Caro Diario, la storia che ti racconto oggi è stata pubblicata in un mio libro, Bella Napoli, Storie di lavoro di passione e di rispetto, edito da Ediesse nel 2011. È la storia di Giovanna A. e ci tengo a sottolineare che è una storia vera, perché sai già ci sono capitato con mio figlio Luca che a suo tempo dopo averla letta mi disse «non ho capito perché su 12 storie che compongono il libro 11 sono vere e quella di Giovanna è inventata.»
Come dici? Se il mio è un modo per incuriosirti ci sono riuscito? Non è modo per incuriosirti, è la verità, ma comunque l’importante è che tu la legga che poi magari mi fai sapere se ti è piaciuta. Buona lettura.
«Sono nata e cresciuta al rione Luzzatti, Gianturco, zona orientale di Napoli, con papà, mamma e due sorelle, io sono la terza femmina. Con le mie sorelle siamo praticamente burro e marmellata, tutte e tre, siamo sempre state così, forse di meno quando eravamo piccole perché c’era l’incomprensione dovuta alla differenza d’età, però senza di loro non esisto, cioè le mie sorelle sono tutto, tutto tutto. Papà e mamma? Vabbé che c’entra, loro sono papà e mamma, e guai a chi me li tocca.
Quando ero piccola non capivo che lavoro faceva papà, vedevo solo mamma, credo che mio padre in quegli anni lavorasse a Castellammare, o a Sorrento, non ricordo, però mi ricordo che a volte mi portava con lui e per farmi stare buona mi faceva stare dietro al computer a giocare. A me tutto questo piaceva e gli dicevo “babbo quando mi faccio grande voglio fare il tuo stesso lavoro, perché tu fai le carte”, perché mio padre per me faceva le carte.
Perché dicevo così? Perché papà la domenica mattina metteva a posto le sue carte, sistemava l’agenda e per me che lo vedevo soprattutto di domenica il suo lavoro era mettere a posto le carte. A proposito di agenda dovete sapere che sono un’appassionata di agende e penne e mio padre ogni anno a Natale rompeva l’anima ai colleghi per averne tante da portarmi, ricordo che avevo un borsone di quelli enormi con tutte queste agende e penne, senza usarle, però dentro ci mettevo i fogli che strappava mio padre quando metteva a posto le sue carte, perché lui prendeva questi fogli, li guardava, e se non gli servivano perché quel discorso o quella riunione l’aveva già fatta, li strappava e li poggiava a terra. A casa non avevamo ancora il computer, lui faceva tutto a mano, quindi c’erano fogli di carta ovunque. E poi raccoglievo le sue viacard, i tesserini e gli inviti che buttava e mettevo tutto nelle agende, ordinate, perché papà per me era papà.
La faccenda delle carte mi era rimasta così impressa che quando a scuola ci assegnarono il classico tema “racconta il lavoro che fa tuo padre” io scrissi che papà faceva le carte, nel senso che strappava le carte, le metteva a terra e io le prendevo e le mettevo in ordine. Mia mamma invece come ho detto allora era casalinga, come si dice, l’angelo del focolare, guardava a noi, era una femmina che non si fermava mai, ci accompagnava, ci portava, ci prendeva, perché mio padre aveva un lavoro otto di mattina otto di sera, spesso tornava anche più tardi, ricordo che io, quando papà tornava tardi, avevo paura che non tornasse. Sì, è vero, sono sempre stata attaccata morbosamente a mio padre e cercavo in tutti i modi di aspettarlo sveglia, e se lui non tornava io gli facevo trovare i disegni, le lettere che dimostravano che ero stata ad aspettare fino a quell’orario, e poi mi ero addormentata e basta, punto. Però lui tornava tardi, quindi non lo vedevamo quasi mai, da piccola quasi mai, però è comunque il migliore babbo del mondo.
Il mio primo primo lavoro è stato praticamente presso una parente di mio padre, una cugina, serviva una persona al “mordi e fuggi” che aveva a Gianturco.
Se non sapete cos’è un “mordi e fuggi” ve lo dico subito, praticamente una tavola calda dove si acquistano panini, colazioni ecc., era, come si dice in inglese?, un take away. Era un lavoretto estivo, serviva una persona che sbucciava le patate, avevo 13 anni, forse 14, fino ad allora non avevo nemmeno osato pensare di uscire di casa per andare a lavorare, però quella era l’età giusta, lavorare era necessario perché la paghetta cominciava a essere troppo stretta per le mie esigenze.
Per la verità non sono durata assai, sono rimasta al “mordi e fuggi” più o meno un mese, però ho iniziato a capire cosa significa tornare stanca a casa la sera, tagliarsi le dita, pulire cucina e pavimenti, fare tante cose che non facevo prima perché mia mamma, essendo allora casalinga, ha cominciato a lavorare dopo il divorzio, non ci ha mai fatto fare niente in casa e io di conseguenza non avevo idea di come si poteva pulire una pentola e cose di questo tipo. Ho iniziato lì ad imparare a fare tutti questi mestieri e ad avere a che fare con la cucina.
Poi per molto tempo sono stata ferma. Continuavo ad andare a scuola, andavo e non andavo, più non andavo che andavo, poi mia mamma e mio padre si separarono e quando i tuoi genitori si separano si creano delle situazioni tutte strane, non so, vabbe’, lasciamo stare, fino a quando non ho cominciato a fare la commessa. Anche nei negozi però non sono durata molto, il fatto è che il caos mi rendeva un po’ nervosa, di conseguenza non duravo molto e crollavo, andavo via, resistevo proprio giusto una settimana, la settimana di prova, però non andavo oltre.
Poi ho lavorato in una fabbrica, ovviamente a nero. Perché dico ovviamente? Non saprei, forse perché pensavo che molte persone lavorano a nero in fabbrica, un po’ lo penso ancora, ad esempio quando ci stavo io ce n’erano almeno altri 5 o 6 come me. Era una serigrafia, si facevano stampe su abiti, stoffe, ecc., uscivo alle sette di mattina per andare a Poggiomarino e tornavo dopo le sette di sera, più o meno una decina di ore di lavoro al giorno e poi il viaggio.
In quella fabbrica lì mi sono anche fatta male, mi sono rimasti come ricordo due punti alla mano che ho chiuso in una ruota mentre girava, ho avuto tanta paura, però ovviamente non ho potuto dire che mi ero fatta male in fabbrica. Adesso però non ricominciate con “perché ovviamente”, tanto l’avete capito, piuttosto vi racconto che stavo imparando la stampa su maglia, cioè prendevo le maglie dal forno, perché vabbè c’era tutta una catena di montaggio che partiva dalla maglietta finita e da stampare con l’ausilio di alcuni macchinari che poi andava messa in un forno e poi dal forno la dovevi tirare fuori, piegare, ecc. Praticamente è durato fino a quando non mi sono chiusa la mano in una ruota del forno, sì, proprio lì me la sono chiusa, molto “gioiosamente”, e sono finita al pronto soccorso. È stato così che ho deciso di chiudere anche con la serigrafia, perché a me non piaceva per niente.
Poi cosa è successo? Che sono stata ferma fino a quando, fortunatamente, ho cominciato a fare un po’ la “mantenuta”, sempre tra virgolette s’intende, del mio fidanzato, futuro marito, futuro breve, perché in questo momento sto passando una fase transitoria della mia vita, tra due mesi mi sposo, e quindi siamo stati io e lui così, lui mi manteneva, papà mi dava la settimana e io nel frattempo lasciavo la scuola.
A scuola mi sono fermata al terzo anno del liceo artistico, arte orafa e metalli e ceramica. Mi piaceva, i primi due anni sono andata un cannone, poi il terzo anno mi sono abbassata, nel senso che sono scesa di livello perché vabbe’, ho avuto le tipiche crisi adolescenziali, mia mamma e mio padre si sono separati, mia mamma …, vabbe’ lasciamo stare.
Ho lasciato la scuola, il diploma l’ho preso privatamente, un diploma da ragioniera, tutt’altro da quello che desideravo, lungi da me, però l’ho preso, e ho iniziato a lavorare.
Il mio primo vero lavoro è stato all’I., di Aversa, nel 2006, avevo 21 anni, sono stata lì tre mesi, nel periodo estivo, sono stata benissimo, avrei voluto rimanere lì con tutte le mie forze però purtroppo non è stato possibile. Quella dell’I. di Aversa è una bella struttura, ci sono belle persone, ci ho lavorato come interinale per tre mesi, attraverso Ol di Caserta. Praticamente inserivo le schede che mi davano, schede tipo certificati, al video terminale, per 15-20 giorni ho fatto anche lo sportello, sì, proprio assistenza al pubblico. Come ho detto il lavoro mi piaceva tanto, ho sperato molto di poterci restare o almeno ritornare, ma non ci sono state altre possibilità e così sono rimasta un’altra volta, come si dice a Napoli, appesa a ’o chiuov, proprio pulito pulito.
Questa volta non ho fatto niente per un bel po’ di tempo fino a quando, sempre tramite Ol, però questa volta quello di Napoli, quello che sta a Piazza Borsa, ho fatto il colloquio dove per la prima volta ho sentito parlare di call center.
Proprio così. Anche io, come accade alle persone che adesso lo domandano a me, nonostante fossi una ragazza attuale, ero totalmente all’oscuro di cosa fosse un call center, l’avevo sempre sentito nominare però alla fine non avevo idea di cosa c’era realmente dietro queste macchine, chi fossero queste scimmiette che lavorano dietro allo schermo del computer.
Niente, andai lì e mi parlarono di un contratto a tempo indeterminato come lavoratrice interinale di 4° e poi di 5° livello, una paga buona, intorno agli 850, 900 € al mese. Il lavoro era a Pozzuoli e la prima crisi che mi è venuta da pensare aveva per titolo proprio “e come ci arrivo io a Pozzuoli”, perché avendo un fidanzato abbastanza premuroso, qualsiasi cosa dovessi fare mi muovevo con lui, e anche mio padre non è che ha mai detto “prendi il treno e vai” o anche solo “vai”, si è sempre interessato lui, mi ha sempre accompagnato. Questa volta invece mi ha portato all’ingresso dell’ex-comprensorio O. di Pozzuoli e mi ha detto: “guarda la tua azienda sta qua, tu vieni a lavorare qua” e io lo guardavo e sono rimasta con gli occhi da fuori, e infatti la prima sera sono scoppiata a piangere perché avevo proprio tutto lo stress addosso, continuavo a dirmi “Madonna, e io come ci arrivo là”. Invece alla fine mi stavo perdendo in un bicchiere d’acqua, in realtà era semplicissimo: prendevo la metropolitana a Gianturco, arrivavo a Pozzuoli, c’era la navetta aziendale che mi portava fino a fuori al comprensorio. Era tutto molto facile eppure io all’improvviso mi sentivo persa. Comunque andai lì, parlai per la prima volta con il direttore che mi presentò una persona che mi disse cose tipo “guarda, questo è il tuo responsabile, quello del tuo team, il gruppo dei ragazzi che siete arrivati come interinali sul sito di Napoli” e mi diceva tutte queste parole che io non conoscevo e non capivo, ma lo guardavo e facevo sì, sì, certo, con la testa, anche se non capivo assolutamente niente di quello che mi diceva. In pratica arrivai tardi rispetto ai ragazzi che c’erano prima di me, tardi nel senso che arrivai mesi dopo e mi persi la prima parte della formazione, in particolare tutta la parte teorica. Insomma sono stata una di quelle persone, direi fortunata per quello che si vede al giorno d’oggi, che sono andate direttamente al terminale e sono state affiancate dalle persone che lavoravano là già da otto nove anni. Vi sto parlando del settembre del 2007 e dunque appena arrivata mi misero a fianco una persona ad hoc che mi spiegava tutto il funzionamento del terminale, mi sedetti vicino a lei che iniziò a parlare, a spiegarmi, ma io continuavo ad avere molte difficoltà a capire anche se poi ho imparato in fretta, certo che ho imparato.
Vi faccio un riassunto: l’azienda è formata da mobile, business, fisso. Io sono stata al mobile sei mesi e tre mesi al fisso con tre contratti da tre mesi, sempre interinale. Di questi nove mesi sono stata quasi un mese in affiancamento, per affiancamento si intende che la persona che ti sta vicino ad hoc ti spiega tutto il funzionamento del terminale, come gestire la telefonata, ecc. Sono andata lì tranquilla ma ciò non toglie che in particolare i primi mesi, quelli immediatamente successivi all’affiancamento, sono stati molto difficili, perché ci sono un mare di procedure da ricordare, un mare di cose da imparare proprio al terminale, come ti devi muovere, quale pulsante cliccare, come fare questa specifica richiesta, come fare un reclamo, come interloquire con gli altri reparti. Sì, perché il nostro è un reparto di front line, quindi siamo i primi a rispondere al cliente, a far fronte alle sue esigenze. Poi vengono gli altri, quelli del reparto amministrativo, del reparto tecnico e del reparto multimediale.
Noi sostanzialmente siamo quelli del primo impatto, del resto lo dice proprio la parola, front line. Se ad esempio una persona mi chiama con difficoltà perché c’è una scarsa copertura in quella zona, io dopo che ho effettuato tutti i controlli previsti dalla mia procedura così come la procedura richiede, cioè una volta che ho verificato il credito, la copertura della scheda, il cellulare, se casomai ha cambiato sim, se casomai è caduto il telefono a terra, perché noi non possiamo dare niente per scontato quando abbiamo un cliente in linea, perché spesso le persone sono ignoranti, nel senso che ignorano le conseguenze di determinate azioni.
Un esempio di telefonata tipica è il seguente: ho messo il telefono in lavatrice, adesso la sim l’ho inserita in un nuovo telefono ma mi dice: “carta rifiutata”. Giustamente il cliente dice: la sim è intera, funziona, non va a immaginare che se si bagna, essendo un oggetto elettronico che ha un chip all’interno, bisogna cambiare la scheda. Ma io come gliela vado a spiegare una cosa del genere a una persona, faccio un’esempio, che ha tra i 70 e gli 80 anni? La difficoltà a spiegare la cosa tecnica non riguarda solo la persona un po’ più anziana, riguarda anche gli stranieri, perché dovete sapere che la nostra azienda ha una forte presenza tra gli stranieri perché abbiamo delle tariffe buone, ottime, molto competitive, sulle linee internazionali.
Questa storia dell’affluenza così forte di stranieri ha molti risvolti, da quelli che ti farebbero andare fuori di te se potessi arrabbiarti a quelli che ti farebbero fare una gran risata se potessi ridere.
Nel primo caso l’esempio tipico è la telefonata tipo “tu rubare i miei soldi, tu ladra”, aspetta, no, che ho fatto?, io non ti ho fatto niente, calmiamoci. Nel secondo la telefonata della persona senegalese che ti dice “io essere incazzato bianco”. E poi ci sono le persone che vogliono semplicemente chiacchierare, quelle che vogliono semplicemente fare i complimenti all’azienda. e per questo ti tengono 10 minuti al telefono quando invece abbiamo un tempo massimo di telefonata, da chiudere con la risoluzione del problema, di 4 minuti. In pratica in quei 4 minuti dobbiamo capire il cliente cosa desidera, che tipo di offerta ha, che tipo di problema ha, come risolverlo. Se entro i 4 minuti non riusciamo a risolvere, lo mettiamo in attesa e parliamo con gli altri reparti. Una volta che abbiamo parlato con gli altri reparti e ad esempio il reparto amministrativo verifica che c’è un’anomalia sulla fattura di un cliente, mi dice di aprire una segnalazione. Io apro la segnalazione, avverto il cliente, chiudo la telefonata, però nel frattempo ho sforato di ben 10-12 minuti che comunque vanno a influire su tutto il ciclo della telefonata.
Forse non vi ho detto ancora che il call center è strutturato in gruppi, proprio per dare l’idea di una squadra. Ogni gruppo si chiama team e ogni team ha il suo team leader.
Ecco, a quello volevo arrivare. Ogni team dovrebbe essere compatto, dovrebbe lavorare di squadra, dovrebbe avere la possibilità di interloquire al proprio interno, ma nella realtà le cose non sempre funzionano così, nel senso che ci sta anche questo, c’è anche questa cultura aziendale, ma ci sono anche molte altre cose, come del resto in qualunque posto di lavoro, compreso i coltelli dietro alla schiena pronti ad entrare in azione.
Volete sapere l’impressione che dà a me? Molto scuola, molto maestre con gli alunni, in classe spicca di più quello che lecca di più il culo alla maestra, in azienda quello che lecca di più il culo al team leader. Cosa che io non farò mai. Il mio approccio è andare lì, stare le mie sei ore, fare il mio lavoro bene, perché nella mia vita ho sbagliato su tante cose, sono stata capra su tante cose, però adesso sono consapevole dell’importanza di fare bene il mio lavoro, perché io lo faccio bene, sinceramente, non perché pecco di presunzione, ma perché lo faccio bene.
Del resto siamo oggetto più volte di verifica, di controlli, anche attraverso degli affiancamenti trimestrali. Al primo affiancamento non sono andata bene, poi ho avuto importanti miglioramenti. Ogni anno si fanno delle valutazioni tipo pagelle, anche per questo dico che è una concezione molto tipo scuola, pagelle chiamate “vali online” dove il tuo team leader ti fa una scheda dove ti dice se e dove hai superato i punti, cioè se hai superato le aspettative o se sei invece nell’ambito delle aspettative, se e quali miglioramenti puoi fare nel tempo, se hai la possibilità di andare avanti, se sei una persona volenterosa, ecc.
Che significa andare avanti? Molte cose. Ad esempio in questa fase stanno chiedendo alle persone a sei ore di passare a otto ore, e questo già è un modo per andare avanti: chi ha disponibilità di fare otto ore, fa otto ore. Poi, che ne so, ci sono i passaggi tra i diversi gruppi, ad esempio noi siamo di front line e siamo i gruppi più sotto pressione e quindi se io che sono di front line faccio richiesta di andare nel gruppo multimediale e mi viene accettata mi ritrovo in un gruppo più esclusivo, fisso, immobile, che non si muove e per me essere assegnata a un reparto con queste caratteristiche equivale a una promozione.
La front line è decisamente il reparto più duro, quello dove devi gestire il primo impatto con il cliente, quindi devi prenderti cazziate, tutto, devi dirti ogni giorno: “stamattina mi faccio la croce, mi siedo, tanto bellina, e mi acchiappo tutte le cazziate di questo mondo perché le persone che chiamano da noi lo fanno perché hanno un problema con il telefono, non perché ce l’hanno con me, a meno che non sono pazzi che ogni tanto pure capitano”.
Poi c’è il capitolo rapporti con colleghe e colleghi.
Allora, con l’ultimo vali online che ho avuto, ho fatto un passaggio da un gruppo a un altro, però sempre in front line, non sono passata in nessun altro gruppo fisso, perché c’è una mia collega che abita qui vicino, per poter venire insieme, per fare la pull car, come si dice da noi, dovevamo stare nello stesso gruppo. Un po’ mi fa ridere questa cosa, ma effettivamente dovevamo stare nello stesso gruppo per avere gli stessi orari, perché ogni gruppo poi ha un suo ciclo di turnisti ecc., e quindi io sono passata nel suo gruppo. I componenti del gruppo che ho lasciato mi piangono a morte, anche la mia team leader mi ha fatto una buona lettera di referenze. Direi che io supero le aspettative in merito all’approccio di gruppo perché sul piano personale riesco ad avere rapporti con tutti, non ho nessun tipo di difficoltà. Naturalmente ci sta chi ti sta un po’ più sulle scatole rispetto ad altri però fai buon viso a cattivo gioco, perché comunque sono persone che stanno là, non te le devi portare a casa; in cambio ci sono però anche persone con le quali instauri dei bei rapporti, che insomma non sono più solo colleghi, sono amici, proprio tuoi amici. Sì, anche se non potete vedermi ve lo dico io che mi metto la mano sopra al cuore ogni volta che dico “i miei amici”, perché si tratta di persone con le quali stai insieme gran parte della giornata e di conseguenza, anche se sei separata da un muro, perché tra una postazione e l’altra c’è un pannello che ti divide, un attimo per spostarti e scambiare una chiacchiera vuol dire, o anche fare la pausa insieme, andare a pranzo insieme vuol dire, perché tu lì ti apri, sei tu, non hai nessuno attorno, non hai per esempio tua sorella che ti condiziona, tua mamma che ti condiziona, che ti dice guarda che questa cosa non la devi dire, tu là ti apri, perché sono persone estranee, persone nuove, sono tante, di tutte le età, di tutti i ceti sociali e di tutte le caratteristiche, anche sessuali, perché ci sono molte donne in un call center, la percentuale è molto alta, e dei maschi che ci sono il 20% penso che sono gay, quindi c’è un rapporto molto buono, devo dire la verità, sì, sono apertamente gay, non hanno nessun tipo di problema, com’è giusto che sia, anche donne gay, io su queste cose non ho pregiudizi, non alzo barriere, per me vado tranquilla, a me non fanno nessun effetto.
Quando entro io nel call center mi guardano e fanno: eccola è entrata il sole, perché io quando entro faccio: buongiorno, buongiorno, perché sono di quelle persone che saluta, perché ho un lavoro che veramente, al giorno d’oggi, averlo è una gioia. E quando penso a quello che offre il mio quartiere me ne convinco ancora di più. Ci sono amiche mie del quartiere che mi guardano e mi dicono: mamma mia come sei fortunata! Sì, sono fortunata, perché ho un lavoro che di questi tempi nessuno tiene.
Che lavoro fanno le mie amiche? Mia cugina, che per me è una sorella, ha lavorato quasi sei anni in un negozio di abbigliamento intimo, in franchising, che poi è stato chiuso perché non andava. Un’altra mia amica carissima, quella che ho scelto come mia testimone di nozze, diplomata, laureata, ha 22 anni, scienze delle comunicazioni, fa interviste, va avanti e indietro, scrive per il giornale, è venuta qui l’altra sera e piangeva, perché lei non sa come uscirne fuori, dice che si sente in trappola, che lei vorrebbe fare, vorrebbe dimostrare le sue capacità. Lei se ne vorrebbe andare di qua, il fidanzato ha il posto qua, insomma è un casino.
Se sei nata e cresciuta in un contesto così, come fai a non dare valore al lavoro? Come fai, nonostante i sacrifici e la fatica, a non guardarti alle spalle, a non essere consapevole di quanto sia importante essere economicamente indipendenti?
Ecco, fermo restando che è difficile capire noi giovani come funzioniamo, almeno io faccio tanta fatica, per tentare di capirci almeno un po’ penso che bisogna capire tante cose, ad esempio la famiglia, il quartiere, le persone a cui vuoi bene.
Nel mio caso penso che il quartiere ha influito certamente, per la sua parte, perché mi ha costretto a costruirmi un carattere; come ho detto sono l’ultima di tre figlie femmine e sono sempre stata la pecora nera della casa. Giovanna uguale disastro. Disastro su tutto. Eppure questa cosa che io ero il maschiaccio, la pecora nera, mi ha permesso di costruirmi un carattere dove non c’è spazio per la timidezza, sono stata subito consapevole dell’importanza di non avere nessun impatto negativo con le persone.
Questo è un quartiere difficile, un quartiere di case popolari dove c’è più gente negativa che gente positiva, quindi tu dovevi andare a cercare le persone positive, insomma quelle come noi, che siamo una famiglia positiva.
Eppure c’erano delle persone positive, ad esempio delle mamme, che non volevano che le figlie mi frequentassero perché ero una bimba cattiva; sono stata cacciata da tre asili, ho rotto la testa a un bambino, in realtà l’avevo preso a gessate in faccia e lui era caduto, ma per il quartiere sono diventata una persona negativa, per certi versi il mio quartiere mi ha insegnato a essere sfrontata, a non avere paura. Quand’ero piccola, diciamo fino a 12-13 anni, questa sfrontatezza la usavo in maniera negativa, perché mi sentivo un po’ bulletta, ad esempio quando le mie sorelle più grandi litigavano con qualcuno intervenivo io, della serie “ehi tu, non fare il prepotente, forse non hai capito, ma io ti picchio”. Sì, ero proprio così, sfrontata su tutto. Con il tempo questa caratteristica l’ho modificata, diciamo addolcita, anche se adesso se fossero presenti le mie sorelle mi farebbero ’na cireata (un’occhiataccia) perché tutto zucchero e miele non lo sono mai stata, ma io sono così e ci tengo a dire che lo ritengo insieme un pregio e un difetto.
La mia verità è che quando vivi in un quartiere dove se anche solo per caso fai cadere una cosa a terra ti aggrediscono, devi imparare che in certe situazioni devi aggredire tu prima che ti aggrediscano gli altri. Non dimentichiamo che siamo vissute in un palazzo dove non era facile avere rapporti di vicinato, con quattro famiglie di camorristi in un palazzo di sei piani, la nostra famiglia e la famiglia di mia nonna.
Ad esempio non potevi scendere giù con la bici perché se volevi fare lo stesso giro che facevano loro non era possibile, ed è per questo che mia mamma teneva le mie sorelle così sotto controllo, represse. Vi state chiedendo chi sono “loro”? I figli dei camorristi, è ovvio. Loro sì che erano prepotenti, ti vedevano come ’o babbà, comme ’nu scemo, ti prendevano in giro pesantemente. Alle mie sorelle mamma riusciva a tenerle a casa, faceva venire le amiche da noi, ma io non me la sono mai tirata giù questa cosa. Io dovevo scendere, pigliavo la questione mia, litigavo, picchiavo e venivo picchiata.
Quante volte a mia mamma sono arrivate lamentele e reclami tipo: “signora, vostro figlio, quel maschietto biondo, alto, ha picchiato il figlio mio!”. Mamma rispondeva “ma io tengo tre figlie femmine!”. Lo so che l’avete già capito, ma il maschietto alto e biondo ero io, ero io che quello che avevo picchiato perché ero un uomo quando alzavo le mani! Non so se riesco a spiegarlo, ma è come se il mio essere aggressiva da piccola mi abbia portato ad essere una persona schietta e sincera da grande. Quindi come lo sono con voi in questo momento lo sono con gli amici e lo sono anche a lavoro. Naturalmente anche adesso non mi faccio passare la mosca sotto al naso, non esiste, ma non lo faccio perché io sono io, perché mi sento prepotente o importante, lo faccio perché penso che così dovrebbero essere le persone. Oggettivamente, se io dico a un’amica che secondo me con una determinata maglietta sta male, è solo un esempio naturalmente, lei non la deve prendere come un’offesa, non deve pensare che sono sgarbata. Lo so che pago un prezzo, che in troppi vedono maleducazione e antipatia dove invece c’è sincerità e schiettezza, ma non ci posso fare niente, sono fatta così e sono felice di esserlo.
Naturalmente sono anche una persona discreta. Ad esempio una signora che abita nel palazzo ogni volta che mi vedeva si passava la mano sulla pancia insistentemente. Io lo so che è sposata da qualche anno ma mica le ho chiesto: senti, sei incinta? È stata lei che qualche giorno fa mi ha bussata e mi ha detto: “senti, sono incinta”. E mica me lo devi dire per forza? Naturalmente le ho detto “che bello, auguri, tutto il bene di questo mondo”, e l’ho fatto con una sincerità assoluta. Ma se lei mi viene vicino e fa con la mano così tre ore sulla pancia, io non glielo chiederò mai se è incinta o no.
Ecco, direi che questo è più o meno il mio approccio, un approccio nel quale a un certo punto è entrato pure il sorriso telefonico. Che cos’è il sorriso telefonico? E adesso come ve lo spiego? Diciamo che se anche la telefonata di prima ti ha fatto proprio incazzare, perché ci sono delle telefonate così, tu alla telefonata successiva devi riuscire ad essere gentile e suadente come se niente fosse stato. Naturalmente non è facile, perché spesso il cliente che ti ha fatto arrabbiare è lo stesso che ti attacca il telefono in faccia, magari perché è arrabbiato perché la risposta che gli hai dato seguendo la procedura non gli piace o anche non gli risolve il problema come vorrebbe lui, insomma se la telefonata che hai fatto precedentemente ti ha fatto arrabbiare, quella che ricevi subito dopo ti deve far calmare, quindi, di conseguenza, mannaggia a me che senza la voce non vi posso far sentire l’intonazione, che quella l’intonazione è importante, invece di rispondere: W., buongiorno, sono Giovanna, rispondi: W., buongiorno, sono Giovanna, in cosa posso esserle utile? Se poteste sentirmi vi rendereste conto che in questo modo vi sto trasmettendo allegria, e questo aiuta. Naturalmente se tutto questo mi capita alle dieci di sera, dopo una giornata di lavoro, quando ho finito il turno, il mio “W. eccetera eccetera” è più serioso, e se lo volete capire lo capite che vi sto dicendo “adesso la dovete finire, non vi sopporto più, alle dieci di sera che andate trovando!”, invece verso le dieci e mezza undici di mattina sono tutta un “W. buongiorno!, cosa posso fare per voi”, ma questo è normale. Ecco direi che questo è il sorriso telefonico, l’intonazione della voce, l’approccio che, lo ripeto, dipende pure dalla telefonata che hai acchiappato prima, perché la telefonata di prima che ti ha fatto arrabbiare è molto probabile che ti ha anche peggiorato la media e dunque tu cercherai di riprenderti immediatamente, già dalla telefonata successiva.
Vi state chiedendo cos’è la media? Dovete sapere che ogni settimana ci viene dato un obiettivo da raggiungere che viene misurato sulla base delle interviste che vengono fatte al cliente che ha telefonato al nostro numero. L’intervista ha lo scopo di verificare l’indice di gradimento del cliente rispetto alla telefonata che ha effettuato, quindi la qualità percepita sulla telefonata, la correttezza delle informazioni, ecc., con un punteggio che va da 1 a 5, ma naturalmente il cliente ti può dare tutti 1 anche se gli hai dato un servizio impeccabile, oppure può staccare prima della fine e viene tutto cancellato. Lo vogliamo dire?, e diciamolo, è abbastanza discutibile come metodo di valutazione.
Detto tutto questo, aggiungo che se mi chiedete dove mi vedo tra dieci anni dal punto di vista lavorativo vi rispondo al call center, però in un altro reparto. Sì, è questo quello che vorrei. Vorrei essere al call center business, perché hanno, parlando praticamente, degli orari che mi permetterebbero di far entrare la famiglia nella gestione lavorativa, perchè si fanno orari più normali, dalle nove del mattino alle cinque di pomeriggio, il sabato a casa, i festivi a casa, perché dovete sapere che noi lavoriamo anche i festivi, a Natale, a ferragosto, sempre, e quindi riuscirei a gestire in maniera più adeguata una casa, un marito, dei ragazzini, dei bambini, quelli che saranno. Al settore business si gestiscono soltanto le aziende, di conseguenza si fanno orari aziendali. Sì, spero vivamente di riuscire ad entrare, ce la sto mettendo tutta perché per me il lavoro è importante, però sarebbe importante anche far rientrare la mia famiglia, perché adesso è difficile per me gestire la casa e il marito.
Non ve l’ho detto ancora ma mio marito ha un ingrosso di bibite (qualsiasi cosa volete bere passate a trovarmi, non c’è solo l’acqua, ci sono anche la T., la C.C., la F., insomma quello che volete, oltre naturalmente al caffè), anche se in realtà mi sposerò tra qualche mese, in questo momento sto facendo una piccola convivenza, mi sposo perché voglio un figlio. Dato che sono tradizionalista non mi piace fare il figlio senza prima aver convolato a nozze. Papà mi ha detto: “ma che te ne importa”? Fai il figlio, non ti sposare!”. “No no – gli ho risposto – non scherziamo, io voglio fare le cose in regola, mi debbo prima sposare.»