicata, come la scuola non creasse quelle opportunità di partenza per tutti, che l’ascensore sociale fosse guasto al pianoterra. In fondo diceva un piccolo allievo contadino di don Lorenzo “la scuola è meglio della merda della stalla!”. Oggi sembra che l’ascensore viaggi, in realtà basta guardare quale sia l’utenza degli studenti di un qualsiasi professionale confrontato con un qualsiasi liceo per capire che l’ascensore sia arrivato si e no al piano rialzato. E questo è valido sia per moltissimi italiani sia per i nuovi poveri, gli immigrati, e si ripercuote anche sul lavoro. La lotteria sociale è sempre viva e vegeta e si ha spesso l’impressione che l’abbiano vinta “loro”.
Il punto ii mi ricorda il paese delle Api Industriose delle avventure di Pinocchio, tutti lavorano e devono lavorare. Certo non lavorare perché si è ricco, perché si vive di rendita, è piuttosto diverso che essere disoccupato. Nel primo caso è scelta, nel secondo è costrizione, limitazione. Però, però, dobbiamo iniziare a fare una netta distinzione fra lavoro e occupazione. Oggi con i vari job act si fa troppa confusione: avere una qualsiasi occupazione per sopravvivere non è avere un lavoro perché quello che ha in più il lavoro è la dignità dell’agire e del vivere in società, l’occupazione pura e semplice è sopravvivenza, manca la realizzazione di se. E allora il paese delle Api Industriose perde completamente di valore, resta il paese del “vendo, compro, vedo gente”, dell’agire nel proprio guscio individuale per sopravvivere. E allora tanto vale vivere di rendita, chi ha la fortuna di poterlo fare.
Dunia Pepe
Ciao Vincenzo, raccolgo il tuo invito a riflettere sui concetti di vita, lavoro, tempo, ecc. a partire dalle frasi, dagli asserti, dalle congiunzioni che tu stesso ci proponi facendo riferimento, ancora una volta, alle indagini che sto svolgendo insieme alla collega Piera Casentini, come ricercatrice Isfol, sul tema «Innovazione, inclusione sociale e transizioni verso il lavoro».
Vorrei proporre qualche riflessione su Porta Futuro, una struttura innovativa di orientamento, formazione e servizi per il lavoro avviata dalla Provincia di Roma nel luglio 2011, e volta a contrastare la disoccupazione, in particolare quella giovanile. La storia e la mission di Porta Futuro sono fortemente legate ai temi ed alle parole che tu ci inviti a considerare. Già il nome della Struttura è fortemente evocativo. Porta Futuro è una metafora augurale, una porta aperta sul futuro, sul futuro dei giovani, sul tempo della loro vita fortemente esposta ai rischi della precarizzazione, dell’inattività e della rinuncia, come accade per i NEET. Ma Porta Futuro offre i suoi servizi anche agli adulti che vivono l’era delle transizioni complesse ed il cui ricco patrimonio di competenze, piuttosto che essere valutato, messo in circolo e reinvestito in funzione della crescita, sempre più spesso, viene relegato in una condizione di stagnazione.
Porta Futuro si pone dunque l’obiettivo di facilitare l’introduzione al lavoro delle fasce più sensibili della popolazione: giovani e adulti disoccupati, disabili, migranti, occupati che vogliono cambiare lavoro affinché il tempo della loro vita possa acquistare o recuperare senso e valore. Porta Futuro ha aperto le sue porte nel cuore di Roma, non casualmente in un quartiere storico della città, Testaccio, frequentato soprattutto da giovani in un momento di grave crisi economica ed occupazionale, proponendo azioni di informazione, orientamento, formazione.
La particolarità della Struttura è proprio legata al fatto che essa, unica in Italia, coniuga formazione e orientamento, ricerca del lavoro dipendente e promozione dell’auto-imprenditorialità, attenzione alla persona e digitalizzazione dei processi, analisi del territorio e delle aziende. Ispirata al Centro “Porta 22”, attivo a Barcellona dal 2003, Porta Futuro agisce in una prospettiva innovativa nella misura in cui tenta di affrontare il problema dell’accesso al lavoro in una prospettiva sistemica, intervenendo sulle diverse variabili di natura socio-economica che ruotano intorno a questo problema.
“Entrare in Porta Futuro non significa entrare semplicemente in un luogo fisico, ma in un percorso che offre al cittadino molti servizi diversi tra loro eppure fortemente integrati. Il personale della struttura chiarisce da subito all’utente che non usufruirà di specifici pacchetti di servizi ma di un sistema integrato e dinamico di attività. Si può entrare a Porta Futuro per fare un colloquio di orientamento e poi essere indirizzati verso un percorso di formazione”. La natura integrata e dinamica dei servizi offerti è evidente già nella fase di accoglienza nella struttura e prosegue nella fase di orientamento che è un processo vero e proprio di analisi dei fabbisogni e di ricognizione delle potenzialità e delle aspettative dell’utente.
Porta Futuro comprende al suo interno un centro per l’impiego, che rende possibile l’iscrizione alle liste di disoccupazione e l’attivazione di stage e contratti di lavoro. Gli altri servizi offerti da Porta Futuro sono bilanci di competenze, sessioni di orientamento individuale e di gruppo, seminari e momenti di incontro tra aziende che intendono assumere e persone in cerca di lavoro. Alcune risorse si occupano specificamente di autoimprenditorialità, offrendo la valutazione dei progetti di start-up e la consulenza per la stesura di business plan. Porta Futuro è dotata infine di un software molto avanzato in grado di unificare i database del mercato del lavoro di tutto il territorio, favorendo il matching tra domanda e offerta e di tracciare, per il cittadino, il profilo professionale più adatto alla proprie caratteristiche.
Andrea Grosselli
Caro Vincenzo, un tempo si diceva che c’è un tempo per studiare, un tempo per lavorare ed un tempo per fare il pensionato. Guardando al futuro sarà sempre meno così. Per fortuna. Sì per fortuna. Ragazzi sui libri che di tanto in tanto tra volontariato ed un lavoretto, magari online, una capatina fuori dalle aule, nel mondo del lavoro, la faranno sempre di più. Impiegati ed operai che si rimetteranno davanti al monitor di un pc o in un laboratorio ad imparare un nuovo mestiere o a migliorare i propri saperi. Arzilli pensionati settantenni che si daranno le mani d’attorno aiutando gli altri, surfando sul web per esplorare nuovi stili di vita o solo per stare al passo dei nipoti. Mi domando se noi sindacalisti non diamo troppo peso alla pensione, come se fosse quello il traguardo della nostra vita, come se il lavoro fosse una cosa brutta, una costrizione di cui liberarsi prima possibile (a volte lo è purtroppo, ma non dovremmo accettarlo), come se tutti i lavoratori volessero disfarsi di una zavorra invece che magari alleggerire il proprio zaino e renderlo più comodo. Certo ci sono gli esodati ed è un problema. E c’è pure chi fa lavori pesanti e logoranti che forse in pensione dovrebbe andarci prima degli altri. Ma il lavoro non è sempre e solo fatica, è anche parte della vita, della nostra identità. Insieme ai nostri affetti, è gran parte del nostro spazio e del nostro tempo. E non possiamo sprecarlo. Non possiamo noi, individualmente, non possiamo noi, come Italia e come Europa. Così andiamo in pensione pure un po’ più tardi, ma facciamo in modo che chi nasce povero abbia fin da bambino le stesse chance di realizzarsi nel lavoro di quante ne ha il figlio di benestanti. Facciamo in modo che il lavoro sia gratificante, ben organizzato, privo di pericoli e soprattutto sappia valorizzare i talenti di ciascuno. Facciamo in modo che mentre lavoriamo sia dato tempo a tutti – non solo ad alcuni, ma proprio a tutti, come diceva Bruno Trentin – per imparare cose nuove, per tornare a studiare e per immaginare di cambiare mestiere. Facciamo in modo che chi ha molti anni di lavoro sulle spalle possa progressivamente ridurre il proprio tempo sul lavoro, soprattutto chi svolge professioni faticose. La coperta è corta. Quindi se i soldi risparmiati per l’aumento dell’età della pensione fossero investiti in istruzione, welfare, conciliazione, inclusione chi si potrebbe lamentare? Perché io volentieri andrei in pensione un po’ più tardi (per la cronaca con la normativa attuale ci arriverò a 70 anni circa) sapendo che così Hadifa, la compagna marocchina di mia figlia in prima elementare, avrà le sue stesse opportunità di trovare da grande un lavoro davvero appagante, un lavoro da cui non sognare di andare in pensione prima possibile.
Rodolfo Baggio
Ciao Vincenzo, due considerazioni a ruota libera (e magari anche fuori tema) su quel che scrivi. Poni domande intriganti, ma che, almeno per le mie (e spero di molti) convinzioni, sono domande pleonastiche. Alle quali mi sento solo di aggiungere che la dignità di un essere umano sta proprio nel suo rapporto con le cose che fa e su come le fa.
Gli asserti che dici discutibili in realtà non lo sono. Le prove che esiste un legame forte fra bellezza, creatività, innovazione e sviluppo economico, ma soprattutto sociale, le abbiamo (insieme) date nei nostri pezzulli, in versione più ridotta qui e più compiuta qua. Non ci ritorno sopra.
Aggiungo alle tue citazioni una di un personaggio troppo precocemente dimenticato (dai più), Silvio Ceccato: «la bellezza risulta sempre dall’esecuzione di certe operazioni mentali», operazioni di grande potenzialità a patto, come diceva Poincaré, di avere la mente “preparata”, che diventa fucina di enorme creatività (serendipitosa, spesso e volentieri). E proprio su questi argomenti mi piacerebbe, e in parte lo si sta già facendo, approfondire il discorso e farlo in maniera più razionale. Ne abbiamo scritto, ma per ora solo in maniera “intuitiva” e analogica. Serve una maggiore profondità e il ricorso a metodi e tecniche rigorose in grado di dimostrare meglio le nostre ipotesi e di verificarne la fattibilità. Serve costruire scenari ben fondati e analizzarli bene. Ma su questo, come si dice: stiamo lavorando.
Si, bisogna lavorar parecchio, soprattutto sui rapporti fra uomini e macchine, come giustamente dici. In modo da evitare le facili derive mercantilistiche e l’esaltazione dell’una o dell’altra parte, dato che, come organismi simbiotici, ormai l’una ha poco senso senza l’altra. Ricordo spesso, come sai, le parole scritte da Augusta Ada King, contessa di Lovelace, considerata la prima “programmatrice” della storia, nel lontano 1843, a proposito della macchina analitica inventata da Babbage (il più vicino precursore di quelle odierne): «Non bisogna nutrire idee esagerate sui poteri della Macchina Analitica. Essa non pretende di creare nulla. Può fare tutto ciò che riusciamo a ordinarle di fare. Può eseguire l’analisi, ma non ha il potere di anticipare alcuna rivelazione o verità analitica. Il suo compito è quello di assisterci mettendoci a disposizione ciò che già conosciamo».
Insieme, uomini e macchine, come mostrano moltissime esperienze, formano un connubio di grande potenza e potenzialità. E quando lavorano “bene” insieme (e ognuno per la sua parte) i risultati sono di grande valore.