Raffaele e Luigi scarp ‘e fierr

Tommasina La Rocca l’ho incrociata dal vivo per la prima volta il 7 Settembre 2014, nel corso dell’evento di lancio della seconda edizione de La Notte del Lavoro Narrato, il 30 Aprile 2015, che ci siamo messi in testa di raggiungere 1001 luoghi d’Italia e non sarà affatto una cosa semplice raggiungere l’obiettivo.
La seconda volta la vedo spuntare una settimana fa via social network con una immagine di scarpa a forma di nave. Ha letto di West4, ha visto che la prima fermata di questo nuovo entusiasmante viaggio sarà a Napoli, il 31 Gennaio 2015, precisamente a Ponticelli, ancora più precisamente in una scuola, l’Istituto Comprensivo Marino Santa Rosa diretta dal sociologo Gaetano Marchesano e mi scrive che anche se lei insegna a San Giorgio a Cremano la sua famiglia è di Ponticelli e ha una lunga e bella storia di lavoro alle spalle.
Ormai lo sapete come sono fatto, per le belle storie ho il quinto senso e mezzo come Dylan Dog e così le ho chiesto di mandarmi qualche riga e qualche foto e insomma il resto lo potete leggere qui di seguito.
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«Caro Vincenzo, 
quella della mia Ponticelli è una storia di lavoro, lavoro svolto nei campi, nelle officine, nelle botteghe, con l’onestà, la dedizione e la fermezza di chi doveva affrontare con pochi mezzi la durezza di tempi difficili come quelli del periodo bellico e post bellico.
Questo mio racconto è per la prima parte solo un ricordo delle immagini che a me e ai miei fratelli venivano trasmesse da mio padre quando, intorno ad un tavolo, ci parlava del nonno, che purtroppo non ho conosciuto perché nel 1954, quando lui morì, io ero appena nata. Per la seconda parte è invece la storia di mio padre, che a partire dagli anni 50 ha saputo, con la stessa dedizione di tante altre persone del luogo, inventarsi un lavoro di pasticceria fino a creare una piccola impresa artigianale.
A Ponticelli come in tutta Napoli era allora assai diffusa la consuetudine di dare degli appellativi alle persone, il famoso soprannome, o contranome, a seconda dei quartieri, e mio nonno era soprannominato “Scarp ‘e fierr” perché ogni mattina dalla Cortina del Capitano, dove abitava, si recava al Porto di Napoli a piedi, al punto che ancora oggi, chi è del luogo, spesso senza conoscerne l’origine, è solito dire a un buon camminatore «Mi sembri Rafel Scarp e fierr.»
Nel porto mio nonno svolgeva lavori di riparazione delle navi; senza essere ingegnere, senza un titolo di studio, con una matita, «’nu muzzone ‘e laps», progettava la riparazioni delle navi. La sua abilità, acquisita sul campo, con l’esperienza, lasciava gli ingegneri americani meravigliati perché i suoi calcoli erano così perfetti che anche di notte, durante la guerra, le camionette stellate lo andavano a prendere fino a casa perché riusciva in breve tempo ad individuare il guasto ed ad essere risolutivo.
Era uno che dava lavoro anche ad altra gente del posto e quando questo scarseggiava amava portare i suoi operai a fare una scampagnata per scaramanzia oppure li portava a casa sua dove la moglie, mia nonna, preparava il pranzo, quello che c’era da mangiare all’epoca, per tutti. 
Con gli anni la sua fama travalicò i confini nazionali e persino dopo che era morto gli arrivò una proposta di lavoro da un armatore inglese. Raffaele «Scarp e fierr» ebbe undici figli e il suo lavoro lo tramandò a uno di essi, Vincenzo e poi questo al figlio Raffaele e questo ancora ai suoi figli che, dopo tanto tempo, con tutte le nuove innovazioni tecnologiche, ancora oggi continuano il lavoro nel solco tracciato dal nonno, loro trisavolo.
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Mio padre Gigino – che aveva ereditato come tutto il resto della famiglia lo stesso appellativo -, non potendo svolgere un lavoro duro come quello del padre perché colpito dalla poliomelite all’età di tre anni, fu avviato alla pasticceria.
Tra gli anni 50 e 60, quelli della ricostruzione post bellica e della ripresa, Gigino Scarp e fierr riuscì a trasformare un piccolo bar con annessa sala giochi, non quello delle slot machine ma delle carte napoletane, in una piccola impresa artigianale di pasticceria, torrefazione, gelateria e coloniali.
Al Corso Ferrovia di Ponticelli, «dint’o stritt», nello stretto, il profumo dei dolci e l’odore del caffè che usciva per la tostatura attraverso la ciminiera, si diffondevano per le strade del paese strategicamente, durante l’ora dell’uscita dalla chiesa, la domenica mattina.
Ognuno diceva «La Rocca ha fatto ‘o cafè, e zeppole, e babà, e sfugliatelle» e a frotte c’era chi comprava “o cartucciello d’e paste” e chi 25 grammi di caffè macinato e 50 grammi di zucchero. 
All’epoca non esisteva la produzione industriale e ricordo che mia madre di buon mattino preparava le bustine pesate di zucchero e di caffè con l’intestazione della ditta mentre mio padre fino a tarda sera preparava i gelati, la pasticceria era curata dai pasticcieri, primo pasticciere, secondo e il lavapentole.
Mia madre, Luisa a Varrese, (nel suo caso il soprannome derivava dal luogo d’origine della sua famiglia, Barra) era sempre a fianco di mio padre, era cassiera, banconista, all’occorrenza faceva anche il caffè. Ricordo che tutti erano impegnati, e quando dico tutti intendo proprio tutti, anche gli amici più vicini, nei momenti di lavoro intenso davano anche loro una mano. Diceva mio padre, pur non essendo un’alimentarista e non conoscendo le proprietà degli alimenti, che il segreto della buona pasticceria erano la freschezza e la bontà degli ingredienti, non esisteva la polvere d’uovo né del latte, i coloranti, le creme sintetiche ma solo prodotti naturali, uova, latte, farina, zucchero, il colore e i sapori erano dati dalle essenze, dalla frutta, tutto lavorato con le braccia e con i macchinari allora utilizzati.
Tanto lavoro e tanti sacrifici, non c’era il riposo settimanale, si lavorava sette giorni su sette, notte e giorno, per realizzare un progetto di vita, per dimostrare quella voglia di riscatto che ha dato impulso alla famiglia e al paese. Poiché in quegli anni la mentalità e le aspettative delle persone semplici rispetto al futuro dei propri figli era quello di dare loro un’istruzione noi quattro figli siamo diventati chi insegnante, chi medico, che pure sono dei bei lavori, ma nessuno di noi ha ereditato il mestiere di papà al punto che i miei genitori decisero di cedere l’attività.
Però la pasticceria La Rocca non è finita, perché un cugino di secondo grado nato in Canada, figlio di una nipote di mio padre emigrata negli anni cinquanta (Ponticelli come tutto il Sud è anche terra di emigrazione, quella dei primi bastimenti transoceanici) decise di venire in Italia per apprendere i segreti della nostra pasticceria. Dopo di che è tornato nel suo paese, precisamente a Toronto e ha fondato un dolce impero a cui ha voluto lasciare, pur non essendo un discendente diretto, il marchio La Rocca sul logo della ditta. Vincenzo, la verità è che il nostro è un cognome fortunato, garanzia di bontà e di genuinità.»
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Fin qui Tommasina, che mi ha mandato anche le due foto che accompagnano questa bella storia (nella prima ci sono i pasticcieri che stanno preparando le famose zeppole di San Giuseppe; nella seconda è ritratto anche Gigino, il papà di Tommasina, è il primo a sinistra) e poi ha postato sui social il video che potete vedere alla fine, con questo commento: «Il cugino di 2 grado, italo-canadese, che ha imparato dal mio papà a fare le torte, quando ancora giovanissimo venne in Italia presso la pasticceria La Rocca, guardate che #lavorobenfatto ha realizzato!»
Cosa posso aggiungere io? Che secondo me il fatto che tutto questo sia accaduto grazie alla prima tappa di West4, che come vi ho detto si tiene il 31 Gennaio 2015 proprio a Ponticelli è un buon segno. E ci aiuta a tenere assieme le belle storie di ieri che continuano ancora oggi come questa che ci ha raccontato Tommasina e le belle storie di oggi che continueranno ancora domani come quelle che saranno raccontate Sabato 31.
Il centro alla periferia. Per cogliere e moltiplicare davvero le opportunità si potrebbe provare a cominciare da qui.