Di narrazione e di lavoro ben fatto reloaded

14 Ottobre 2018
Caro Diario, come sai ogni tanto mi viene la voglia di riprendere le cose che ho pensato e che ho scritto e di ripensarci su. Questa volta il pensiero è il seguente:
Il lavoro ben fatto può essere il motore del processo di cambiamento culturale e sociale di cui ha bisogno l’Italia e la narrazione – in tutte le forme e i modi possibili – sia uno dei mezzi fondamentali per radicare, diffondere, rendere virale questo processo.
Dato che quello che penso io – oggi come 3 anni e mezzo fa, quando ho scritto la prima versione dell’articolo che se vuoi puoi rileggere in fondo al post – di per sé continua a servire a poco, mi piacerebbe riprendere la discussione, a partire dai due interventi che sono arrivati, uno – al tempo della prima versione – di Massimo Chiriatti e l’altro, invece assai recente, di Francesco Tedeschi.
Di mio nella seconda versione lascio solo il riferimento a un articolo che ho scritto lo scorso anno – L’importanza di raccontare il lavoro – e i due hashtag. Nel caso tu volessi saperne di più puoi leggere la versione precedente che trovi in fondo e stai a posto.

#lavoronarrato: il lavoro come narrazione; come valore; come identità;  come realizzazione di sé; come rispetto di sé e degli altri; come dignità; come cultura condivisa; come azione; come riconoscimento; come costruzione di senso; come possibilità;  come cambiamento.

#lavorobenfatto: il lavoro come maestria; come bellezza; come qualità; come professionalità; come merito; come voglia di fare bene le cose a prescindere; come consapevolezza che ciò che va quasi bene non va bene; come capacità di tenere assieme, nel processo del fare, la testa (il sapere), le mani (il saper fare) e il cuore (la motivazione, la passione).

Ecco amico Diario, il tema in questo caso è il rapporto tra la narrazione, il lavoro ben fatto e i processi di cambiamento. Per dire la tua basta scrivere a partecipa@lavorobenfatto.org
Alla prossima.

re2
INTERVENTI
Francesco Tedeschi
Il lavoro che crea valore

Massimo Chiriatti
Tessere la nuova rete del lavoro
Dagli ‘anni 80 in poi la finanza spicca il volo, anche con alti e bassi. E nel contempo la tecnologia fa passi da gigante, si digitalizza e inizia una delle più grandi innovazioni dell’umanità: Internet.
La prima tende a polarizzare interessi, potere e risorse, la seconda cerca d’integrare, o meglio, aggregare. Dà a tutti la possibilità di contare.
In mezzo ci sono le persone, con talenti e caratteristiche utili ma sempre più spaesate di fronte a tali cambiamenti. Ci sono i pochi ma grandi capitalisti, chi con la tecnologia è diventato tale, come Bill Gates, e chi invece vuole solo diffonderla, come Linus Torvalds, il creatore di Linux.
Sia l’economia sia la tecnologia si espandono ma con differenti percorsi.
L’economia con bolle e crisi. La tecnologia a piccoli gradini, ma con grandi impatti.
Questi sono movimenti inarrestabili, l’unica cosa che possiamo fare è cogliere le nuove opportunità di lavoro nel mondo digitale. Abbracciare i cambiamenti derivanti dalle nuove tecnologie (crea nuove forme di contratti di lavoro), e attenzione alle persone che saranno inevitabilmente spiazzate ma senza per questo comportarsi da neo-Luddisti.
Il progresso tecnico-economico rischia di isolarci, almeno dal punto di vista professionale. Il taglio non è né scientifico né casuale. Separa per classi, per potere, per capacità. Man mano che ogni attività diventa digitalizzabile il taglio sposta la lama sempre verso più persone, anche quelle che prima si sentivano protette.

Come cambia ora
La tecnologia ci isola o ci avvicina? La tecnologia non è neutra, fa tutte queste cose.
Magari prima tendenzialmente ci ha separato (pensiamo agli strumenti di comunicazione di massa: radio, tv, etc.) ora, con grazie a Internet, di parlare tutti con tutti.
Questa economia però rischia di lasciare il lavoratore più solo e, in qualche modo, più libero di cercare un’altra strada per stare insieme. E l’ha trovata facendo sponda con il digitale (in particolare con la tecnologia e i media).
Che a sua volta è al centro di una lotta tra chi vuole controllarla per farne un nuovo strumento di divisione (il motto “divide et impera” non è mai morto) e chi cerca di plasmarla per unire le persone.
La costruzione della rete ha pertanto due aspetti: economici e tecnologici. Le persone che la intessono fanno un lavoro molto difficile perché devono curare la tensione tra queste due sponde.
Lo sviluppo della rete sarà sempre contrastato, perché essa è intrinsecamente inclusiva. La rete è una risposta collettiva a un problema d’informazione individuale, è attraverso questo meccanismo che è diventata un bene comune.
Ma dobbiamo vigilare affinché:
la creazione di strumenti adatti a pochi possa andare a detrimento dei tanti, che potrebbero addirittura minacciare la loro vita;
questi sviluppi tecnologici ed economici non restringano il campo d’azione, ossia la libertà delle scelte che si potrebbero imporre delle persone nel futuro.
Il passato è read only (immodificabile, possiamo solo leggerlo) mentre il futuro è write only, possiamo solo scriverlo, quindi sarà meglio farlo bene questo lavoro.
Il #lavorobenfatto, per me, è anche questo. E farlo insieme, perché parte della nostra vita, sarà una delle conseguenze derivanti dalla qualità di questa scrittura collettiva.
La rete, semplicemente, unisce. È in altre parole il #lavoronarrato: il lavoro come cultura condivisa.

VERSIONE PRECEDENTE
Caro Diario, come capita spesso nelle cose della vita all’inizio c’è una domanda, nel caso specifico quella del mio amico Antonio Savarese, giornalista e ideatore, con Antonio Prigiobbo, della comunità di NaStartup, che mentre parliamo di storytelling, di lavoro ben fatto e di altre passioni mi chiede «Vincenzo, ma adesso come intendi procedere con le tue storie?».
Non so come succede a te ma io quando la domanda tocca determinate corde non ce la faccio a concentrarmi subito sulla «risposta», ho bisogno di seguire prima i miei pensieri, di mettere a fuoco il contesto, di rispondere alle mie domande, che poi alla velocità del pensiero è questione di poco, però è un tempo importante, almeno per me.

Come dici amico Diario? Vuoi sapere che cosa ho pensato?
Per prima cosa ho pensato che sono contento. Contento per le tante persone nuove che stanno entrando nella mia vita, che per questo è diventata più bella, più ricca, più degna di essere vissuta. Contento per il gran numero di pagine lette, che anche quelle contano, dato che «[…] nessuno è padrone di nessuna cosa, per quanta consistenza sia in lui o per mezzo di lui, finché delle sue doti non faccia partecipi gli altri: né può da sé farsene alcuna idea, finché non le veda riflesse nell’applauso che le propaga». Contento per quello che ci sto mettendo io: passione, dedizione, professionalità, lavoro, non solo intellettuale, anche fatica vera e propria, quella che la sera tardi ti fa chiudere gli occhi mentre scrivi e così finisce che batti con la fronte sul Mac e ti dici «Viciè, è ora di andare a dormire».

Per seconda cosa ho pensato ai due hashtag (una volta le avrei chiamate parole chiave, idee guida) che in vario modo e da quando ero piccolo mi fanno compagnia:
#lavoronarrato: il lavoro come narrazione; come valore; come identità;  come realizzazione di sé; come rispetto di sé e degli altri; come dignità; come cultura condivisa; come azione; come riconoscimento; come costruzione di senso; come possibilità;  come cambiamento.
#lavorobenfatto: il lavoro come maestria; come bellezza; come qualità; come professionalità; come merito; come voglia di fare bene le cose a prescindere; come consapevolezza che ciò che va quasi bene non va bene; come capacità di tenere assieme, nel processo del fare, la testa (il sapere), le mani (il saper fare) e il cuore (la motivazione, la passione).

Infine ho pensato «Vincenzo, ma quando è che ti fermi?» e mi sono risposto «quando nei pacchi che ogni sera arrivano via televisione nelle case degli italiani non ci saranno più soldi ma opportunità». Sì, ho pensato a questo. A quanto sarebbe bello un programma nel quale invece di venti pacchi da un centesimo a cinquecentomila euro ci fossero venti pacchi da uno stage gratuito a un progetto innovativo da realizzare, da un impiego in un’agenzia di comunicazione a un finanziamento di un corso di studi universitario all’estero, da una startup da avviare a un mestiere o un’arte da apprendere.

Come dici amico mio? Un programma così sarebbe riservato solo ai giovani? Secondo me no, perché abbiamo il diritto di imparare, di sapere e fare a qualunque età. E però detto questo aggiungo «e se anche fosse?». L’Italia ha un bisogno disperato di dare priorità ai più giovani, di riconnettere autonomia e lavoro, senza contare che in molti casi i meno giovani potrebbero fare da tutor, da maestri, da guide, da creatori/fornitori di opportunità.

Ecco, caro Diario, è qui che sono tornato ad Antonio, e gli ho fatto un riassunto non so quanto preciso dei miei pensieri, però spiegando bene che quello dei «pacchi» è solo un modo per dire che mi fermerò quando in Italia il lavoro ben fatto sarà diventato senso comune, sentimento condiviso, pratica  diffusa.

Come dici? Vuoi sapere cosa ha fatto lui? Mi ha guardato, mi ha sorriso, mi ha detto dei rischi di una strada troppo lunga, che non finisce mai, e io non sono riuscito a dirgli di no – come avrei potuto? -, ho detto solo che «una marcia di diecimila chilometri comincia con il primo passo», e che «nel viaggio non importa soltanto la meta, ma anche il cammino».
A questo punto il mio amico mi ha guardato e ha sorriso ancora, solo questo, sono stato io a chiedergli «che dici, così mi condanno a fare sempre le stesse cose?, va a finire che le mie storie le leggeranno sempre meno persone?».
«Secondo me il rischio c’è – mi ha risposto -.  A un certo punto bisogna inventarsi qualcosa, fare la mossa del cavallo, fare in modo che la strada delle tue narrazioni non sia mai scontata, che contempli molteplici possibilità e occasioni di partecipazione».

Ecco, fin qui il racconto delle cose che ci siamo detti con Antonio. La ragione e il senso del racconto a me paiono evidenti: penso che il lavoro ben fatto possa essere il motore del processo di cambiamento culturale e sociale di cui ha bisogno l’Italia e che la narrazione – in tutte le forme e i modi possibili – sia un mezzo indispensabile per radicare, diffondere, rendere virale questo processo. E penso anche che quello che penso io di per sé serve a poco, che «per andare dove dobbiamo andare» c’è bisogno di tante teste ben fatte, di tante idee, di tante narrazioni, di tanti punti di vista diversi, di tanta capacità di tradurre le idee in azioni, cambiamenti, fatti. Buona partecipazione.

cambiare
Credits
Ad Antonio Savarese debbo la domanda e le sollecitazioni da cui è nato questo post. A Lana e Andy Wachowski, William Shakespeare, Confucio, Paulo Coelho, Vittorio Foa, Jorge Luis Borges e Totò le citazioni che trovate disseminate qua e là.