Caterina, la scuola e il lavoro che vale

Caterina Vesta l’ho conosciuta nel 2011 in occasione della presentazione di Bella Napoli a Marcianise, Caserta. Ricordo che eravamo in sette, nove compresi me e Cinzia, e non nascondo che provai un pizzico di delusione, che però durò poco: il #lavorobenfatto prevede che le persone che sono venute li per sentirti parlare del tuo libro – sette o settecenro che siano -, siano trattate con tutta la passione e l’impegno di cui sei capace, e io così feci, e infatti la sera quando ce ne tornammo a casa eravamo molto contenti.
Trascorre qualche settimana e Caterina mi telefona, mi dice che vorrebbe acquistare 40 copie di Bella Napoli, mi chiede se le posso fare avere un euro di sconto a copia, «è per le mie ragazze – mi fa – è una cosa simbolica, un’attenzione importante.» Le rispondo che quell’euro, come le pizze di Peppeniello in «Miseria e Nobiltà», passano a due, che Bella Napoli costerà 8 euro a copia invece di 10, che ci metto anche io 80 euro, che per una storia così vale sicuramente la pena. Vado alla Feltrinelli, compro le 40 copie e chiedo all’amico direttore di farle partire il giorno dopo via corriere.
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Il 24 settembre è il gran giorno; alle 10 sono al G. B. Novelli di Marcianise, l’istituto dove insegna Caterina, e scopro che a ogni studentessa che ha letto il libro è stato chiesto di scrivere un commento della storia che più l’ha colpita, un commento generale al libro e soprattutto il racconto di una storia di lavoro – tra quelle presenti in famiglia, tra gli amici, i conoscenti – di cui sono particolarmente orgogliose.
Mi credete se vi dico che quella giornata è stata così bella che me la ricordo ancora? Si, questa volta dire contento non basta, sono stato felice e anche di più, per il libro, per me e per l’evidenza di quanto sia grande il potere di coinvolgere, di educare, di emozionare che ha una prof. che fa con amore il proprio lavoro. Perché lo so che lo sapete già ma voglio ribadirlo ancora, il senso più vero di quella giornata stava nel lavoro delle ragazze e di Caterina, che lei è una prof. che non fa fe cose così tanto per farle, ci pensa su bene, le fa maturare, se ne convince, le fa vivere alle sue ragazze, le coinvolge, le rende protagoniste e così le cose riescono una meraviglia, perché non si limitano all’evento, perché hanno alle spalle un lavoro fatto con con continuità, intelligenza e passione. E’ successo così anche per il #lavorobenfatto, con Caterina che mi ha chiamato un giorno di fine Gennaio e mi ha chiesto se ero disponibile a parlarne con alcune classi di prima. Voi che avreste fatto? Io ho fatto uguale, ci sono andato, Lunedì 23 Marzo 2015, alla Biblioteca Comunale, dove alle 11.00 in punto sono arrivate una ottantina di ragazze e quattro o cinque ragazzi delle tre prime.

Facciamo così, per questa volta lasciamo perdere quello che ho detto io, concentriamoci su quello che hanno fatto loro, un intero numero di «Incontri», il loro giornalino scolastico, dedicato al #lavorobenfatto e alla nostra iniziativa. E della serie a volte anche le cose belle non vengono da sole il numero successivo di «Incontri», il terzo, è stato dedicato al racconto de La Notte del Lavoro Narrato, il pomerriggio del 30 Aprile 2015, ancora una volta con al centro il lavoro, il suo valore non solo materiale ma anche dal punto di vista della dignità, della realizzazione personale, del rispetto di sé e degli altri.
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Ecco, detto questo, confesso che mi è piaciuto un sacco leggere di Carmen che scrive: «Abbiamo parlato dei genitori che per permettere di studiare ai figli lavorano fino a tardi ma non sentono il peso del loro lavoro, perché si sentono realizzati e orgogliosi. Poi ci è stato chiesto se avevamo già delle idee su cosa fare da grandi e siamo stati esortati a studiare tanto, perché il lavoro non ci cadrà dal cielo ma dipenderà molto dalle nostre competenze e dalle predisposizioni. Abbiamo molto riflettuto anche sulla necessità di inseguire i nostri sogni senza mai rinunciarvi ma impegnandoci al massimo per raggiungere i nostri obiettivi, perché è meglio studiare e realizzare un sogno che fare un lavoro che non ci piace solo perché ci gratifica economicamente.»

Di Serena che scrive: «Abbiamo parlato del lavoro con parole semplici, di come qualsiasi mansione se é svolta con amore e con professionalità é fatta bene, perché solo con la passione e con la dedizione per quello che si svolge riusciremo ad ottenere risultati e consensi. E’ stato addirittura fatto l’esempio di un buon caffè che se preparato con amore riesce, nel suo piccolo, a far star bene chi lo ha assunto. Ho sentito quasi uno “scossone” nella mia testa che mi ha dato la grinta necessaria a non arrendermi e a dare sempre il meglio di me.»

Di Marta che scrive: «La cosa che mi ha colpito di più e che mi ha fatto riflettere molto è stata l’esortazione – per tutti – a fare bene il proprio lavoro, anche il più umile o il più scontato poiché è fondamentale svolgere bene ogni lavoro mettendoci impegno, passione, dedizione e amore. Spero che un giorno, quando mi troverò a svolgere il lavoro che spero di fare, non dimenticherò le parole dette e farò in modo di farle mie, e portarle con me durante tutto il mio percorso di vita.»

Di Nunzia che scrive: «Ogni essere umano ha bisogno di lavorare, ma non sono molti coloro che svolgono il proprio lavoro con piacere; ci sono persone che al mattino fin da quando si svegliano non sentono motivazione per il compito che svolgono. Oggi, tuttavia, è molto difficile trovare lavoro e molti sono costretti a orari di lavoro pesanti con paghe basse. Ci sono giovani che nonostante siano laureati e preparati non hanno una occupazione. Ci sono padri di famiglia che non riescono a portare il pane a casa, a causa della perdita di lavoro o del lavoro precario. Penso che anche il lavoro più complicato se viene fatto con amore diventa semplice. Spero che un giorno dopo tanto studio e tanto impegno anche io potrò vedere il mio sogno avverarsi e così la mattina, prima di iniziare a lavorare, mi sveglierò con un sorriso e pronta ad affrontare tutto.»

Di Lorena che scrive: «Non ho le idee chiare su ciò che voglio fare in futuro, ma spero solo che riuscirò a trovare un lavoro che colmi la mia passione, in modo che svegliandomi la mattina, io mi senta motivata e contenta e affinché la sera io possa andare a dormire felice.»
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Ecco, mi fermo qui, anche se faccio un torto alle altre ragazze, e ragazzi, che hanno partecipato a questa bella esperienza. Però due cose ancora, anzi tre, le voglio ribadire:

la prima è che so bene che queste e tutte le altre cose belle che sono state scritte sono state fatte per il giornalino e dunque in qualche modo risentono dello spirito costruttivo e positivo che anima attività di questo tipo, che insomma non è mica facile scrivere «il prof. Moretti è stato una palla e non ci ha fatto capire niente»;

la seconda è che a fare la differenza in queste vicende non è il lavoro di chi arriva da fuori, è il lavoro svolto ogni giorno in classe, il lavoro di prof. come Caterina Vesta, che per fortuna come lei ce ne stanno tanti, che tanti non vuol dire tutti e però sono tanti, e bisogna raccontarli, perché la scuola italiana si mantiene sul lavoro di maestre/i, insegnanti, prof. così, ed è bene non dimenticarlo, soprattutto in periodi come questi;
la terza è che queste/i ragazze/i hanno 14 anni, famiglie nelle quali quando va bene lavora solo il padre, e sono abituate a pensare al lavoro più come fatica che come valore, eppure, se parli loro con semplicità e cerchi di attivare la loro curiosità e le loro conoscenze ti accorgi che pian piano cominciano a pensare in maniera diversa, e quando dici «lavoro, dunque valgo, merito rispetto, considerazione» è capace pure che ti battono le mani.
Non so voi, ma io il «valore del lavoro» lo farei diventare il tema intorno al quale organizzare l’anno scolastico: il lavoro dei poeti e degli scrittori, il lavoro dei matematici, il lavoro dei chimici e dei fisici, il lavoro dei filosofi e degli storici, il lavoro dei cuochi e dei geografi, il lavoro degli architetti e dei muratori, che alla fine Tebe dalla sette porte furono loro che la costruirono.

Ecco, in attesa che almeno un po’ di tutto questo accada, io dedico questa storia al lavoro di Caterina e di tutte le maestre, insegnanti, prof., che ai ragazzi non chiedono di studiare per imparare il programma, ma di studiare per imparare a ragionare, a capire, a fare domande, a cercare risposte, a risolvere problemi, insomma per diventare donne e uomini più consapevoli, che in fondo è questo ciò di cui hanno e c’è veramente bisogno.

Post Scriptum del 13 Luglio 2016
Caterina in risposta a un commento sui social network scrive questo: «Quando ho letto una parte della mia storia di docente, raccontata da Vincenzo, mi sono sentita felice e onorata di tanta considerazione e ho anche ringraziato Dio di avere la fortuna di godere della sua sincera amicizia. In certi punti dell’articolo mi sono “vista vivere” e ho pensato che avrei potuto fare di meglio: è quello che continuo a pensare da una vita. Posso fare di meglio e di più. Adesso che leggo che tanti amici serbano di me un buon ricordo e tanti altri credono nella mia funzione docente beh, allora le responsabilità aumentano! Devo fare di meglio. Il bello è che mi piace mettermi alla prova e sperimentare sempre nuove strategie di coinvolgimento. So per certo che non mi costa fatica il mio lavoro, anche chiamarlo lavoro mi sembra troppo riduttivo. Penso, invece, di essere io in debito con la vita, se il mio ruolo di docente mi consente di rimanere giovane dentro per sempre! Vivere tante adolescenze, condividere con i miei alunni tanti piccoli e grandi drammi stando dalla loro parte, dare a ognuno la giusta considerazione, presentare gli argomenti da studiare “a tutto tondo” ma con naturalezza, invitando tutti a riflettete e ad interagire, cercare, infine, di immedesimarmi anche nei loro piccoli insuccessi, sdrammatizzando, se necessario, senza la presunzione di avete in tasca la soluzione ad ogni problema! Questo è quel che faccio. È la mia normalità.»
Cosa aggiungo io? Nulla. Penso che il post di Caterina dica già tutto.