Nicola, il nonno e il lavoro che serve per vivere bene

Caro Diario, Nicola Delvecchio è una delle tante belle connessioni che devo a Giancarlo Carniani, che ha avuto la bizzarra idea di coinvolgermi nel comitato di programma di BTO2017 | TEN insieme a vecchi amici come Rodolfo Baggio e Robi Veltroni e nuovi amici come Nicola e altre/i che mi sa che prima o poi ti presenterò. 
Come e perché mi succede lo sai: un po’ sono curioso della curiosità quella bella, quella che ti spinge a sapere nel senso di conoscere e imparare, un po’ quelli che mettono testa, mani e cuore in quello che fanno li riconosco dall’odore che hanno addosso, un po’ ti ritrovi seduto allo stesso tavolo durante una pausa pranzo e alla fine si accende la lampadina, si crea il link, dopo di che tu invii le tue tre domande tre e le persone quando hanno la testa e il tempo per risponderti lo fanno, Nicola ci ha messo un paio di mesi e mezzo ma poi comunque eccolo qua.
Quello che avevo scoperto già di mio è che insieme all’amore per le cose fatte bene condividiamo quello per Procida, il pane e la scarpetta, le polpette al sugo e la parmigiana di melenzane; che a lui piace molto la musica di Vasco Rossi e a me abbastanza; che sul lavoro non gli piace l’approssimazione, la furbizia volta a fregare il prossimo, la poca trasparenza, la prepotenza, chi vende il nulla, chi pensa solo a vendere, il denaro facile, chi non si impegna, chi non sa lavorare in squadra, mentre invece gli piace chi trasmette quello che sa, chi studia e prova, chi parla e dice delle cose che fa.
Come dici amico Diario? Sì, lui è proprio così, adesso te ne rendi conto da solo, perché il resto te lo faccio raccontare da lui, poi alla fine mi dici se ti è piaciuto.
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«Ciao Vincenzo, ti scrivo come se fosse una lettera me stesso. È tanto tempo che non scrivo anche se a scuola era la cosa che mi piaceva fare di più. Quindi perdona qualche errore o refuso. 
Non è facile decidere da dove partire quando si parla di se stessi, così ho deciso di farlo parlandoti della mia terra, anzi della mia acqua, insomma dal fatto che sono nato e cresciuto in una frazione del comune di Ferrara chiamata Pontelagoscuro

«Un nome abbastanza curioso.»
«Vero, ma se lo osservi bene ci trovi tanti significati tra cui l’acqua (il fiume Po su cui il paese nasce) la terra («scuro» infatti è riferito al fatto che una volta quella zona era molto paludosa) e il lavoro (il ponte costruito, distrutto durante la guerra e ricostruito).
Provengo insomma da una terra di grandi lavoratori, una zona che non è Emilia, non è Romagna e nemmeno Veneto. È il ferrarese, un’area un po’ anomala e di confine ma che è stata raccontata da poeti e autori come D’Annunzio, Pascoli e Bassani.
Sono nato 32 anni fa in queste zona a causa di una scelta di lavoro: mio nonno Bartolomeo nel 1952 è stato costretto ad emigrare al Nord dalla Puglia, precisamente da Barletta, perché aveva trovato un importante posto di lavoro come elettricista nella Montedison (attualmente Basell). Al tempo gli  chiesero di scegliere tra lo stabilimento di Milano e quello di Ferrara, e lui optò per quest’ultimo.
Dopo pochi anni nasce il suo primogenito Donato – mio padre – il quale a 23 anni sposa una ragazza ferrarese doc, Isabella. Da qui inizio io con la mia origine ferrarese/pugliese di cui ti confesso vado molto fiero.»

«Alla voce scuola cosa mi racconti?»
«A Pontelagoscuro ho frequentato le scuole elementari e medie, poi mi sono iscritto all’istituto professionale alberghiero Orio Vergani di Ferrara. A 15 anni ho deciso che volevo lavorare nel mondo dell’ospitalità. Questo desta scalpore e stupore tra insegnanti e parenti (ricordo ancora molte prese in giro a pranzi e cene con zii e cugini) perché il luogo comune prevede che, a differenza degli altri paesi europei, in Italia fare la scuola alberghiera equivale a non aver voglia di studiare.
E invece io anche allora ero uno a cui piaceva studiare e applicarsi. E questa scelta, forse la più importante della mia vita, è un fulmine a ciel sereno per tutti tranne che per i miei genitori che mi appoggiano e mi danno tanta libertà e serenità anche in questa fase. In ogni caso è la mia scelta e la porto avanti con determinazione.»

«Hillmann avrebbe detto che è una questione di carattere, di daimon, di codice dell’anima. Ma se tu dovessi dirmi adesso perché scegliesti proprio quel tipo di scuola che cosa mi diresti?»
«Ti direi che la scelsi perché, forse senza esserne consapevole, volevo lavorare con le persone e per le persone, vederle felici, lasciare un segno. E il settore turistico – che mi piace definire un mondo felice e colorato – mi sembrava quello più adatto – direi ideale – per dare libertà al mio desiderio e alle mie attitudini.
Ci sono stato 5 anni nella «mia» scuola alberghiera, e non solo l’ho frequentata ma l’ho proprio vissuta. Sono stati cinque anni che mi hanno reso prima uomo e poi studente, prima professionista e poi alunno.
Ho sempre lavorato per le persone più che per le cose. Mi appassionavo alle storie e alle passioni altrui e la stima verso gli altri mi ha sempre spinto a dare di più.»

«Insomma eri così come sei adesso già in quegli anni.»
«Sì, anche a scuola ero così. Se stimavo un professore il mio impegno duplicava, anche se sua la materia era di difficile comprensione. Devo dire che sono stato fortunato, ho trovato sulla mia strada insegnanti fantastici, genuini, molto preparati e di uno spessore umano ormai sempre più raro.»

«E dopo?»
«Dopo decisi che era ora di andare via da Ferrara, di provare a vivere fuori, e così mi sono iscritto al corso di Laurea di Economia del Turismo a Rimini, Ateneo di Bologna. Anche in questo caso sono stato protagonista dello stesso film già vissuto 5 anni prima, della serie ma perché vai a Rimini che lì si studia meno, vai a Bologna, vai a Milano.
Questa volta però devo riconoscere che, a parte la fantastica l’esperienza di condivisione con i miei coinquilini storici, gli anni universitari non li ricordo con molto piacere, un po’ perché non mi piaceva l’ambiente accademico, non mi è mai piaciuto in generale, un po’ perché mi sono laureato con un anno e mezzo di ritardo perché non riuscivo a superare l’esame di Statistica.»

«Quello è stato tosto anche ai miei tempi a Sociologia.»
«In realtà l’esame poi l’ho superato con un gran ventotto/trentesimi, e la statistica, pensa un po’, è una materia che ancora oggi utilizzo e ricordo con piacere. La verità è che avevo vissuto molto male il fatto di essere andato fuori corso, lo consideravo un po’ come un fallimento. Da quel «fallimento» però, per uno strano caso del destino, nacque la possibilità di fare uno stage in una società che si occupava di consulenza e formazione alberghiera; era una società che già anni prima avevo conosciuto e il cui approccio e ambito mi piaceva molto, e poi adoravo la possibilità di poter imparare e trasmettere di continuo. Morale della storia ho conosciuto persone e professionisti che mi hanno insegnato moltissimo di quello che so ora e alle quali devo gran parte della mia attuale passione per l’ospitalità. In particolare Mauro e Alfredo, da cui ho appreso l’arte della consulenza e della formazione alberghiera.
Ancora oggi collaboro con questa società, anche se naturalmente ho fatto anche tante altre esperienze che mi hanno aiutato a confermare la mia passione per la trasmissione e lo scambio di conoscenza.»
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«Possiamo dire che fai il consulente alberghiero?»
«No Vincenzo, io non faccio il consulente alberghiero, io sono consulente alberghiero, nel senso che lo sento proprio dentro di me il mio lavoro. Per me è prima un modo di pensare e di vedere le cose e poi una professione. E ad oggi probabilmente non mi vedrei a fare altro. Credo che per trasmettere e nel migliore dei casi insegnare qualcosa non bisogna sapere, bisogna essere. Come dice Jean Jaurès “Non si insegna quello che si vuole, dirò addirittura che non si insegna quello che si sa o quello che si crede di sapere; si insegna e si può insegnare solo quello che si è”.
Mi occupo di marketing operativo nel senso di “to market”, ovvero di prendere qualcosa e metterlo sul mercato. Mi piace aiutare gli albergatori e chiunque si occupi di ospitalità a ripensare il proprio prodotto e servizio per offrire più valore e avere maggiori soddisfazioni economiche. Lavoro in team di progetto per creare nuovi concept alberghieri, per rilanciare strutture in difficoltà o per creare qualcosa che oggi non c’è. Mi piace moltissimo anche tutta la componente digital e di webmarketing ma non fine a se stessa. Anzi credo che nel settore alberghiero e turistico ci si sia troppo concentrati solo sugli aspetti legati all’online dimenticandosi talvolta che senza essere bravi offline difficilmente si può avere successo anche su internet.»

«Va bene Nicola, mi sembra abbastanza chiaro, ma proviamo a fare un sforzo ulteriore, prova a dirmi in cosa consiste concretamente il tuo lavoro.»
«Diciamo che dal punto di vista operativo tutti i giorni incontro e parlo con i miei clienti per cercare di risolvere le loro problematiche; faccio programmazione e faccio sì che ogni progetto prosegua nel verso giusto e nei tempi giusti; creo e seguo le campagne di marketing decidendo i budget d’investimento e misurandone i risultati; racconto come innovare una struttura con le mie idee e le mie presentazioni; mi confronto con tantissime professionalità diverse, dalle agenzie di comunicazione agli architetti, dagli investitori alberghieri fino ai direttori o ai front office degli hotel. 
Sì Vincenzo, ho la fortuna di fare un lavoro molto variegato, e ogni giorno dedico parte del mio tempo all’aggiornamento, leggendo, rileggendo e approfondendo appunti, articoli, punti di vista, preparando i contenuti dei miei corsi di formazione. È questa una parte fondamentale del mio lavoro, difficile avere buone idee o pensare qualcosa di veramente innovativo se non stai sempre sul punto e dunque sono sempre alla ricerca del miglioramento e non avendo modo di frequentare master o corsi strutturati, cerco di auto apprendere molto. 
Naturalmente anche a me come a tutti capita di fare errori, però ti dico che il 90% delle cose che creo e che trasmetto agli altri sono frutto di mie personali riflessioni ed esperienze sul campo, e di questo vado molto fiero.
Ciò detto, sottolineo che non posso fare a meno del lavoro di squadra. Credo nel team e credo nella condivisione di successi e sconfitte. Personalmente non avrei potuto fare nulla se non ci fossero state valide persone con me ad aiutarmi, sopportarmi, supportarmi o guidarmi.»

«Nicola, per finire mi dici perché per te il lavoro è importate, vale?»
«Il lavoro è importante perché quando lo fai con serenità, passione – non intesa come sofferenza – ironia e piacere è la cosa più bella del mondo. 
Secondo me ciascuno di noi dovrebbe avere il diritto di fare un lavoro che gli piace, che lo gratifica, che gli trasmette delle belle sensazioni. Per quanto mi riguarda cerco sempre di capire se sto facendo una cosa che mi dà piacere, che mi alleggerisce e non mi appesantisce. Penso che il lavoro non debba servire per vivere ma per vivere bene, in pace con se stessi e con gli altri. 
Vedi Vincenzo, mio nonno è scomparso ad agosto 2016, in soli due mesi un brutto male se l’è portato via. Sapevo quanto adorasse parlare del suo lavoro e l’ultimo dialogo che ho avuto con lui è stato relativo proprio alla sua esperienza da elettricista, a quanto gli piacesse dare la luce alle case e alle persone. Vuoi sapere con quale frase mi ha lasciato?»
«Certo che si!»
«Mi ha detto “sai Nicola, mi piacerebbe tanto poter lavorare ancora un po’.” Ecco Vincenzo, per me il lavoro vale per questo, perché è salute, è benessere, è vita.»
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